Giuseppe in Italia è l'autobiografia di Raimondi, dalla nascita, nel 1898, alla
fine della seconda guerra mondiale, strutturata in trentotto brevi capitoli
numerati. Nelle pagine introduttive, l'autore dichiara i propri intenti: «vorrei
fermare il ricordo, e qualcosa come l'esempio d'una vita che assai per tempo, e
con qualche sacrificio di ambizioni e di riconoscimenti civili, pure gradevoli,
si prefisse un carattere e un ordine umano; e per questi si spese». E sul
ricordo e l'esempio si incentra, in effetti, il testo, in cui l'autore, più che
raccontare, evoca la propria vita, la propria crescita intellettuale e la
faticosa conquista di una "identità", sullo sfondo di cinquant'anni di storia
italiana, dal fine-secolo umbertino ai giorni cruenti della seconda guerra
mondiale: sulla quarta di copertina dei «Gabbiani» l'argomento era sintetizzato
con la formula «dall'Italietta all'Italia».
Non si ha un resoconto limpido dei fatti, bensì un continuo flusso di pensieri e
di immagini, suscitato da nomi e oggetti del passato: emozioni e sensazioni
ripercepiti mediante il filtro dell'esperienza intellettuale e organizzati in
brevi frasi nominali e lunghe parentesi. Raimondi si mostra consapevole di tale
intermittenza, quando si scusa delle frequenti digressioni dal racconto
principale, spiegando che «il legame dei fatti lo annoia», e riprende quella che
definisce una «insopportabile cronaca». Solo gli ultimi capitoli del libro
presentano una narrazione più vicina alla cronologia dei fatti.
Tutta la narrazione è intessuta di citazioni e allusioni letterarie, tratte
soprattutto dalla letteratura francese, e spesso lasciate in lingua originale:
talvolta sono epigrafi all'inizio di un capitolo, e ne impostano il tono e il
ritmo narrativo.
L'autore nasce a Bologna negli ultimi anni dell'Ottocento. Il padre ha
un'officina di stufe e la madre proviene da una famiglia piccolo-borghese
decaduta: è una donna concreta, che conosce solo «fatti» e «cose». A scuola è
tenuto a distanza dai compagni di famiglia agiata, etichettato come
«socialista», insieme con tre o quattro altri ragazzi riconoscibili, come lui,
dai vestiti e dall'accento. Stringe amicizia con un professore che si accorge
delle sue doti e lo aiuta ad approfondire gli studi e a scoprire il teatro.
Risulteranno determinanti per la sua formazione anche gli incontri con poeti,
letterati e pittori: alcuni (Campana, Binazzi, Morandi, Cardarelli, Bacchelli,
Ungaretti) saranno realmente suoi "amici", altri lo diverranno per affinità,
attraverso i libri. Nel 1914 esordisce con la pubblicazione di un saggio su
Maurice de Guérin; e inizia a frequentare redazioni di giornali e circoli
politici, entrando nella «Gioventù socialista». Forma la propria coscienza
politica al tempo delle prime organizzazioni operaie e dei primi scioperi. E'
questo «il tempo felice della sua vita».
Poco dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, viene chiamato alle armi. Il
racconto delle esperienze di guerra, più che sugli eventi, indugia sullo
smarrimento esistenziale che lo segnò per tutta la vita.
Tra le cose significative della propria vita Raimondi annovera la scoperta e la
lettura di alcuni autori - "fatti" non meno veri e determinanti di altri -, che
diventano chiavi interpretative sia della storia, sia della propria esistenza.
Tra tutte, la scoperta della prosa di Leopardi e della poesia di Rimbaud e
Baudelaire.
Nel 1919 si trasferisce a Roma come segretario di redazione della «Ronda»:
conosce e frequenta letterati e poeti dell'ambiente e, in particolare, si lega a
Cardarelli, cui tiene compagnia durante la stesura delle Favole.
Con l'avvento del fascismo, il racconto si fa più aderente alla storia e agli
avvenimenti esterni. L'autore accenna rapidamente al proprio matrimonio e alla
nascita della prima figlia, e spiega come le necessità economiche lo
costringano, dopo la morte del padre, a occuparsi dell'officina e ad
allontanarsi dalla vita culturale italiana: l'isolamento è ricompensato
dall'amara soddisfazione di non sentirsi compromesso con il fascismo. In questi
anni egli matura un forte disagio nei confronti dello stile fin qui adottato
(«scrittura, precisa come un tessuto; inamidata da una colla dell'animo») e non
sopporta di essere identificato dal pubblico con uno dei suoi primi personaggi,
Domenico Giordani, che fu per qualche anno «il romanzesco portato di una
coscienza».
Arrestato per antifascismo, trascorre un periodo in prigione, di cui ricorda
soprattutto l'avvilimento della degradazione. Negli ultimi capitoli racconta il
trasferimento con la famiglia in un paese della Bassa ferrarese, e le successive
fughe, prima nella valle, al riparo dai bombardamenti, e poi di nuovo nel paese,
ormai invaso dai tedeschi. Quindi descrive il ripetuto attacco aereo al treno su
cui viaggia, e la paura di morire. Il libro si chiude con il rientro dell'autore
e della famiglia a Bologna, suggellato dalla scena festosa per la liberazione
della città, nell'aprile del 1945.
Della perfetta riuscita dell'opera era convinto Remo Cantoni che, nelle pagine
introduttive alla prima edizione, scrisse: «Da tanta materia dispersa poteva
nascere un libro frammentario e disarmonico. L'unità è invece garantita da una
temperie di poesia che fonde le singole scene del libro in un quadro coerente».
Ma non mancarono alcune riserve da parte della critica: Arnaldo Bocelli scrisse
che in Giuseppe in Italia «gli stessi ricordi sembrano piuttosto provocati che
evocati per intima suggestione»; ed Emilio Cecchi, individuando nel libro anche
«il valore suppletivo d'un contributo alla storia del gusto», si chiese, però,
se questo «valore» avesse mai avuto qualche importanza.
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