Opposizione tra idealismo e dogmatismo

Nel ricostruire la teoria fichtiana di questo periodo ci tocca fare una precisazione. L'esposizione che Fichte offrí della sua filosofia nella Dottrina della Scienza del 1794 gli sembrò presto troppo «astratta»; sicché avvertí l'esigenza di rielaborarla, partendo dall'analisi dell'uomo concreto per poi risalire alle condizioni che ne spiegassero la sua natura «infinita» e, ugualmente, la sua dimensione «mondana». Il frutto della rielaborazione rimase incompleto; ci resta solo una Premessa, una Prima Introduzione, una Seconda Introduzione alla dottrina della scienza, e il Primo capitolo. Ma il sistema è possibile ritrovarlo integro sotto forma di appunti nell'opera trasmessaci col titolo Dottrina della Scienza del 1798 o Seconda esposizione della dottrina della scienza. A parte le differenze di metodo, la teoria resta sostanzialmente immutata. Pertanto l'esposizione che seguirà terrà conto anche di questi piú tardivi contributi.

Se, nella smania di etichettare, definiamo Fichte il teorico dell'Io puro, diciamo una cosa vera; ma se assumiamo tale definizione in senso assoluto, sembra allora che la filosofia di Fichte non abbia ad oggetto l'uomo, in quanto esso non può riconoscersi come Io «puro». L'uomo, che conosce ed agisce, infatti, è sempre empiricamente determinato; non è mai «puro» sul piano dell'esistenza storica. Però è pur certo che la sua determinazione spaziale e temporale non esaurisce tutta la sua realtà; infatti è anche libero, capace di superare i suoi condizionamenti. Sicché l'uomo è, sí, un io «empirico», ma non totalmente; è anche in certa misura «puro», capace perciò di liberarsi, in qualche modo, delle sue determinazioni, che, se fossero insuperabili, lo condannerebbero ad una fissità, ad una immobilità non verificabile sul piano storico. Allora: quale rapporto c'è, nell'uomo, tra la sua condizione «empirica» e la sua natura «pura»? Qual è il confine tra i suoi condizionamenti e la sua libertà? In che senso egli è ancorato alla sua condizione mondana e, pur tuttavia, è capace di superarla continuamente senza annientarla? Questo è il campo d'indagine di Fichte.

Se dunque l'Io puro, di cui Fichte ha parlato, è un presupposto che permette di spiegare il continuo progresso dell'uomo, ad esso Fichte, nel discorso filosofico, è pervenuto sulla base della considerazione dell'uomo in quanto «io empirico». La filosofia nasce dall'osservazione che l'uomo deve fare di se stesso:

Osserva te stesso; distogli lo sguardo da tutto quanto ti circonda e rivolgilo nel tuo intimo: questa è la prima cosa che la filosofia esige da chi prende a coltivarla. Non è di qualcosa che sia fuori di te che si tratta, ma unicamente dl te stesso.
(Prima Introduzione alla «Dottrina della scienza»)

In base a questa osservazione l'uomo non può che rivelarsi a se stesso come un «io», come un soggetto di pensiero e di azione, come un'attività cosciente produttiva di conoscenza e di comportamenti. Ma quale rapporto l'io ha con il mondo esterno a lui? E sempre in noi stessi che dobbiamo trovarvi una risposta; e poiché l'io è coscienza, allora si deve partire dalla analisi dei contenuti della nostra coscienza. Su questo piano, però, la risposta non può essere schematica. Infatti i contenuti di coscienza sono le rappresentazioni. Ma di queste

alcune ci appaiono come interamente dipendenti dalla nostra libertà e ci è impossibile credere che ad esse corrisponda fuori di noi qualcosa senza il nostro intervento attivo. La nostra fantasia, la nostra volontà ci appaiono libere. Altre, invece, le riferiamo, come a loro modello, a una verità che sussista indipendentemente da noi, e, a condizione che tali rappresentazioni corrispondano a quelle verità, noi nel determinarle ci sentiamo passivi. Nella conoscenza, quanto al suo contenuto, noi non ci consideriamo liberi. Per dirla in poche parole: delle nostre rappresentazioni alcune sono accompagnate dal sentimento della libertà, altre dal sentimento della necessità.
(Prima Introduzione alla «Dottrina della scienza»)

L'uomo dunque è realtà complessa. In parte appare libero e indipendente dal mondo esterno, in parte passivo e da esso condizionato.

Fermiamo, allora, la nostra attenzione, dice Fichte, alle rappresentazioni accompagnate dal sentimento della necessità, perché solo in questo caso è possibile vedere se, e in quale misura, l'uomo è veramente libero.

Il sistema delle rappresentazioni accompagnate dal sentimento della necessità si chiama anche esperienza, sia interna che esterna. Perciò la filosofia... ha il compito di render ragione d'ogni esperienza...
Un essere ragionevole finito non dispone di nient'altro all'infuori della esperienza: è l'esperienza che contiene l'intera materia del suo pensiero.
(Prima Introduzione alla «Dottrina della scienza»)

Si parta dunque dall'esperienza, ma non per prenderne atto, bensí per riflettervi, per analizzarla, e quindi per vedervi in che misura l'uomo è attivo e libero e in quale è passivo e condizionato. Ma proprio nell'analisi dell'esperienza, che è l'esame dei rapporti tra soggetto e oggetto, vengono alla luce due diversi e opposti modi di far filosofia, e quindi due tipi di filosofie. Infatti:

Nell'esperienza, la cosa - e cioè ciò che è determinato indipendentemente dalla nostra libertà e a cui la nostra conoscenza si rivolge - e l'intelligenza - che ha la funzione di conoscere - sono inscindibilmente unite.
(Prima Introduzione alla «Dottrina della scienza»)

Tuttavia il filosofo, afferma Fichte, può separare logicamente ciò che nella realtà è unito. Può spiegare la cosa, il contenuto dell'esperienza, con l'azione dell'intelligenza; oppure può spiegare l'azione dell'intelligenza come derivata dal condizionamento della cosa. Nel primo caso pone in rilievo la libertà e la creatività dell'io anche sul piano della conoscenza (dunque non solo su quello dell'azione), esalta il suo potere autonomo di costituire il contenuto della sua esperienza; nel secondo sottolinea la passività dell'io sotto l'influenza di una cosa considerata «esistente in sé», indipendente dall'intelligenza, fuori dal raggio d'azione della coscienza (il noumeno kantiano).

Nel primo caso fa astrazione dal rapporto dell'intelligenza con l'esperienza; nel secondo fa astrazione dal fatto che la cosa si presenta nell'esperienza. Il primo procedimento si chiama idealismo, il secondo dogmatismo.
Da tutto ciò risulta abbastanza evidente che questi due sono gli unici sistemi filosofici possibili. Secondo il primo sistema le rappresentazioni accompagnate dal sentimento della necessità sono prodotti di quell'intelligenza ch'è il presupposto che le giustifica, mentre in base al secondo sistema sono prodotti di una cosa in sé che ne è il presupposto.
(Prima Introduzione alla «Dottrina della scienza»)

E non c'è possibilità di conciliazione tra questi due sistemi.

Di questi due sistemi l'uno non può confutare direttamente l'altro, perché il contrasto che li divide riguarda il principio di per sé indeducibile... Si negano totalmente a vicenda. Non hanno in comune alcun punto in cui potersi intendere l'un l'altro e accordarsi insieme.
(Prima Introduzione alla «Dottrina della scienza»)

E infatti, il principio dell'esperienza per l'idealista è la coscienza, per il realista, o dogmatico, è la cosa in sé.

L'idealista... ha sul dogmatico il vantaggio di poter indicare nella coscienza quel che secondo lui è il principio dell'esperienza, e cioè l'intelligenza liberamente agente... Secondo il dogmatico tutto ciò che si presenta nella nostra coscienza è prodotto d'una cosa in sé, e quindi anche le presunte nostre determinazioni libere, compresa la presunzione d'essere liberi.
(Prima Introduzione alla «Dottrina della scienza»)

Il dogmatico vede il condizionamento dell'io anche quando come nel caso dell'azione volontaria - l'uomo appare a se stesso libero; l'idealista, invece, vede la libertà dell'io anche quando come nel caso della conoscenza - l'uomo si crede condizionato dalla realtà esterna sensibile. Per cui

ogni dogmatico conseguente è per necessità fatalista. Non che contesti, come dato di coscienza, il fatto che noi ci reputiamo liberi... Egli non fa che dedurre dal suo principio la falsità di questa attestazione della coscienza. Egli nega del tutto quell'autonomia dell'Io, su cui l'idealista costruisce, e fa dell'Io nient'altro che un prodotto delle cose, un accidente del mondo: il dogmatico conseguente è per necessità anche materialista. [Per l'idealista] il principio del dogmatico, la cosa in sé, non è nulla. La cosa in sé diventa una chimera bella e buona; non c'è piú ragione d'ammetterla.
(Prima Introduzione alla «Dottrina della scienza»)


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