Il titolo originario, La peste, fu mutato in quello definitivo a causa della
pubblicazione dell'omonimo romanzo di Albert Camus, nel '47. Alcune parti del
romanzo uscirono dapprima sulla rivista francese «Carrefour», tra la fine del
'47 e l'inizio del '48; una versione in undici parti fu poi pubblicata sul
«Martedì», fra l'aprile e il giugno del '48; deterioratosi quindi il rapporto
con l'editore Bompiani, La pelle uscì in volume, articolato in dodici capitoli,
presso l'editrice Aria d'Italia di Daria Guarnati. Nello stesso anno apparve in
Francia, tradotto da René Novella.
Il primo capitolo («La peste») si apre sulla tumultuosa Napoli della
Liberazione: Malaparte e il colonnello Jack Hamilton avanzano tra la folla
caotica che offre uno spettacolo orribile e pietoso; tra le prime immagini di
mostruosità e atroce bizzarria del romanzo si segnalano le surreali nane che
popolano il Pendino di Santa Barbara (quartiere partenopeo), simili a
«mostriciattoli di Bruegel o di Bosch», emblemi di deformità contrapposti alla
perfetta bellezza dei soldati americani. La «peste» di cui parla Malaparte è una
peste morale, che ha contaminato l'Europa dopo la Liberazione: prostituzione,
corruzione, delazione, ignobiltà, questi i sintomi dilaganti. Un esempio di tale
orrore etico è offerto dal capitolo seguente, «La vergine di Napoli»: Curzio,
questa volta in compagnia del giovane tenente Jimmy Wren, buon ragazzo
americano, si reca in un «basso» napoletano dove un uomo, per un dollaro a
persona, mostra ai soldati americani una ragazza vergine, distesa sul letto a
gambe larghe, invitando i clienti a verificare l'effettiva illibatezza della
giovane. Altrettanto ignobile e «marcio» è il commercio di «parrucche» che
Curzio e Jimmy osservano nel capitolo «Le parrucche»: si tratta di grotteschi
ciuffi di peli biondi da vendere ai negri che «like blondes», prediligono il
vello pubico biondo. Malaparte, in lacrime, mostra quei trofei ai militari
americani disgustati, esclamando: «ecco che cosa è ridotta una donna, una donna
italiana: un ciuffo di peli biondi per soldati negri. Guardate, tutta l'Italia
non è che un ciuffo di peli biondi». Un altro esempio di ignominia è offerto,
nel capitolo quarto («Le rose di carne»), dagli omosessuali europei che giungono
a Napoli per approfittare dei giovinetti disperati che vendono il proprio corpo;
Curzio si incontra con il nobile Jeanlouis, giovane omosessuale di bellezza
greca, e ha uno scontro con un gruppo di ragazzi gay ricchi e comunisti. La
rabbia ideologica di Malaparte, che si scaglia contro un'ambigua identificazione
di marxismo e pederastia, culmina nella visione di un'Europa ridotta a «un
mucchio di carne marcia». L'orrore per la «corruzione dei costumi» si propaga
anche al capitolo seguente («Il figlio di Adamo»), dove l'autore e il colonnello
Jack assistono alla «figliata», un rituale omosessuale arcaico, «meraviglioso» e
insieme «orribile», in cui si mima un parto maschile, ove il feto è un simulacro
di legno dallo smisurato fallo. La reazione violenta dell'onesto Jack all'orgia
sodomitica conclude il capitolo in una analoga orgia di retorica barocca e
moralistica.
Il capitolo sesto («Il vento nero») rievoca un episodio terribile nell'Ucraina
del 1941, quando l'autore si era trovato in un bosco infernale-dantesco di
uomini crocifissi agli alberi; un ulteriore pannello di questo capitolo è
dedicato al ricordo del proprio cane Febo, martoriato orrendamente in una
clinica veterinaria di Pisa; nell'ultima sezione Malaparte tenta in tutti modi,
e con successo, di alleviare le sofferenze di un giovane soldato americano
atrocemente dilaniato negli intestini dallo scoppio di una mina: «Mangerei la
terra, masticherei i sassi, ingoierei lo sterco, tradirei mia madre, pur di
aiutare un uomo, o un animale, a non soffrire». Nel capitolo settimo («Il pranzo
del generale Cork»), a un banchetto elegante di ufficiali alleati e signore
americane viene servita la Sirena, pesce dell'acquario di Napoli che ha
l'aspetto di una bambina bollita: i commensali sono orripilati ed esigono
ingenuamente che il pesce-bimba sia seppellito come un essere umano. Nel
capitolo settimo («Trionfo di Clorinda») il Principe di Candia, nobile
napoletano, accoglie nel suo palazzo la folla stravolta sopravvissuta a un
bombardamento limitrofo: le esequie di una giovinetta morta, «distesa nuda sulla
tavola», suggeriscono all'autore un paragone con quelle dell'eroina tassiana
Clorinda. Nel capitolo «La pioggia di fuoco» è un'eruzione del Vesuvio a
stimolare una descrizione apocalittica, per cui di nuovo è messa in gioco una
figuratività dantesca, in chiave, come sempre, fortemente estetizzante. Il
capitolo decimo, «La bandiera», narra dell'ingresso degli alleati a Roma, con un
terribile episodio centrale: uno sfortunato finisce sotto le ruote di un carro
armato e si riduce a un informe cadavere, sottile come una bandiera grottesca,
un orrore che riassume in sé tutto l'irrazionale schifo della guerra: «quella
bandiera di pelle umana era la nostra bandiera, la vera bandiera di noi tutti,
vincitori e vinti, la sola bandiera degna di sventolare, quella sera, sulla
torre del Campidoglio». L'undicesimo capitolo, «Il processo», è ambientato a
Firenze, poi a Prato, infine a Roma: scene di violenza e di esecuzioni sommarie
di partigiani nei confronti dei fascisti configurano un quadro di ulteriori
orrori, quelli della guerra civile e dei suoi strascichi. Il capitolo si
conclude su un sogno dell'autore, in cui Mussolini, ridotto a un flaccido e
mostruoso feto, viene processato e finalmente fatto oggetto di una tormentosa
pietà: «Mi hanno scannato, mi hanno appeso per i piedi a un uncino, mi hanno
coperto di sputi», mormora, trasformato in una sorta di Cristo paradossale, in
un martire disgustoso che pure suscita compassione. L'ultimo capitolo, «Il Dio
morto», rievoca l'ascesa di Malaparte con Jimmy sulla cima del vulcano spento,
il Vesuvio, immagine di un mondo morto: l'Europa è ormai «un mucchio di
spazzatura», ma Curzio non vuole seguire l'amico in America, nella terra dei
vincitori. In fondo, conclude l'autore, «è una vergogna vincere la guerra».
La pelle è un'opera narrativa che miscela l'invenzione al documento, il diario
giornalistico al romanzo, la memorialistica alla visionarietà. Malaparte, in una
lettera a Bompiani, la definisce «opera di fantasia», ma anche «romanzo storico
contemporaneo». Si apparenta così in dittico a Kaputt: «Siamo di fronte, sia in
Kaputt sia ne La pelle, a una fiction based on facts: ogni fatto narrato è vero
ma è trasformato dall'arte», scrive Luigi Martellina. Più che un romanzo storico
allora, in cui si verificano vicende che non sono accadute ma che sarebbero
potute accadere, siamo di fronte a una vera e propria storiografia retoricamente
e narrativamente organizzata, opus oratorium maxime, come intendevano gli
antichi (e Malaparte evoca appunto Tucidide e la sua descrizione della peste
ateniese per fare un esempio di storico-artista che non arretra davanti
all'orrore). Una storiografia non tanto (o non solo) «romanzata», quanto
moralizzata e dilatata sul piano visionario e su quello espressivo. L'iconicità
estrema e violenta, il gusto costante della bizzarria atroce, del «meraviglioso»
che si sposa all'«orribile», avvicinano La pelle al mondo barocco-latino di un
Lucano, mentre la miscela di «pietà» e di «orrore» è più squisitamente
virgiliana (Malaparte aveva un'ottima cultura classica); d'altra parte il
realismo senza veli, il realismo che sconfina nell'accensione visionaria è un
portato del naturalismo decadente di uno Zola o anche, in misura minore, di
D'Annunzio. L'espressionismo malapartiano, che avvicina La pelle ai grandi testi
novecenteschi europei di Gadda o di Céline, pur senza averne la dirompenza
linguistica, si nutre anche di modelli anti-espressivistici, come Manzoni
(evocato e quasi citato nell'episodio dell'«ora dei morti» del terzo capitolo:
«Per uno di quei vicoli, recando fra le braccia un morticino avvolto in un
lenzuolo, veniva quasi di corsa un uomo barbuto [...]») e spesso compone il
proprio discorso in forme nobilmente classicistiche (si pensi ai paragoni: «Come
la lupa nelle foreste del Settentrione, inseguita dai cacciatori e dai cani, s'inforra
col lupacchiotto ferito nel profondo del bosco...», ottavo capitolo). Malaparte
evoca e mette in gioco tutta la sua cultura, da Orazio a Winckelmann, a Proust,
ed è lo snobismo di gusto proustiano la cifra forse più caratterizzante il gesto
autobiografico malapartiano, che comunque risulta generoso e fondamentalmente
sincero, nonostante certe idiosincrasie ideologico-moralistiche.
Il romanzo fu assai discusso, spesso violentemente criticato; Emilio Cecchi, fra
gli altri, scrisse: «Ha tirato in ballo, ha spogliato d'ogni decenza miserie,
vergogne, atrocità troppo gelose, per adoperarle a scopo letterario». Nel 1950
La pelle fu messo all'Indice dei libri proibiti dall'autorità ecclesiastica.
Oggi si tenta una revisione critica complessiva dell'intera opera malapartiana.
Innumerevoli, dopo la prima edizione, le ristampe e le versioni in lingua
straniera; si segnala, fra le altre quella curata da Enrico Falqui con appendice
di «Documenti autobiografici». Dalla Pelle, nel 1981, è stato tratto un film con
la regia di Liliana Cavani; protagonista Marcello Mastroianni; altri interpreti
Ken Marshall, Alexandra King, Carlo Giuffré, Burt Lancaster, Claudia Cardinale.
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