LA CONCEZIONE DELLA MORTE PER SENECA  

 

Seneca tratta il tema della morte in diverse sue opere. Egli giunge alla meditazione sulla morte come termine naturale della vita, affrontando energicamente e abbattendo la più tormentosa e angosciosa inquietudine dell’uomo.

La concezione di Seneca si inserisce nella dottrina stoica, ma non disdegna di ricorrere, talvolta, al gran filone epicureo, particolarmente adatto a rappresentare lo sforzo della ragione per vincere il timore, come ricorre liberamente alla originale tradizione cinica che proponeva il ritorno integrale alla natura.

Seneca nella sua ricerca filosofica si chiede più volte che cosa sia la morte e che cosa attenda l’uomo dopo la morte. Su questo argomento però il filosofo non ha una posizione univoca. Egli propone più volte l’alternativa platonica secondo cui la morte è desiderabile sia nel caso che equivalga a non esistere più, sia che comporti la trasformazione e il trasferimento dell’anima in un altro luogo. Seneca condensa queste affermazioni nelle formule “aut finis aut transitus” (riferito alla morte) e “aut beatus aut nullus” (riferito a chi è morto). Egli sviluppa in testi diversi entrambe le ipotesi, pronunciandosi per lo più a favore di quella che vede nella morte l’estinzione totale della coscienza individuale.

 

LA MORTE COME “FINIS”

L’opera più antica di Seneca la Consolatio ad Marciam è tutta incentrata sul tema della morte. Lo scritto si propone di consolare Marcia, nobil donna romana, sofferente per la perdita del giovane figlio Metilio.  Seneca in questa opera si impegna, tra l’altro nella dimostrazione che la morte non è un male. In questa occasione prende in esame sia la tesi della morte come passaggio ad una vita migliore sia, soprattutto quella della morte come fine di tutto. Egli inserisce un vero e proprio elogio della morte nel quale sembra aderire alla concezione tipicamente epicurea della morte come “finis”, annullamento totale della coscienza e della sensibilità. Seneca prende qui spunto dalla considerazione che la morte libera gli uomini da ogni sofferenza. Egli dice che “mors dolorum omnium exsolutio est” e continua affermando che “est finis ultra quem mala nostra non exeunt”. Inoltre sostiene che “la morte non è né un bene né un male; infatti può essere un bene o un male ciò che è qualche cosa; ma ciò che di per sé non è nulla e che riduce al nulla ogni cosa, non ci colloca in una situazione né buona né cattiva”. Il concetto di morte come nullificazione è espresso in modo efficace anche nel coro delle Troades: “Post mortem nihil est”. E ancora: “Non è nulla la morte: l’ultima meta di una corsa rapida”. Inoltre dice: “Chiedi dove sarai dopo la morte? Là dove sono le cose che non nacquero mai”. Nell’epistola 54 delle Epistulae morales ad Lucilium, Seneca dice che “mors est non esse” e che noi uomini ci “spegniamo e ci accendiamo” come delle lampade: nell’intervallo in cui siamo accesi, cioè in vita, proviamo qualche sofferenza, ma “prima e dopo vi è una pace profonda”.

 

LA MORTE COME “TRANSITUS”  

L’ipotesi del “transitus” è invece preferita nelle Consolationes. Nella Consolatio ad Marciam sopra citata, è descritta la dimora astrale delle anime, con chiari echi del Somnium Scipionis ciceroniano. Anche in una delle ultime epistole, la 102, il filosofo parla con accenti solenni e commossi di una vita che attende l’anima dopo il distacco dal corpo: la sosta in questa vita mortale è soltanto il preludio di un’altra vita, migliore e più lunga. Nel seguito della lettera Seneca sviluppa il tema della seconda nascita, costituita dal distacco e dalla liberazione dell’anima dal peso di un corpo imperfetto e corruttibile, un momento in cui saranno finalmente svelati all’ “animus” i segreti della natura: “...attraverso il periodo che va dall’infanzia alla vecchiaia, diventiamo maturi per un altro parto. Ci attende un’altra nascita, un altro ordine di cose”. Quel giorno “che paventi come l’ultimo è il primo dell’eternità”.

 

L’ATTEGGIAMENTO DELL’UOMO DI FRONTE ALLA MORTE  

Seneca tratta il tema della morte non solo dal punto di vista filosofico, ma anche etico. Secondo lui non bisogna temere né dispiacersi di fronte alla morte, come sostiene in alcune lettere. Tratta in particolare questo argomento nell’ Epistola 30 prendendo in esame la figura di Aufidio Basso autore delle Historiae, che al cospetto della morte mantiene il suo animo tranquillo (“hilarem”) e in ciò è aiutato dalla filosofia. E’ importante morire con animo sereno, considerato anche il fatto che la morte è inevitabile: “magna res est..., cum adventat hora illa inevitabilis, aequo animo abire”. Il concetto di inevitabilità della morte è presente anche nell’ Epistola 99: “Può uno lagnarsi di un avvenimento, se sapeva che doveva avvenire? Se poi non sapeva che l’uomo è destinato a morire, ha voluto ingannare se stesso. Chi può dolersi di un fatto, quando sa che è inevitabile?”. Nonostante ciò fino alla fine ogni individuo spera di poter  prolungare la propria vita, anche solo per pochissimo tempo, come afferma sempre nell’ Epistola 30”. Più volte durante la vita ci si sottrae al pericolo della morte, ma “nulla può sperare chi muore di vecchiaia”, soltanto alla morte per vecchiaia non ci si può sottrarre. Comunque è del tutto inutile temere la morte, in quanto in quell’istante non si prova alcun dolore, perchè non si ha sensibilità: “forse qualcuno crede che si avrà la sensazione della morte per opera della quale ogni sensibilità ci è tolta?”. Dunque “mors adeo extra omne malum est, ut sit extra omnem malorum metum”. Sempre nell’ Epistola 99 Seneca parla della cattiva consuetudine di piangere e disperarsi per la morte di un congiunto. Questo “dolore oltre ad essere inutile ha questo vizio: è una manifestazione di ingratitudine”, in quanto ci si dovrebbe rallegrare di avere avuto la persona scomparsa, piuttosto che essere mesti per averla perduta. Inoltre è ingiusto lagnarsi di ciò che dovrà capitare prima o poi a tutti; oltre a ciò è stolto attardarsi nel rimpianto soprattutto quando fra la morte della persona cara e chi la rimpiange corre un intervallo di tempo minimo. Pertanto “se siamo coscienti che presto seguiremo quelli che abbiamo perduto, dobbiamo essere più sereni”. Lamentarsi della morte di un uomo significa lamentarsi che quello sia stato uomo: “siamo tutti soggetti ad un unico destino: chi nasce deve morire”.