Romanticismo
italiano
La
città di Milano, come era stata il
centro più importante per la
elaborazione e la diffusione delle idee
illuministiche nella seconda metà del
Settecento, così fu il centro più
sensibile a cogliere la prima
opportunità per avviare un dibattito
costruttivo sulle nuove idee romantiche.
L’occasione le fu offerta da un
articolo comparso sulla “Biblioteca
italiana”, nel 1816, intitolato
“Sulla
maniera e utilità delle traduzioni”.
L’autrice
dell’articolo, la scrittrice parigina Madame de Stäel (1766-1817),
accusava gli Italiani di conservatorismo e di provincialismo
nelle lettere, chiusi come erano nella
falsa torre eburnea del classicismo e
sordi a tutto quel che di nuovo si
andava agitando nel resto dell’Europa.
La
reazione degli Italiani fu immediata: i
Neoclassicisti rintuzzarono le tesi
della Madame non nelle sue premesse, ma
nelle sue conclusioni: cioè accettarono
di essere considerati gelosi custodi di
un passato glorioso, ma ne riaffermarono la validità
rivendicando il primato degli Italiani
nelle lettere grazie appunto al
perdurare della tradizione classica.
Molti altri, invece, i romantici,
condivisero le critiche della de Stäel
e decisero che era giunto il momento di
smuovere le acque e di avviare anche in
Italia un rinnovamento delle lettere.
Vennero così,
l’uno dopo l’altro, molti “manifesti”
romantici ad opera di un gruppo di
letterati, che fondarono anche il
periodico “Il
Conciliatore” (il foglio azzurro
bisettimanale che vide
la
luce - con qualche interruzione
causata dalla censura austriaca - dal
1818 al 1819 quando venne soppresso
dalle Autorità perché accusato di
propaganda eversiva: i suoi redattori -
Silvio Pellico, Ludovico Di Breme,
Giovanni Berchet, Ermes Visconti, ecc.
- furono quasi tutti perseguitati o col
carcere duro o con l’esilio). Proprio
sul “Conciliatore”
il Visconti pubblicò a puntate le sue
“Idee
elementari sulla poesia romantica”,
ma già prima, nel 1816, erano stati
pubblicati quelli che si considerano i
“manifesti”
del romanticismo italiano: la “Lettera
semiseria di Grisostomo”, di
Giovanni Berchet, le “Avventure
letterarie di un giorno” di
Piero Borsieri, e “Intorno
all'ingiustizia di alcuni giudizi
letterari italiani”, di
Ludovico Di Breme.
Dal libro del Berchet
ci
piace citare questo passo che fa
comprendere la posizione dei Romantici
nei confronti dei Neoclassici:
«...i
poeti... che portano il nome
comune di moderni, tennero strade
diverse. Alcuni, sperando di riprodurre
le bellezze ammirate ne' Greci e ne'
Romani, ripeterono, e più spesso
imitarono modificandoli, i costumi, le
opinioni, le passioni, la mitologia de'
popoli antichi. Altri interrogarono
direttamente la natura: e la natura non
dettò loro né pensieri né affetti
antichi, ma sentimenti e massime
moderne. Interrogarono la credenza del
popolo: e n'ebbero in risposta i
misteri della Religione cristiana, la
storia di un Dio rigeneratore, la
certezza di una vita avvenire, il timore
di una eternità di pene. Interrogarono
l'animo umano vivente: e quello non
disse loro che cose sentite da loro
stessi e da' loro contemporanei; cose
risultanti dalle usanze, ora
cavalleresche, ora religiose, ora
feroci, ma, o praticate e presenti o
conosciute generalmente; cose risultanti dal complesso della
civiltà del secolo in cui vivevano.
La poesia de' primi è “classica”,
quella dei secondi è “romantica”.
Così le chiamarono i dotti di una parte
della Germania, che dinanzi agli altri
riconobbero la diversità delle vie
battute dai poeti moderni. Chi trovasse
a ridire a questi vocaboli, può
cambiarli a posta sua. Però io stimo di
poter nominare con tutta ragione poesia
de' morti la prima, e poesia de' vivi la
seconda. Né temo di ingannarmi
dicendo
che
Omero, Pindaro, Sofocle,
Euripide, ecc. ecc., al tempo loro
furono in certo modo romantici, perché
non cantarono le cose degli Egizi o de'
Caldei, ma quelle dei loro Greci;
siccome il Milton
non cantò le superstizioni
omeriche, ma le tradizioni cristiane.
Chi volesse poi soggiungere che anche
fra i poeti moderni seguaci del genere
classico quelli sono i migliori che
ritengono molta mescolanza del
romantico, e che giusto giusto allo
spirito romantico essi devono saper
grado se le opere loro vanno salve dallo
oblìo, parmi che non meriterebbe lo
staffile. E la ragione non viene ella
forse in sussidio di siffatte sentenze,
allorché gridando ci insegna che la
poesia vuole essere specchio di ciò che
commuove maggiormente l'anima? Ora
l'anima è commossa al vivo dalle cose
nostre che ci circondano tutto dì, non
dalle antiche altrui, che a noi sono
notificate per mezzo soltanto de' libri
e della storia.»
E'
chiaro che il Berchet per “poeti
moderni” intende quelli che vanno
dal Medio Evo in poi ma è anche chiaro
che la sua accusa di fare “poesia
dei morti” sia particolarmente
indirizzata ai Neoclassici
contemporanei. Questi dal canto loro non
furono inermi e non restarono
indifferenti alle provocazioni:
accusarono i Romantici di disordine e di
irrequietezza, di faciloneria e
soprattutto di scarso rispetto delle
tradizioni patrie. Ecco alcune loro
affermazioni scelte alla rinfusa:
«Finché
dunque i signori Romantici non sapranno
opporre alle interrogazioni dei loro
avversari se
non risposte vaghe,
contraddittorie, astruse, indeterminate,
incomprensibili, sarà permesso di
ritenere che il vantato loro sistema si
risolve in una indefinita licenza, tanto
nell'invenzione come nella condotta e
che
null'altro ha di positivo se non
che di escludere la greca mitologia per
poi abbracciare qualunque più assurda
chimera desunta dalle favolose religioni
del Nord e dell'Oriente.»
(Carlo Giuseppe Londonio, in “Appendice
ai Cenni critici sulla Poesia Romantica.
«..nel proporci a modelli poeti
Allemanni, Inglesi, Scandinavi, tentano
farci perdere l'indole nostra propria,
la sola sembianza che i tempi e le
sventure non ci hanno potuto togliere,
la qual cosa, come ognun vede, è
manifesta contraddizione coll'amor che
ostentano portare alla loro patria.»
(“Ultimo
articolo contro i Romantici”,
apparso il 28 marzo 1819 sul periodico
“Accattabrighe"
«Ci vuole novità. Ma io dico: oggetto
delle scienze è il vero, delle arti è
il bello. Non sarà dunque pregiato
nelle scienze il nuovo, se non in quanto
sia vero, e nelle arti, se non in quanto
sia bello. Le scienze hanno un progresso
infinito, e possono trovare verità non
sapute prima. Finito è il progresso
delle arti: quando abbiamo e trovato il
bello, e saputo esprimerlo, in quello
riposano.»
(Pietro Giordani, in “Lettera
di un Italiano sul discorso della Stäel”,
apparso sulla “Biblioteca
Italiana” nell'aprile del 1816).
C’è
infine da notare che i nostri primi
giovani romantici, presi essenzialmente
dalla febbre del Risorgimento,
indirizzarono la loro attività
letteraria in favore della “Causa”,
privilegiando del Romanticismo lo
storicismo, il nazionalismo e la
rievocazione del Medio Evo, ma
trascurandone i motivi più profondi
dell'individualismo, dell’infinito,
dell’eterno; motivi che, poco prima di
loro, aveva già fatti propri
inconsapevolmente Ugo Foscolo e
che, poco dopo di loro,
riappariranno nella grande poesia
lirica di Giacomo Leopardi.
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