CONAN IL BARBARO,

JOHN MILIUS

E

 BASIL POLEDOURIS

Di Michele Tetro

Le radici del Fantasy cinematografico sono da ricercare alla nascita stessa del cinema, come del resto quelle della fantascienza e del genere horror, in quanto meraviglia e terrore erano emozioni che la neonata arte delle immagini in movimento aveva immediatamente fatto proprie, proponendosi come veicolo ideale per la loro trasmissione.

L’aspetto favolistico e fantascientifico fu il campo d’azione del regista George Méliès (1861-1938) mentre macabro e terrore trovarono nell’Espressionismo tedesco un modulo espressivo ineguagliabile. Anche l’Heroic Fantasy sul grande schermo, pur se non ancora codificato come genere (per questo bisognerà attendere la fine degli anni Settanta con Excalibur di John Boorman) e non tenendo conto della successiva contaminazione dei medesimi, ha prodotto opere rilevanti come il dittico Die Nibelungen-Siegfrieds Tod e Kriemhilds Rache (I Nibelunghi- La morte di Sigfrido e La vendetta di Krimilde, 1923-24) di Fritz Lang, vero contenitore di praticamente ogni aspetto del settore, dall’eroe investito di una missione alla caos della battaglia, dalla spada magica ai mostri soprannaturali, dalla fusione di miti nordici alla centralità del Fato, e La corona di ferro (1941) di Alessandro Blasetti, favola fantastica e pacifista non esente da cupe atmosfere e allusioni politiche.

Tendenzialmente oggi si è portati a raggruppare sotto la definizione specifica di Heroic Fantasy ogni pellicola che tratti, oltre che di mondi totalmente immaginari colti nel loro aspetto più violento e magico, anche di leggende e saghe celtiche, medievali e barbariche, sottolineando principalmente gli elementi epici e soprannaturali. Paradigma di questo genere è Excalibur (1981) di John Boorman (molto più che Il Signore degli Anelli di Ralph Bakshi, uscito nel 1978 come riduzione a cartoni animati del romanzo di Tolkien, opera che fonde animazione a tecniche di ripresa dal vero, e male accolto dal pubblico). Anche se è evidente che la pellicola di Boorman sfrutta il momento favorevole inaugurato da Star Wars (Guerre Stellari, 1977) di George Lucas, film che già si presentava come crogiolo di generi (space-opera, cappa e spada, western, fantastico, favola medievale con continui rimandi ai miti originali europei e moderni americani, incontro tra Kurosawa e Flash Gordon), l’utilizzo dei Cavalieri della Tavola Rotonda secondo un modello molto meno stilizzato e decisamente più cruento del classico Knights of the Round Table (I Cavalieri della Tavola Rotonda, 1953) di Richard Thorpe, nonché molto lontano anche da personali riflessioni sulla brutalità e futilità dell’esistenza senza Dio come Lancelot Du Lac (Lancillotto e Ginevra, 1974) di Robert Bresson, sposta inevitabilmente l’interesse del grande pubblico verso l’Heroic Fantasy di tipo più popolare.

La dinamicità e la visionarietà di un personaggio come Conan il Barbaro, ultima creazione del prolifico scrittore texano Robert E. Howard (1906-1936), può essere finalmente resa in immagini grazie ad un perfezionato apparato produttivo e a sofisticate tecniche di visualizzazione, decretando così l’effimero successo di un tipo di cinema destinato presto ad edulcorarsi e ad incanalarsi verso i più remunerativi generi di horror e fantascienza.

CONAN IL BARBARO DI JOHN MILIUS

Era Hyboriana, 12.000 anni fa. Un’orda di feroci Vanir, alla ricerca di armi più potenti delle loro, attacca e distrugge il villaggio dei Cimmeri, custodi del segreto dell’acciaio. Solo il giovane Conan sopravvive. Cresciuto in schiavitù e diventato un colossale guerriero, viene dapprima impiegato come gladiatore, poi riesce a fuggire, appropriandosi di una spada trovata in una grotta. Desideroso di vendicare la morte dei genitori e di trovare una risposta all’Enigma dell’Acciaio si spinge a sud, verso la "civiltà", dove scopre che i sacerdoti del blasfemo Culto di Set non sono che gli assassini della sua gente. Assieme all’arciere Subotai e alla ladra Valeria, Conan porta lo scompiglio nelle file di Thulsa Doom, negromante mutaforma intenzionato ad operare un sanguinoso rito di purificazione del mondo. Crocifisso, viene salvato dagli amici ma Valeria ne paga le conseguenze, dovendo sacrificare la vita per saldare il debito con i demoni che non si sono appropriati dell’anima di Conan. Il guerriero affronta le orde di Doom da solo, riuscendo a sbaragliarle, a distruggere il Culto di Set e a riportare al re Osric la figlia stregata da Doom. La risposta all’Enigma dell’Acciaio, palesata dagli insegnamenti del padre di Conan e le parole di Thulsa Doom, è che solo la volontà dell’uomo è più forte del potere della spada. Libero da ulteriori vincoli, si getta all’inseguimento dell’Avventura.

"Le prove cui sopravviviamo ci rendono più forti". La frase di Friedrich Nietzsche con cui si apre il film Conan il Barbaro (Conan the Barbarian, 1982), di John Milius, la dice lunga sull’approccio che il regista-sceneggiatore di alcuni dei più scattanti film d’epica avventura degli anni ’70 sembra aver adottato per portare sul grande schermo le tematiche howardiane.

Nato nel 1944 a St. Louis (Missouri), John Milius inizia a farsi notare nel cinema scrivendo le sceneggiature di polizieschi ritenuti fascisteggianti come Dirty Harry (Ispettore Callaghan, il caso Skorpio è tuo, 1971, di Don Siegel) e western sui generis come Jeremiah Johnson (Corvo Rosso, non avrai il mio scalpo!, 1972, di Sidney Pollack), The Life and Time of Judge Roy Bean (L’uomo dai sette capestri, 1972, di John Huston), per approdare presto alla regia di pellicole dure e romantiche al tempo stesso, tra cui Dillinger (Dillinger, 1973), The Wind and the Lion (Il Vento e il Leone, 1975), Big Wednesday (Un mercoledì da leoni, 1978), Red Dawn (Alba Rossa, 1984), Farewell to the King (Addio al re, 1988) e Flight of the Intruder (L’ultimo attacco, 1991). Di natura aggressiva e provocatoria, insofferente ad ogni tipo di autorità (in questo molto simile a Howard), politicamente collocato a destra e perciò mal tollerato dalla stampa americana, che lo considera una sorta di "Hermann Goering della sua generazione", Milius trova nel personaggio di Conan il veicolo ideale della sua filosofia di cinema, storia e uomini, dichiarando:

"Credo nell’etica barbarica. Non mi fido del lavoro che la civiltà ci ha fatto addosso. Sono per una visione più semplice delle cose, più basata sull’azione, e cercherò di dare al film un senso genuino di moralità pagana. Ma sarà soprattutto una storia romantica, un classico racconto d’avventure, un film nel quale accade qualcosa di grande."

Al di là delle posizione politiche, opinabili quanto basta (nel 1991 Milius non si fa scrupolo di dichiarare che, qualora il Presidente Bush avesse giustificato la legittimità della Guerra del Golfo in previsione del futuro controllo USA del petrolio, "un po’ di imperialismo non ha fatto male a nessuno"), non si può negare che questo cineasta devoto a John Ford e ad Akira Kurosawa, oltre a condividere alcuni fondamentali tratti con Robert Howard, sia forse l’ultimo grande creatore di saghe epiche e classica avventura, opere in cui il singolo deve lottare con tutte le sue forze, sia fisiche che interiori, per prevalere con onore ed eroismo su un mondo ostile ed avverso, destinato sì a sopravvivere ma votato a perdere gli affetti più cari: una donna, la libertà, il proprio dominio. Il suo cinema è intriso di valori tradizionali come la generosità affettiva, la lealtà ed il coraggio, l’eroismo nella sua dimensione più titanica, e quindi prevalentemente individuale, i suoi personaggi si muovono in ampi spazi con cui devono spesso confrontarsi (il deserto di The Wind and the Lion, l’oceano di Big Wednesday, la giungla di Farewell to the King) e primeggiare per poter essere degni di proseguire in un cammino che è sempre una sorta di viaggio iniziatico.

Presunto reazionario, quando non tacciato di fascismo tout court, Milius ha continuato indifferentemente a raccontare storie maestose e soffuse di malinconia, nel più puro spirito romantico, avventure in cui la grandiosità non è mai fine a se stessa e i protagonisti si evolvono interiormente senza mai cadere nel bidimensionale, la sua concezione del cinema, degli spazi e del ritmo narrativo, la sua capacità di cogliere "nella natura il respiro e la statura di un autentico personaggio tragico" sono garanzia di grande spettacolarità anche in opere "imbarazzanti" come senz’altro è Red Dawn, che descrive una improbabile invasione USA da parte dei sovietici contrastata da un gruppo di adolescenti. Milius si avvicina ad Howard avvertendo immediatamente il senso di affinità spirituale comune:

"Aveva la capacità di trasferire sulla carta grandi immagini, grandi visioni. Di lui ammiro anche le profonde conoscenze storiche, e il fatto che fosse in grado di assimilare materiale da ogni cultura esistente. Ma, ed è la cosa più importante, Howard ed io condividiamo la stessa visione della cosiddetta civiltà. Per non calcare troppo la mano si potrebbe dire che siamo…alquanto scettici nei suoi confronti."

A rendere ancor più saldo l’incontro di Milius con Howard, considerato dalla critica del settore come "l’ultimo bardo", è proprio la vocazione per un certo tipo di narrazione che richiede un’assoluta, totale adesione alla materia trattata, tipica degli antichi poeti celtici, in grado di affascinare gli ascoltatori con l’arte della parola, visualizzando esemplarmente le storie ai loro occhi quasi si trattasse di evocare immagini già immagazzinate nel profondo.

"Io non sono un guerriero. Io sono un narratore, io sono quello che siede con gli altri attorno al fuoco e narra le gesta dei guerrieri."

Conan the Barbarian non è tratto da nessun racconto di Howard, sebbene molte situazioni siano prese di peso da varie avventure dell’eroe cimmero: l’ascesa della torre di Set da The Tower of the Elephant, la crocifissione di Conan da A Witch Shall Be Born, l’attacco del serpente gigante da The Scarlet Citadel, il giuramento d’amore ultraterreno di Valeria da The Queen of the Black Coast, originariamente attribuito alla piratessa Belit. Non mancano addirittura personaggi e sequenze estrapolati da altre saghe uscite dalla penna dello scrittore texano, come il negromante Thulsa Doom, proveniente dal ciclo di Kull di Valusia, l’incontro con la donna-serpente preso da Worms of the Earth, protagonista il pitto Bran Mak Morn). E’ presente anche una citazione da un apocrifo di L. Sprague De Camp, individuabile nell’antro in cui Conan eredita la possente spada, appartenuta ad un mummificato titano del passato, tratta dal racconto breve The Thing in the Crypt, essendo De Camp consulente alla sceneggiatura del film, ma si tratta di un rimando truccato, il cui vero referente è da cercarsi nella pellicola Jeremiah Johnson, scritta da Milius per il regista Sidney Pollack, dove il solitario cacciatore delle Montagne Rocciose rinviene il cadavere assiderato di un uomo che gli fa dono post-mortem di un eccezionale fucile con cui iniziare la propria avventura nella wilderness. Questo film in particolare stigmatizza il tipico eroe miliusiano: un personaggio che deve conquistare a caro prezzo il proprio posto nel sistema delle cose, in un ambiente ostile e pericoloso pronto a prevaricare violentemente sul non-iniziato, un uomo solo di fronte ad avversità di ogni tipo, destinato a rimanere ancor più solo dopo aver creduto invano di trovare un accettabile seppur precario modus vivendi a contatto con una natura selvaggia. Quando la sua "famiglia", un bambino orfano privo della parola e un’indiana che non parla la sua lingua, viene sterminata dagli stessi indiani della sua tribù per quell’unico atto di pietà umana che Jeremiah Johnson si concede (condurre una spedizione di soccorso attraverso un sacro cimitero indiano non aggirabile), l’infrazione delle regole spietate di quell’universo e la conseguente punizione fanno regredire il cacciatore ad un belluino livello di violenza, trasformandolo in un cieco ed indiscriminato uccisore di pellerossa. Così facendo, i suoi avversari lo considerano una manifestazione vivente della brutalità della natura con cui devono convivere, consacrandolo quasi come leggenda e rendendogli addirittura onore.

Il Conan immaginato da Howard e Frazetta non avrebbe potuto essere descritto in modo migliore, invece, curiosamente, Milius costruisce un personale pastiche cinematografico, perfettamente collocabile nella sua filmografia, ma non esitando a dare una connotazione di Conan non troppo aderente all’originale: il turbolento eroe howardiano, vera e propria forza della natura pronta a scatenarsi, amalgama di pulsioni violente e sanguigne in grado di dare origine ad una tumultuosa energia narrativa (evidente valvola di sfogo del represso Howard), viene in un certo modo contenuto, preferendo all’azione pura e al movimento forsennato dei racconti una sorta di solennità che fa di Conan quasi una figura riflessiva, ben lontana dal modello letterario.

L’interesse di Milius si punta sulla crescita interiore del personaggio (tipica di tutta la sua opera cinematografica, sia che si tratti di un cacciatore, di un barbaro, di un soldato disperso, di giovani surfisti) attraverso una serie di prove iniziatiche atte a portare Conan non tanto ad ottenere una sanguinosa vendetta sull’assassino dei suoi genitori quanto a risolvere l’Enigma dell’Acciaio e trovare una propria collocazione nel mondo crudele in cui deve vivere. Ecco spiegato il perché di quella pensosità di Conan, che lo trattiene dalla violenta e usuale esplosione berserker tipica della prosa howardiana: la ricerca della risposta al mistero lo costringe a maturare e a prendere atto del cambiamento avvenuto, come suggerisce una delle ultime immagini del film, in cui Conan, dopo aver decapitato il negromante e aver liberato dalla sua influenza tutti i suoi accoliti, siede sulla grande scalinata del tempio, apparentemente perso nei suoi pensieri ma in realtà pronto ad affrontare il proprio universo nella convinzione che l’acciaio non è nulla a paragone del braccio che lo impugna, e cioè la volontà personale. Il parziale insegnamento del padre di Conan, che instilla nel giovane cimmero lo sprezzo del pericolo e il valore del coraggio, avvertendolo di non fidarsi né di uomini, né di donne, né di bestie ma solo della propria spada, trova il suo ideale completamento proprio nella parole del maligno Thulsa Doom, che rivela a Conan il vero potere insito nella qualità interiori dell’uomo (ma dal negromante distorte come prevaricazioni mentali e fisiche sui più deboli). Sta al guerriero comprendere il vero significato delle due facce della medaglia, fondere l’insegnamento dei due "padri" per foggiare così la sua nuova dimensione di uomo libero.

Gli unici momenti in cui il barbaro dimostra quel titanismo caro ad Howard sono in due sequenze particolari e molto "forti": Conan crocifisso all’Albero del Dolore che spezza il collo con un morso ad un avvoltoio calato a beccare le sue ferite, possente prova d’estremo vitalismo sebbene meno truculenta della sua versione letteraria, e il suo porsi in posizione di sfida di fronte al suo stesso dio nella preghiera che il Cimmero eleva a Crom prima della battaglia finale ("Crom…fa sì che mi vendichi. E se tu non mi ascolti…allora va alla malora!"), in cui è ripresa e completata la posizione letteraria del barbaro nei confronti degli dei e del soprannaturale. Pur essendo istintivamente superstizioso, il guerriero cimmero di Howard dichiara di non voler camminare all’ombra degli dei e di non essere disposto ad uscire dal proprio cammino per andare in cerca di diavoli, pur non cedendo il passo ad uno di loro.

Al pari di Howard, Milius dimostra un particolare interesse per le epopee cavalleresche medievali, da cui desume uno dei motivi principali come asse portante del suo film, la sacralità della spada. Ben pochi critici si sono soffermati a considerare questo aspetto della pellicola, forse reso in maniera effettivamente non troppo evidente di fronte alle esigenze di spettacolarità imposte dalla produzione, ma non per questo tale da non considerarsi affatto. Per Conan il fatto che i Vanir abbiano annientato il suo popolo non è meno importante del trafugamento della spada foggiata dal padre e solo quando il barbaro si trova a lottare col guerriero appropriatosi di questa comprende il vero delle parole di Doom, infrangendo la lama paterna con la propria arma. Ma proprio con quel moncherino di spada Conan si vendica finalmente del nemico, vincendo la sua diabolica fascinazione e liberandosi anche di quell’oggetto ormai privato del suo potere e funzione. La spada paterna ha assolto il suo duplice compito, assicurando al barbaro la vendetta sul nemico e rendendolo conscio delle sue capacità, e deve essere abbandonata: ora il guerriero ha una sua spada, conquistata con le sue forze. Anche se Milius non può impedire che pubblico, influenzato da pellicole contemporanee incentrate su erculei personaggi bramosi di vendetta, e la critica, refrattaria alle idee di superomismo visto come inno alla forza fisica e al rifiuto del modernismo caro al regista, tendano a considerare l’avventura di Conan come una rocambolesca storia spettacolarmente efficace ma priva di sostanziali spunti contenutistici, è indubbio che in realtà Conan the Barbarian non è solo questo.

Se sul piano concettuale il "panorama barbarico da saga nibelungica" adottato da Milius può indurre certa critica, avvezza a sovrapporre griglie ideologiche ad opere che per loro natura sfuggono a tali imposizioni, a deprecare la pellicola in quanto reazionaria o al più becera nei suoi assunti, formalmente e visivamente Conan the Barbarian offre molti motivi di apprezzamento. La rutilante Era Hyboriana immaginata con sfarzo e dinamicità da Howard viene tradotta in immagini con grande inventiva e pieno rispetto della matrice letteraria, recuperandone la sua caratteristica principale, cioè il sincretismo di culture e costumi differenti. Milius riesce ad amalgamare elementi eterogenei e anacronistici tra loro in un tessuto assieme fantastico e realistico, non soggetto a cali di credibilità interna od incrinature, permeato di atmosfere mitologiche dal sapore celtico, germanico e orientale.

Fin dall’inizio del film la creazione della spada di Conan rimanda a Die Nibelungen di Fritz Lang, l'intera sequenza dell'attacco dei guerrieri Vanir al villaggio cimmero è, ben più che un semplice omaggio, quasi la ricostruzione attuale della medesima sequenza dell'Alexander Nevskii di Sergej M. Ejzenstejn (la cavalcata in controluce dei predatori, le loro fantastiche armature intere dall'inusuale foggia degli elmi, l'accompagnamento musicale, dato da un plumbeo e roboante Dies Irae) e riuscitissime sequenze quali la battaglia tra i monoliti sovrastati dagli scheletri di giganti del passato e la lotta di Valeria con gli spiriti dell’aria sono efficaci omaggi al celtismo howardiano. Le ambientazioni naturali, le montagne innevate della Cimmeria e le vaste steppe di Zamora, sono perfettamente utilizzate non come sfondi ma come contenitori di personaggi e situazioni, le scenografie, specialmente l’evocativa architettura della sulfurea Sala dell’Orgia nel tempio di Doom, sono sfarzose e spettacolari, evidentemente ispirate ai dipinti di Frank Frazetta (che pure non collabora alla produzione, sebbene il cartellone della pellicola, opera dell’italiano Renato Casaro, lo richiami indubitabilmente).

"Frank Frazetta è il sommo sacerdote di Conan, eravamo consapevoli di ciò per tutto il tempo di ripresa del film. Ha avuto senz’altro grande influenza su di me. Le illustrazioni di Frazetta per Conan sono state più importanti per me degli stessi libri."

Milius esige perfezionismo e cura scrupolosa dei dettagli, rifuggendo gli effetti speciali visivi per quelli meccanici, più realistici (il Serpente Gigante è un colossale capolavoro di ingegneria pneumatica in scala 1:1), curando il particolareggiato design delle armi e delle armature, l’addestramento alla scherma degli attori (costretti ad un duro training di kendo), i costumi di ogni singolo ambiente. Il risultato è un convincente affresco della multiforme Era Hyboriana, epoca fantastica in cui è possibile far convivere la mitologia vichinga con l’esotismo orientale, spade tartare con corazze nordiche, divinità scandinave e soprannaturale celtico.

Certamente questo sottofondo mitico, paganeggiante ed intriso di leggenda è uno degli aspetti più riusciti del film, una base su cui poggerà tutta la seguente filmografia fantastico-eroica. La direzione degli attori è notevole: Milius rifugge lo stereotipo del negromante meramente maligno, fin troppo comune (e ripetitivo) nell’epopea letteraria di Conan, per un avversario ambiguo ed insidioso nel suo essere sempre veritiero, pur nella sua follia, affascinante al punto da indurre l’attore di colore James Earl Jones a gettarsi nella lettura del Mein Kampf per meglio entrare nella parte. Se il ruolo di Valeria la Ladra, sostenuto dall’atletica Sandhal Bergman, finalmente offre una dimensione attiva del personaggio femminile non più considerato come premio dell’eroe o elemento di secondo piano nell’evolversi dell’azione, Conan, interpretato da un allora sconosciuto Arnold Schwarzenegger, funziona bene come personaggio miliusiano, male come personaggio howardiano. Privo dei guizzi felini e della violenza intrinseca del barbaro letterario, della sua brama furiosa di vivere e del suo incontenibile titanismo, il Conan cinematografico soffre di un certo linfatismo dinamico, adatto per la crescita interiore voluta da Milius ma non rapportabile con l’originale. Iconograficamente si avvicina più alla versione a fumetti dovuta a John Buscema che al fosco barbaro di Frank Frazetta (e spesso sembra semplicemente un culturista rivestito di pelle ed acciaio).

Tra i demeriti del film, purtroppo ben evidenti, va segnalata una troppo marcata ieraticità e lentezza, anche in questo caso imputabile allo spirito di Milius, che cerca di sottolineare il più possibile l’evoluzione del personaggio a scapito del ritmo dell’azione, frammentando tra l’altro la narrazione in troppi episodi a sé stanti (ne giova però l’omaggio ai racconti di Howard). Totalmente imbarazzante ed infelice invece è il tentativo di beffeggiare alcune tendenze tipicamente moderne e soprattutto americane, come le sette alternative di stampo pseudo-orientale evocate a metà pellicola dalla processione di Doom, grave errore per un’opera che vuole avere un carattere astorico e mitologico. Forse l’estrema serietà dei racconti di Howard avrebbe potuto giovarsi di un tocco d’ironia una volta tradotta in immagini ma il barbaro nelle vesti di figlio dei fiori che incappa nelle lusinghe di un sacerdote omosessuale è davvero una caduta nel grottesco di grana grossa.

In conclusione il film di Milius è più una personale rivisitazione del personaggio di Conan che un reale appropriarsi del barbaro howardiano, il suo interesse si spinge più verso l’epica che il fantastico, quest’ultimo elemento tenuto sullo sfondo, più verso la grande avventura di stampo classico ed iniziatico ispirata a Ford e Kurosawa, pregna di valori come coraggio, forza e passione. Gli aspetti più pirotecnici e sfrenati del personaggio di Howard sono tenuti sotto controllo dalla responsabilità di dover assolvere ad una missione che gli viene imposta e a cui non può sottrarsi. Anche se non è molto chiaro dove prevalga l’istinto di vendetta o la ricerca della soluzione dell’enigma, Milius, pur nella diversità degli stili adottati, fa proprio il concetto che sta alla base del precedente Excalibur di Boorman, definito dal regista inglese come

"(…) l’idea del viaggio, la ricerca di qualcosa che non è definito, e che alla fine del viaggio si dissolve e non può essere visto (…) Alla fine ci si rende conto che ciò che importa non è il Graal ma il viaggio che conduce a lui, e ciò che è accaduto nel corso della ricerca."

Ciò comporta una trasformazione del personaggio, un’evoluzione "problematica": la fine della missione suscita più domande che il suo inizio (e Conan sembra identificarsi con il capitano Willard del film Apocalypse Now ,1979, di Francis. F. Coppola, sceneggiato dallo stesso Milius e ispirato al romanzo di Joseph Conrad Heart of Darkness). Come nota Adriano Piccardi per il film di Boorman, discorso che per esteso potrebbe coinvolgere le opere migliori del cinema di Heroic Fantasy, queste pellicole non sono né manifesti reazionari né poco progressisti per i loro contenuti "tradizionali", paganeggianti, illuminatamente monarchici, il loro non appartenere alla Storia le identifica come "la memoria e il desiderio di qualcosa che è andato perduto e di cui vorremmo ritrovare le tracce, senza riuscirci".

La verità ricercata, sorta di illuminazione del rimosso dell’inconscio collettivo, non può essere applicata a quelli che sono i fini della politica, pragmatici e validi solo per sé stessa. Milius, in particolare, si è cimentato nello "struggente tentativo di creare un mondo d’impeto e passione", una favola sulla giovinezza del mondo, i cui ingredienti sono forza, sensualità e nostalgia, con risultati, a ben vedere, appropriati.

LA COLONNA SONORA DI BASIL POLEDOURIS

Desiderosi di dare una coerenza visuale-plastica alle loro pellicole, sia Boorman (più stilizzato e tendente all’onirico, all’assimilazione della leggenda alla sfera atemporale del sogno) che Milius (estremamente più realistico e viscerale) comprendono l’importanza di una partitura musicale indissolubile dalle situazione e dalle atmosfere evocate.

Se per Boorman è inevitabile l’utilizzo di Richard Wagner con estratti da La morte di Sigfrido, Il Crepuscolo degli Dei, Tristano ed Isotta e Parsifal, che, unitamente al travolgente Carmina Burana O Fortuna di Carl Orff e alle suggestioni celtico, medievali e addirittura africane di Trevor Jones, contribuiscono a rendere compatta la fusione di immagini e suono, John Milius ricorre all’opera del talentuoso Basil Poledouris, suo collaboratore fisso sin dai tempi di Big Wednesday.

Fin dall’inizio Milius contrasta l’idea del produttore Dino De Laurentiis di servirsi di brani pop come accompagnamento musicale, cosa che avrebbe inciso negativamente sull’afflato epico della pellicola, pensando giustamente al notevole apporto emozionale fornito invece da un’orchestra sinfonica. L’intero score viene registrato a Roma grazie al prestigioso Coro di Santa Cecilia ma composto, per volere del regista, prima e durante le riprese. Si tratta di una colonna sonora sui generis, sorta di "continuo dramma musicale" nei suoi oltre settanta minuti (su centotrenta di proiezione), singolarmente aderente allo spirito delle immagini ma dotato anche di una propria individualità, tipica delle grandi esecuzioni orchestrali. Ogni sequenza del film viene servita di musica come se fosse un’entità singola, raccordata, pur nella diversità di stile, ai due temi principali che enfatizzano i conflitti centrali della pellicola.

E’ interessante osservare che Poledouris, per connotare il particolare clima della pellicola, avulso da uno specifico contesto temporale reale ancorché dichiaratamente preistorico, non viene meno ad una sorta di "autenticità musicologica" ben ravvisabile, ottenuta studiando attentamente la storia della musica a ritroso ed "eliminando di volta in volta strutture armoniche e linguaggi stilistici che avrebbero fallito nel produrre un plausibile sfondo storico". Assieme al regista, intenzionato ad avere una partitura tesa drammaticamente a superare la correttezza accademica e soprattutto non esente da una rimarchevole dimensione religiosa, Poledouris si convince che solo a partire dalla musica medievale sarebbe stato possibile iniziare a costruire la sua opera.

Il potente brano Anvil of Crom, tema principale di Conan, accompagna la costruzione della spada cimmera e la battaglia nella Sala dell’Orgia, suggestive sequenze la cui forza è ribadita dai ventiquattro Corni Francesi, archi e percussioni dell’orchestra. A seguire Riddle of Steel/Riders of Doom: il melodico accompagnamento sugli insegnamenti del padre di Conan e il Segreto dell’Acciaio viene repentinamente sostituito dalla rutilante e poderosa esplosione musicale sull’attacco dei seguaci di Doom, evidentemente ispirata ai Carmina Burana di Orff ma con aggiunte caratteristiche di Poledouris, che unisce i versi latini ad elementi corali orientali di inflessione russa (è questo il tema delle successive manifestazioni del culto di Set).

Gift of Fury è manifestamente la versione moderna di Poleudoris del Dies Irae e della Messa Cattolica per i Morti, utilizzata sulle sequenze dell’uccisione della madre di Conan, davanti all’ipnotico Thulsa Doom: il tema, plumbeo, reso ancor più greve dai versi latini e dalla ieraticità delle immagini, contribuisce a creare una fosca e incubica tensione. Wheel of Pain recupera la potenza dei Corni Francesi, raggiungendo un poderoso tono eroico sulla crescita fisica di Conan, legato per anni alla Ruota del Dolore, mentre Atlantean Sword sottolinea il mistero e l’antichità della grotta in cui il barbaro trova la spada di un antidiluviano guerriero. Uno dei pezzi più belli della colonna sonora è Theology/Civilization, in cui si perde la grevità di pathos delle precedenti esecuzioni. La discussione teologica tra Conan e Subotai al bivacco notturno, furbescamente volta a favore degli dèi di quest’ultimo, inizia come una "melodia popolare evocante medievali codici di onore e lealtà", dolcemente contrassegnati dal Corno Inglese, dal flauto e dal clarinetto, e continua, con l’aggiunta degli archi, come arioso accompagnamento alla corsa dei due compagni verso una città, sequenza in cui "si respira il segreto della vera epica".

La parte centrale del film prevede una musica alleggerita di potenza e più lirica, come palesa il tema dell’amore Wifeing (salvo nel suo drammatico epilogo Funeral Pyre), in cui Conan trova in Valeria la sua compagna ideale, per ammantarsi nuovamente di inflessioni epiche in The Leaving/The Search, evocativo accompagnamento per la solitaria ricerca del barbaro in sterminati paesaggi desertici. Un notevole brano è ancora The Kitchen/The Orgy: la prima parte riutilizza il rutilante Carmina Burana di Doom sulle allucinanti scene antropofaghe del culto di Set, la seconda costruisce da una singola melodia un pezzo a larga scala, ossessionante nel suo ripetitivo crescendo di archi e strumenti a fiato, che accompagna l’ipnotica trasformazione di Doom in serpente nella barocca Sala dell’Orgia, poco prima dell’esplosione di violenza provocata da Conan e i suoi compari.

La parte finale della pellicola ritorna alle sonorità grandiose ma pesanti con l’adrenalinica Battle of the Mounds, la cruenta battaglia finale, e ad una elegia corale e luminosa con Orphans of Doom/The Awakening: Doom viene decapitato dal barbaro, la sua maligna fascinazione cessa e i suoi accoliti, frastornati, si allontanano lentamente nel buio, spegnendo le fiaccole. Conan, rimasto solo a vendetta compiuta, sancisce la sua acquisita libertà dando fuoco al tempio e ricevendo l’omaggio della figlia del re Osric, affrancata anch’essa dalla malìa del negromante, in un crescendo squillante e liberatorio, come l’alba all’orizzonte. La collaborazione di Poledouris alle pellicole di Milius prosegue sino a Flight of the Intruder ma in nessun caso riesce a ripetere la perfetta alchimia di suono ed immagine ottenuta per Conan the Barbarian.

Il grande successo mondiale registrato da Conan the Barbarian rende inevitabile il progetto di un seguito, realizzato da Richard Fleischer sotto l’egida della produzione De Laurentiis. Il film, Conan the Destroyer (Conan il Distruttore, 1984), più costoso del primo, si rivela un mezzo fiasco.

Conan, tornato a fare il ladro, viene scelto dalla crudele regina Taramis per accompagnare la giovane Jenna alla ricerca del Corno di Dagoth, amuleto pregno di potere. Assieme al mago d’Hyrkania e ad una variopinta coorte di personaggi, dalla guerriera Zula al subdolo Mombata, il barbaro affronta stregonerie e spettacolari scontri con uomini e mostri, giungendo infine a recuperare l’oggetto. Ma Taramis intende servirsi del Corno per scopi negromantici, tramite il sacrificio di Jenna al dio Dagoth. Conan interviene, affronta il mostro evocato e sbaraglia i nemici, restituendo il trono a Jenna. La ricerca di un suo regno continua.

Fin dai titoli di testa è possibile avvertire il cambiamento di ottica nell’affrontare le tematiche howardiane. Alla sceneggiatura non troviamo più i "duri" Oliver Stone e John Milius bensì gli edulcorati soggettisti della Marvel Comics Gerry Conway e Roy Thomas. Il risultato è una storia propriamente fumettistica, del tutto priva di toni seri e di vero rigore d’immagine, epica come potrebbe essere epico un nostrano film di Ercole o Maciste. I personaggi sono uniformemente bidimensionali, alcuni serviti di patetiche parti comiche, altri stereotipati al massimo. Lo stesso Conan, sempre interpretato da Arnold Schwarzenegger, dimostra di essere solo una montagna di muscoli dall’espressione vacua. La violenza è quasi inesistente (il film, a differenza del capostipite, non è più vietato ai minori) e quando si vede è innocua e non cruenta, le scenografie, alcune discretamente immaginifiche, sanno di cartapesta e di ricostruito, non esenti da penose "sviste" (giganteschi massi che cadendo galleggiano sull’acqua).

Anche questa volta la storia non è tratta da nessun racconto di Howard, sebbene qua e là si citino situazioni e nomi ispirati alla saga letteraria (la regina Taramis di A Witch Shall Be Born, Thot-Amon di The Phoenix on the Sword, la lotta con l’antropoide dalla cappa rossa di Rogues in the House). Roy Thomas utilizza anche il personaggio fumettistico di sua creazione Zula, guerriero-sciamano di colore ideato per attirare l’attenzione e la simpatia del pubblico afroamericano di lettori, qui però trasformato in chiave femminile per l'attrice-cantante Grace Jones. Richard Fleischer, regista factotum di grande abilità artiginale ma di assente coinvolgimento personale, in grado di passare di genere in genere senza difficoltà (notevoli film come 20.000 Leagues Under the Sea, Fantastic Voyage, Soylent Green ma anche Blind Terror, Barabba, Tora,Tora,Tora) assicura un prodotto corretto sotto il profilo tecnico, provvisto di un buon dosaggio di ritmo e colore ma decisamente senz’anima, totalmente distaccato a livello emotivo.

Conan the Destroyer è una favola annacquata, in cui il realismo delle situazioni e dei paesaggi miliusiani si stempera in falsa ricostruzione posticcia, senza colpire, lasciando freddi ed indifferenti. Gli eroi non sono più "problematici", la vicenda è prevedibile nel suo svolgersi e gli aspetti propriamente fantastici sanno già di deja-vù. Il mondo pseudo-medievale della pellicola, partendo dalla realistica concezione del film di Milius, appare contaminato da una fantasia snaturante, deviata in canali di più facile approccio ma inevitabilmente più superficiali e artefatti. La stessa colonna sonora di Basil Poledouris prevede il recupero di brani musicali dell’originale, dai titoli ben precisi, per sequenze di natura totalmente diversa: Riders of Doom diventa la meno cupa Riders of Taramis, Atlantean Sword accompagna l’ingresso nel primordiale Tempio di Dagoth, la poderosa e ariosa Mountain of Power Procession viene utilizzata col titolo di Approach to Shadizar per l’ingresso di Conan alla reggia di Taramis, Wifeing fa da contrappunto al ricordo di Valeria e The Orgy sottolinea il duello finale tra Conan e Mombata mentre ci si appresta al sacrificio di Jenna. Al regista sfugge completamente quell’accezione barbarica tanto sentita da Howard e Milius, nonostante il fatto che Fleischer stesso abbia diretto nel 1958 un famoso film prettamente barbarico come The Vikings, opera storicamente accurata, sostenuta da "un’enfasi pittorica e un lirismo barocco" e un occhio in grado di evidenziare "la partecipazione quasi panica con cui la regia descrive la violenza e il vitalismo forsennato di un popolo (…) ma anche la capacità di evocarne sotterraneamente l’inevitabile decadenza".

Tratto da "Fantasia eroica e Medioevo inventato nell'opera di Robert E. Howard", Tesi di Laurea di Michele Tetro, 1999.

Indirizzo originale http://www.nuovametropolis.it/conan.htm

BACK to Howard and Conan's Page

HOME

<<<

H O M E