Il primato della ragion pratica

Si riprenda allora il filo del discorso filosofico. L'Io pone il Non-Io. Ma il Non-Io, in quanto opposto all'Io, lo limita e lo definisce, cioè lo divide nella molteplicità degli io empirici (e infatti, proprio in virtù dell'esistenza del mio corpo - che è non-io -, ad esempio, il mio io è un io finito, determinato, empirico, e non «assoluto» e «puro»). E ugualmente, proprio mentre l'Io si finitizza, anche il Non-Io si particolarizza (e infatti, ad esempio, io sono un io empirico proprio perché sono definito da questo particolare corpo che ho, e non dal Non-Io «astratto»). Anche il Non-Io dunque si divide e si finitizza nelle singole cose. E proprio per la empiricità e la determinatezza della mia coscienza concreta io non mi avvedo di essere per natura un Io puro, e la realtà non mi appare quel Non-Io che vien posto dall'Io per porre se stesso.

Pertanto si può dire, in generale, che l'Io, nel porre se stesso e nel porre il Non-Io, «oppone in sé all'lo divisibile un non-io divisibile».

In altri termini: l'autocoscienza assolutamente indipendente (Io puro) ponendo il Non-Io (la sua opposizione assoluta) e ad esso rapportandosi (ad esempio nella conoscenza, ma pure nell'azione) diventa coscienza particolare (io empirico, io divisibile) di una cosa particolare (non-io divisibile, cosa finita), in quanto Io e Non-Io, nella reciproca relazione, si limitano vicendevolmente, perdendo la loro «assolutezza». Cosí l'autocoscienza assoluta (l'Io puro) si concreta nella coscienza empirica (io empirico, sul piano reale, storico); e il Non-Io si concreta e si rivela a me (sul piano mondano) come «questa particolare cosa».

Il non-Io solo in tanto può essere posto, in quanto nell'Io - nella identica coscienza a se stessa (Io puro) - è posto un io, al quale il non-Io può essere opposto. Ora, il non-Io dev'essere posto nella coscienza identico a se stesso, e in questa medesima coscienza dev'essere posto anche l'io («io empirico») in quanto opposto al non-Io. Tuttavia come si possono pensare insieme A e non-A, essere e non-essere, Realtà e Negazione, senza che essi si distruggano? Non è da aspettarsi che a questa domanda si risponda diversamente che nella maniera seguente; essi si limiteranno reciprocamente. Limitare qualcosa significa sopprimere la realtà merce una negazione, ma non completamente bensí solo in parte. Nel concetto del limite, oltre i concetti della realtà e della negazione, è dunque implicito anche il concetto della divisibilità (in parti). Appena all'lo si è opposto un Non-Io, l'Io - al quale è opposto il Non-Io - ed il Non-Io - che è opposto - son posti come divisibili.
(Fondamenti dell'intera dottrina della scienza)

Dunque Io e Non-Io non si fronteggiano su un piano metastorico. È proprio nel tempo e nello spazio che avviene l'opposizione, che è l'opposizione tra «io empirico» e «cose finite». Ma perché Fichte ha parlato dell'Io Puro e del Non-Io? Proprio per spiegare, sul piano logico, quell'opposizione, per chiarire perché l'io empirico si trova di fronte il non-io, mentre dal ragionamento logico dovrebbe risultare come posto dall'io; e per indicare che l'io empirico non è chiuso nella sua empiricità, ma è sempre, infinitamente, soggetto di pensiero e di azione (ha un'essenza «pura» che non si esaurisce nei suoi singoli atti), e il non-io definito non è un'opposizione transitoria, superata la quale l'io raggiunge subito la sua pienezza e la sua libertà dai condizionamenti, ma è un'opposizione che si ripresenta sempre, infinitamente, in forme sempre nuove, da superare - con la conoscenza e con l'azione - continuamente, all'infinito.

Solitamente si fa consistere il nucleo della Dottrina della scienza nei tre principi: l'Io pone se stesso, l'Io pone il Non-Io, l'Io oppone ad un io divisibile un non-io divisibile. Giova sottolineare che questi principi sono stati enunciati nella edizione dell'opera del 1794, e che sono assenti in quella del 1798, come nelle rielaborazioni successive. I tre principi sono quindi delle formulazioni «astratte» che abbiamo cercato di presentare nel loro significato «concreto», muovendoci cosí nel senso stesso in cui Fichte ha rivisto la prima sistemazione della sua teoria. Ma riprendiamo il discorso.

Se, sul piano storico, l'Io è sempre «io empirico», in che cosa consiste la sua «purezza»? In che senso l'io finito, l'uomo individuale, è da considerarsi «puro»? Nel senso - sostiene Fichte ch'egli è capace di tendere, in uno sforzo incessante, alla purezza. Meglio:

L'attività pura dell'Io è... uno sforzo; e anzi uno sforzo infinito. L'Io è infinito, ma solo per il suo sforzo; esso si sforza di essere infinito. Ma nel concetto stesso dello sforzo è compresa già la finità... Se l'Io fosse piú che sforzantesi... esso non sarebbe Io, non porrebbe se stesso, e perciò sarebbe Nulla. Se non avesse questo infinito sforzo, allora non potrebbe porre se stesso, poiché non potrebbe contrapporsi nulla; esso non sarebbe dunque neppure Io, e, quindi, sarebbe Nulla.
(Fondamenti dell'intera dottrina della scienza)

L'Io, dunque, è puro e infinito nel senso che, in quanto io empirico, è capace di superare sempre piú il non-io per affermare la sua autonomia, la sua indipendenza, e in definitiva la sua realtà; è capace di sottrarsi progressivamente ai condizionamenti del non-io (della natura, delle cose, ecc.) per affermare sempre piú la sua libertà da esso. L'Io è puro, cioè, nel senso che è capacità di conquista graduale della sua assolutezza, che è lo scopo a cui tende l'io empirico. Questa affermazione di sé, questa conquista progressiva della propria assolutezza e della propria libertà, l'Io, in quanto io empirico, l'attua attraverso la conoscenza e l'azione. Sul piano della conoscenza l'Io si afferma sul Non-Io riducendolo a sé, rendendolo proprio, traducendolo in oggetto di pensiero. Il sapere infatti nega la realtà «in se stessa»; conoscendola, la rendo «per me».

Quella realtà che tu credevi già di aver scorto, un mondo sensibile che esiste indipendentemente da te, di cui temevi di diventar schiavo, è scomparso per te; questo mondo sensibile tutto, infatti, sorge mediante il sapere; ed è esso stesso il nostro sapere; ma il sapere non è realtà, proprio perché è sapere. Ora tu cerchi pur sempre qualcosa di reale che esista al di là della mera immagine, e cerchi una realtà diversa da quella or ora annientata. Ma ti affaticheresti invano se la volessi cercare mediante il tuo sapere o dal tuo sapere, e se la volessi abbracciare colla tua conoscenza. Se non possiedi un altro organo per afferrarla, non la troverai mai.
(La missione dell'uomo)

Sul piano dell'azione, poi, l'Io si afferma imponendo alla realtà la sua propria legge, trasformandola secondo i suoi progetti liberamente formulati. L'Io si afferma attraverso la lotta con la quale l'io empirico trasforma la concreta realtà esterna e opposta a lui.

Sicché se l'Io puro è l'essenza dell'io empirico, esso, tuttavia, sul piano storico - cioè su quello della conoscenza e dell'azione - è lo scopo ultimo, la meta finale a cui gli io empirici devono tendere, e che essi conquistano gradualmente attraverso il conflitto col non-io e il suo superamento.

A rigore, la liberazione dell'Io, l'affermarsi dell'essenza «pura» dell'io, avviene propriamente sul piano dell'azione; e la conoscenza è in funzione dell'azione.

La ragione non può essere neppure teoretica, se non è pratica; nell'uomo non è possibile l'intelligenza se in lui non v'è una facoltà pratica.
(Fondamenti dell'intera dottrina della scienza)

L'io empirico, dunque, conosce il non-io perché possa agire su di esso, e cosí possa affermare se stesso. L'io - diremmo - è per sua natura azione, che può esercitarsi solo in quanto ha una resistenza (non-io) da vincere, un limite da superare, un ostacolo da abbattere.

La tua missione non è mero sapere, ma agire secondo il tuo sapere: cosí risuona alto nel piú profondo della mia anima, non appena mi raccolgo soltanto un attimo e osservo me stesso. Tu non esisti per contemplare e osservare oziosamente te stesso o per meditare malinconicamente le tue sacrosante sensazioni; no, tu esisti per agire; il tuo agire e soltanto il tuo agire determina il tuo valore.
(La missione dell'uomo)

L'agire è per l'uomo, allora, il suo compito morale, il suo dovere, perché finalizzato allo scopo etico ch'è la sua liberazione, il raggiungimento della sua condizione di Io puro. Di qui la definizione del pensiero fichtiano come idealismo etico; e questo è il senso del fichtiano primato della ragion pratica rispetto alla ragion teoretica.

In breve, non esiste affatto per me un puro e semplice essere che non mi riguardi e che io contempli solo per il gusto di contemplarlo; quello che in generale esiste per me, esiste solo mediante la sua relazione con me. Ma ovunque è possibile solo una relazione con me...: la mia missione di agire moralmente. Il mio mondo è oggetto e sfera dei miei doveri, e assolutamente niente altro...; questo mondo non è assolutamente niente altro che quella sfera... Da quel bisogno di agire deriva la coscienza del mondo reale, non, viceversa, dalla coscienza del mondo il bisogno di agire; questo è il prius, non quello; quello è l'elemento derivato. Non agiamo perché conosciamo, ma conosciamo perché siamo destinati ad agire, la ragion pratica è la radice di ogni ragione.
(La missione dell'uomo)


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