JASPERS: LA MORTE ESISTENZIALISTA

 

Il dover morire, come il non poter vivere senza lotta e dolore e il doversi assumere la propria colpa, è per Jaspers una situazione-limite. La situazione è una realtà a cui l’individuo è interessato, con il suo esserci, e per il quale essa è limite e campo d’azione. E’ una realtà che ha un senso ed è sia fisica sia psichica e significa per l’esserci vantaggio o danno, opportunità o limite. Le situazioni-limite sfuggono alla nostra comprensione. Esse sussistono con l’esserci stesso. Sperimentare situazioni-limite ed esistere è la stessa cosa. La morte come fatto oggettivo dell’esserci, non è ancora una situazione-limite.

L’uomo che sa di morire, identifica questa consapevolezza in un’attesa di un punto indeterminato nel tempo, finchè la morte in lui non ha altro ruolo se non quello della preoccupazione di evitarla, essa non può valere come situazione-limite. Come semplice vivente un soggetto non può fare a meno di sperimentare la fine, ma vive e dimentica che ogni cosa ha la sua fine. Come esistente il soggetto sa che la fine è manifestazione dell’esistenza possibile; la sofferenza della fine è un accertamento dell’esistenza. Nella situazione limite non c’è la morte in generale che è solo un fatto oggettivo, ma essa diventa qualcosa che appartiene alla storicità come fine di chi è prossimo al soggetto o come morte propria dell’individuo stesso.

La morte del prossimo cioè della persona più amata con cui il soggetto sta in comunicazione, è il taglio più profondo che si possa verificare nella vita fenomenica. A chi muore non si può più rivolgere la parola; ciascuno muore da solo; davanti alla morte la solitudine è totale, sia per chi muore sia per chi rimane. Il dolore della separazione è l’ultima prova della comunicazione. Tuttavia, l’assoluta solitudine che si prova nella mancanza della comunicazione è diversa dalla solitudine che si prova con la morte del prossimo. La prima è una forma di coscienza in cui lo stesso soggetto non sa come mai vi si trova. Qualsiasi forma di comunicazione annulla per sempre la solitudine assoluta. L’insopportabilità fisica della separazione è legata a una sicurezza, la disperazione di chi è solo dall’origine non può lamentare alcuna perdita.. Quando la morte dell’altro scuote esistenzialmente il soggetto (non è cioè un semplice evento oggettivo segnato da particolari emozioni e interessi), l’esistenza si è già intimizzata con la trascendenza: ciò che è distrutto con la morte è la manifestazione, non l’essere stesso. La morte del prossimo, dunque, diventa una situazione-limite solo quando la persona che muore è l’unica e la sola per l’individuo. La vera situazione-limite è la morte propria del soggetto , la quale non può essere oggettivata né conosciuta in generale. La morte degli altri è un evento, la propria non può essere sperimentata. Si può sperimentare ciò che vi si riferisce (il dolore del corpo, l’angoscia), ma non la morte in sé.

Per chi esiste nella situazione-limite, la morte non è né intima né estranea, né amica né nemica, ma è l’una e l’altra cosa. La morte non è una conservazione della sostanza dell’esistenza, se essa assume un certo atteggiamento univoco che può essere quello della atarassia, che si sottrae alla situazione limite con la rigidità di un se stesso che non è più colpito dalla morte, o quello di una negazione del mondo che si illude e si consola con i fantasmi di un’altra vita nell’al di là. Per l’illimitata volontà di vivere dell’individuo, l’inevitabilità della morte è motivo di dissennata disperazione che viene superata grazie all’oblio dovuto al fatto che non si conosce quando sopraggiunge la morte. Se l’incondizionata volontà di vivere non si sottrae alla situazione-limite della morte, allora trasforma in limite il senso della morte. Essa vorrebbe persuadersi che l’angoscia della morte dipende da un errore che potrebbe  essere evitato con un modo più esatto di pensare. L’angoscia deriverebbe o dal fatto che ci si rappresenta una inesistente situazione dolorosa dopo la morte o dal timore che nasce di fronte alla morte, poiché per chi è in vita non c’è dolore che non possa accadere e da cui non sia possibile tornare in vita. Se c’è il soggetto non c’è la sua morte; se c’è la morte non c’è il soggetto. Pertanto la propria morte non riguarda affatto il soggetto. Tuttavia ciò non riesce ad eliminare il terrore che si prova al pensiero di non esserci più. Pensieri di questo genere producono il solo effetto di fare dimenticare la morte.

Il coraggio è, nella situazione-limite, l’atteggiamento da assumere di fronte alla morte. Il coraggio di fronte al rischio che si corre nel ritenere false le rappresentazioni dell’inferno e del purgatorio e l’efficacia dei mezzi di grazia che sono in potere della Chiesa, è necessario solo se l’uomo ha già da tempo accettato queste rappresentazioni come realtà e le ha assimilate; queste credenze potrebbero tornare ad essere potenti solo in condizioni di totale abbandono, quando si è giunti ad un livello d’ansia tale da esser disposto ad agire “per tutte le evenienze”. Di fronte alla morte il coraggio si riduce a un minimo se, mediante rappresentazioni sensibili dell’al di là, si annulla la morte come limite e la si riduce ad un semplice passaggio da una forma d’esserci ad un’altra. La morte, allora, prende l’incubo spaventoso del non-essere e come vera morte non sussiste più. La speranza sulla base delle garanzie offerte da un’autorità come la Chiesa, diventa quasi una certezza. La morte è superata con lo smarrimento della situazione-limite. Il coraggio consiste, invece, nel morire senza farsi illusioni.

Contro il tentativo di nascondere l’angoscia mediante rappresentazioni che si riferiscono a un’immortalità sensibile, è radicale comprendere che dell’essere sensibile con la morte non resta nulla. Da questo nulla deriva la certezza della vera esistenza. Questa esistenza conosce un’altra disperazione: l’angoscia del non-essere esistenziale che è qualitativamente diversa da quella che si prova di fronte al non-essere della vita. Solo la certezza di cui è dotata l’angoscia esistenziale può rendere relativa l’angoscia dell’esserci. Partendo dalla certezza d’essere, propria dell’esistenza, si può dominare la brama di vivere e trovare pace di fronte alla morte intesa come serenità nella consapevolezza della fine. Ma se non si è realizzata alcuna fede in una certezza d’essere, la morte esistenziale di fronte alla morte biologica , finisce col portare alla più completa disperazione. La certezza esistenziale dell’essere non può essere di conforto per la volontà di vita che si attacca all’esserci finché c’è. Questa angoscia non può essere annientata dal sapere, ma può solo venire sospesa  nel coraggio con cui affronta la morte l’eroe che mette in gioco liberamente se stesso, nel rischio che fa correre alla propria vita l’uomo che decide di sapersi e di volersi identificare con una causa. Poiché non tutti giungono a ciò, torna sempre a riproporsi un’autentica situazione esistenziale, la duplicità dell’angoscia di fronte alla morte e del piacere di vivere da un lato e la coscienza dell’essere che sempre e di nuovo si riconquista dall’altro.

La rassegnazione è quel tranquillo atteggiamento per cui si supera la vita senza disprezzarla. Non è possibile aver coraggio e mostrare il proprio valore in una calma stoica che esprime nella stabilità di una durata, perché in esso l’esistenza si perderebbe. L’esserci esige sempre che dal dolore si giunga sempre alla conquista della rassegnazione.