Nato inizialmente come capitolo per una storia della letteratura italiana, il
saggio uscì per la prima volta come testo a sé, con il titolo L'influenza
culturale di Benedetto Croce, su «L'Approdo letterario». Divenne poi un
opuscolo, con lo stesso titolo, infine, nel rivedere i suoi saggi, Contini lo
inserì nella raccolta Altri esercizi (1942-1971), e ivi uscì come volume a sé
nella collana «Saggi brevi» e con il titolo La parte di Benedetto Croce nella
cultura italiana.
Il saggio tende a descrivere e analizzare quelli che, secondo l'autore, appaiono
i contributi più rilevanti del filosofo, spesso confrontandosi con il crociano
Contributo alla critica di me stesso (1918). La «parte» di Benedetto Croce
riguarda molti ambiti intellettuali, dove sembra prevalere un'esigenza di
sistematicità, e dove l'«inquietudine si traduce nell'istanza d'una
giustificazione, nella necessità di aggiungere al fatto la coscienza del fatto».
Gli interessi e i contributi crociani si muovono così in un orizzonte che va
dalla Logica all'Economica, dall'Etica all'Estetica; e proprio dall'Estetica del
1902 Contini fa iniziare l'avventura del filosofo e del critico, un'avventura
che si caratterizza sempre più come un lungo e fruttuoso confronto con
l'universo dell'arte e della letteratura: per l'autore, infatti, Croce è, in
primo luogo, un critico letterario.
Gli esordi del filosofo appaiono legati all'erudizione, nel «tentativo
d'impadronirsi degli "oggetti" della cultura»; da qui i primi saggi storici di
ambiente napoletano (Storie e leggende napoletane, La rivoluzione napoletana del
1799, La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza) e soprattutto
l'embrionale esercizio di quella coscienza storica che contraddistinguerà i
momenti salienti della sua carriera. In particolare, questa consapevolezza
storica e la messa a punto di una teoria storiografica originale, in netto
rapporto con l'universo artistico, pone il filosofo abruzzese in confronto
diretto e problematico con Vico e Hegel. E dalla sintesi delle loro riflessioni
(«storia ideale eterna» e «dialettica») nasceranno in seguito le punte più
avanzate del suo pensiero, quello che Contini chiama «il "vivo" del Croce».
Proseguendo in ordine cronologico, però, non è ancora il raggiungimento di una
tale prospettiva a motivare e sostenere filosoficamente la nascita dell'Estetica
(1902): per l'autore, Croce giunge a queste formulazioni con un debito maggiore
nei confronti di De Sanctis e Kant. È attraverso la «decisiva rilettura»
desanctisiana che il critico - hegeliano «pochissimo dogmatico» - perviene
all'essenziale superamento del «limite funerale della già scampanata fine
dell'arte»; e, contemporaneamente, è dalla kantiana Critica del giudizio,
attraverso l'elaborazione dell'arte come «finalità senza fine», che deriva la
prima risoluta affermazione dell'«autonomia dell'arte». A seguito di questi
sviluppi, dunque, l'arte «non è più storia»: l'origine e l'approdo ideale di
questa «prima» Estetica consistono proprio nello scindere e nell'opporre queste
due componenti essenziali della sua riflessione, in nome di un'effettiva
«anteriorità dell'arte» rispetto al giudizio di realtà: concezione, quest'ultima,
che conduce alla definizione dell'arte come attività conoscitiva, che si risolve
quindi nella «proclamata identità di intuizione ed espressione, kantianamente
sentita come sintesi a priori e affermata come identità di forma e contenuto».
Da ciò anche la concezione della «lingua come creazione e poesia anziché,
razionalisticamente, come comunicazione e strumento»; e ancora, tra i corollari
della priorità dell'arte, «la negazione della pluralità (fosse pur solo dualità)
delle arti, dei generi letterari, degli stili, infine della traduzione come
sostitutiva dell'originale».
Per il Croce dell'Estetica «la poesia non è né romantica né classica, se questi
pretendono di essere predicati categoriali, ma è l'una e l'altra cosa insieme,
cioè impulso e composizione, passione e dominio»; appoggiandosi «goethianamente»
alla nozione di classicítà, egli mette fine alla «tradizione classicistica o
umanistica, legata a un canone, a un numerus clausus, a un cursus studiorum
certo e limitato». Ciò non toglie, tuttavia, che Croce definisca come unica vera
poesia quella classica, che arrivava secondo lui fino a Carducci, condannando e
disprezzando apertamente il successivo decadentismo.
E proprio contro la presunta arte decadente - o tacciata di «insincerità» - si
indirizzano i «saggi concreti» della Letteratura della nuova Italia (1914-15),
che fanno di Croce, secondo Contini, un autentico critico militante: «Croce
prese a giudicare degli italiani contemporanei [...] per un motivo
prevalentemente intellettuale, perché la concretezza della problematica critica
si converte, per usare il verbo vichiano-crociano, in critica militante». In
questi saggi il critico introduce l'«analisi distintiva categoriale», escludendo
dal pantheon artistico e condannando con metodo rigoroso e severo la «non arte
che si offra come arte». Pascoli, D'Annunzio, il Futurismo e le avanguardie, lo
stesso Pirandello costituiscono l'espressione più esplicita di un «solido non
essere poetico, che poi è vizio morale». Letteratura «viziata» perché mancante
di «unità», ovvero «mancante di una caratterizzazione o qualificazione mediante
un sentimento dominante»; oppure perché animata da un sentimento di natura
degradata e debole, come dimostrerebbe la già menzionata «insincerità» di
Fogazzaro e dei decadenti. A questo punto, nell'itinerario e nella parabola
storico-critica di Croce, «l'avversione a determinati ordini di sentimenti»
impone l'approfondimento del rapporto tra poesia e sentimento stesso, e la
conseguente introduzione della nozione di «liricità» e di «cosmicità», che il
filosofo abruzzese mette a fuoco a partire dai testi che confluiscono nel 1909
nei Problemi di Estetica.
Il libro viene considerato da Contini una «prima integrazione» dell'Estetica:
qui emerge l'ideale di arte come «sublimazione» di un sentimento.
Successivamente l'arte è concepita come attività totale dello spirito, «eco e
compendio di tutto l'uomo». Essa, pertanto, coinvolge «non semplicemente la
pratica, ma quella sua forma più complessa che è l'etica», fatto che «equivale a
una reintroduzione della moralità (o si dica addirittura del moralismo) in
estetica», dal momento che la moralità stessa è sussunta come potenza unificante
dello spirito.
Contini individua nella prima guerra mondiale la cesura storica (e non solo
storica) tra il «cosiddetto "primo" e il cosiddetto "secondo" Croce». Il periodo
post-bellico è contrassegnato da una «polemica di custodia e di difesa, non di
attacco e seppellimento», e centrali risultano le varie monografie sui grandi
classici della letteratura europea. La «monografia caratterizzante» assume la
tonalità del sentimento prevalente, il «momento dell'unità» e, oltre a
costituire una vera e propria «riforma» nella metodologia crociana, rappresenta
a pieno titolo quella che Contini definisce «la fenomenologia esemplare della
critica moderna». Nascono in questa prospettiva i saggi su Goethe, Ariosto,
Shakespeare, Dante, nonché il celebre Poesia e non poesia (1923 ).
La «terza e definitiva "integrazione"» dell'Estetica consiste nella
reintroduzione «nel circolo vitale e pratico» dell'arte come totalità.
Nell'ampio saggio sulla Poesia (1936), a cui Croce giunge dopo circa un decennio
di studi storiografici oltre che letterari, la giustificazione crociana della
letteratura si offre «come affermazione di vita civile, di un pubblico governo
degli animi», in relazione all'«andatura politica» seguita dal filosofo a
partire dal Manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925. E in quest'ottica
militante vanno naturalmente ricondotte e inquadrate le due opere storiche del
periodo (Storia d'Italia, 1928, Storia d'Europa, 1932, che si scagliano contro
«la pessima letteratura e la nefasta mitologia dei nazionalisti», la prima in
aperta e "domestica" polemica contro il regime fascista, la seconda proponendosi
come un'autentica ed entusiasta storia dell'idea liberale. Questa fase, per
Contini, segna indubbiamente l'apparire di un «"terzo" [...] Croce, entusiastico
o religioso: non più moralista ma posseduto dalla passione etica». La lotta
crociana si svolge ora per lo più sul versante etico, filosofico e storico, in
opere poi compendiate in Filosofia e storiografia (1949) e Storiografia e
idealità morale (1950), dove la passione etica e civile si riverbera in una
filosofia «ripristinata nella storia e nel fare».
L'ultima breve parte del saggio continiano è dedicata all'analisi dell'effettiva
influenza di Croce nella cultura italiana, nonché delle possibilità concrete
che, in ambito critico, ancora si offrono ai seguaci del filosofo. Per il primo
punto, il giudizio di Contini non lascia dubbi sul ruolo esercitato da Croce:
«Un'azione così rapida e diretta sulla cultura generale d'un Paese è quasi
inedita nella storia dei filosofi, almeno dopo l'antichità; pareva appannaggio
di grandi giornalisti o mitologi, presso i settecentisti francesi, in minor
misura presso Schopenhauer o Nietzsche; e non per caso l'unico esempio
comparabile, sebbene non altrettanto intenso, è quello dello scrittore Bergson
rispetto alla cultura francese». Per quanto riguarda il «postcrocianesimo», la
partecipazione continiana si fa evidentemente più sentita. È significativa
l'icastica e inequivocabile affermazione secondo cui «il solo modo di essere
crociani è di essere postcrociani: come, per il Croce stesso, il solo modo di
essere hegeliano fu di essere posthegeliano». In pratica, l'autore seleziona un
«ordine del giorno», per i critici postcrociani, che si fondi, sì, sul magistero
del maestro, ma che da questo si apra ad altri orizzonti: in primo luogo, a una
critica letteraria «rivolta a sentimenti (o modulazioni di sentimento) altri dai
tradizionali»; in secondo luogo, a un «uso concreto della filologia e della
stilistica perfettamente funzionale» (queste erano pressoché sempre poste da
Croce in condizione «ancillare»); in terzo luogo, a una critica letteraria che,
«frequentando la figurativa e la musicale, esorbiti da una storiografia di «personalita»
e di «sentimento».
È uno dei saggi più "personali" e "autobiografici" di Contini, scritto come egli
dice nella «Avvertenza» all'edizione del '67 - in forma «parte didascalica parte
polemica». E sempre nella «Avvertenza» si legge: «È il "fondo di cassetto" che
qui ardisco pubblicare [...] perché è una testimonianza a caldo resa un anno
prima della morte di quel sommo atleta della cultura: testimonianza che non si
potrebbe aggiornare senza surrogarle qualcosa di molto diverso, senza corrodere
la genuinità, si dica pure inattuale, e dell'ammirazione e, perché non dirlo?,
dell'impazienza».
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