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lazzaro papi

una gita a ... pontito 

 

 I L   P A E S A G G I O   D E I    S U O I   S O G N I

(Franco Magnani)

 I SUOI DIPINTI 

 

 FINESTRA

 PRIMI DIPINTI

 FANTASCIENZA

 FANTASCIENZA

 

 


 

Oliver Sacks - Un  Antropologo su Marte-Biblioteca Adelphi 305 - Anno 1995

 

La prima volta che incontrai Franco Magnani fu nell'estate del 1988,  all'   Exploratorium di San Francisco, dove si tenevano un convegno e una mostra sulla memoria. L'esposizione comprendeva cinquanta opere di Magnani: dipinti e disegni raffiguranti Pontito, il piccolo paese arroccato sulle colline toscane nel quale il pittore era nato ma che non vedeva ormai da più di trent'anni. Accanto ai lavori di Magnani, in un accostamento che lasciava sbalorditi, erano esposte le fotografie di Pontito fatte da Susan Schwartzenberg, la fotografa dell'Exploratorium, riprese - ove possibile - esattamente con le stesse inquadrature e con le stesse prospettive dei dipinti. (In realtà, questo non fu sempre possibile, perché a volte Franco vedeva e dipingeva Pontito da un immaginario punto di osservazione aereo, che poteva trovarsi a quindici come a centocinquanta metri dal suolo; a volte la Schwartzenberg fu costretta a mettere la macchina fotografica in cima ad un palo, e a un certo punto pensò addirittura di noleggiare un elicottero o una mongolfiera). Magnani era presentato come " un artista della memoria "; bastava una sola occhiata alla mostra per rendersi conto che aveva davvero una memoria prodigiosa e che apparentemente poteva riprodurre con precisione quasi fotografica ogni edificio, ogni strada e ogni singola pietra di Pontito - da lontano, da vicino, e da ogni angolatura possibile. Era come se Magnani avesse dentro di sé, nella propria testa, un modello tridimensionale infinitamente dettagliato del suo paese, che egli poteva rigirare, esaminare o esplorare mentalmente e poi riprodurre sulla tela con assoluta fedeltà.

Sulle prime, quando vidi la somiglianza fra i dipinti e le fotografie, pensai di trovarmi di fronte al raro fenomeno di un artista eidetico, capace di trattenere nella propria memoria, per ore o per giorni (magari per anni) un'intera scena intravista per un solo istante; di essere al cospetto di un individuo padrone - o schiavo - di una capacità visualizzatrice e di una memoria al tempo stesso naturali e prodigiose. Un artista eidetico (capacità di vedere immagini nitide e particolareggiate di cose precedentemente viste), però, non si sarebbe limitato a un singolo tema, a un solo soggetto; al contrario, avrebbe sfruttato la propria memoria, ne avrebbe fatto sfoggio, producendosi in un'enorme varietà di soggetti proprio per dimostrare come nulla fosse fuori della sua portata; Magnani, al contrario, sembrava volersi concentrare esclusivamente su Pontito. Questa, dunque, non era un'esibizione di memoria " pura ", ma di una memoria asservita a un unico motivo dominante: il ricordo del paese della sua infanzia. Adesso mi rendevo conto che non era solo un esercizio di memoria, ma anche di nostalgia - e non solo un esercizio, ma una compulsione e un'arte.

Qualche giorno dopo, parlai con Franco e ci mettemmo d'accordo per incontrarci a casa sua, in un piccolo centro a pochi chilometri da San Francisco. Una volta trovata la strada, non dovetti cercare il numero della casa, perché questa spiccava immediatamente fra quelle circostanti. Nel piccolo cortile davanti all'ingresso c'era un muretto di pietra somigliante a quelli raffigurati nei suoi quadri di Pontito; sulla sua auto, una vecchia berlina parcheggiata in strada, risaltavano diverse targhe personalizzate con la scritta " Pontito ". Il garage, trasformato in studio, aveva la porta spalancata e vi si intravedeva l'artista, intento al suo lavoro.

Franco era alto e magro; portava enormi occhiali montati in corno che gli ingrandivano gli occhi; i folti capelli neri erano accuratamente pettinati con la riga da una parte; la camminata era elastica e il fare molto esuberante e pieno di vitalità: sembrava molto più giovane dei suoi cinquantaquattro anni. Mi fece entrare e mi mostrò la casa. In ogni stanza, le pareti erano tappezzate di dipinti, e ogni singolo cassetto o armadio sembrava stipato dei suoi lavori: più che una casa, sembrava un museo o un archivio, completamente consacrato al ricordo e alla riproduzione di Pontito.

Ogni dipinto catturava la sua attenzione, risvegliando il flusso delle reminiscenze: quel che era accaduto qui, quel che era successo là, come un tempo laggiù fosse questa o quell'altra cosa. " Guardi questo muro, qui: è proprio il punto in cui il prete mi colse mentre mi stavo arrampicando per saltare nel giardino dietro la chiesa. Mi inseguì per tutta la strada. Eh, quando li scopriva li inseguiva sempre, i bambini ". Ogni accenno ne richiamava altri, e questi altri ancora; nel giro di qualche minuto fummo come inghiottiti dalla piena dei suoi ricordi - che non avevano una chiara direzione o un centro, ma erano tutti collegati alla sua infanzia, a Pontito, così come lui l'aveva vissuta da bambino. Franco saltava da una storia all'altra, senza che io potessi scorgere fra esse alcuna connessione. Questo tipo di divagazione - concentrata e monocorde, ma al tempo stesso incoerente e priva di punti focali - sembrava una sua caratteristica e svelava una forma di ossessione che lo portava a pensare a Pontito giorno e notte, escludendo qualunque altro pensiero.

Mentre Franco parlava, avevo l'impressione che le reminiscenze stessero prendendo il sopravvento, che questi ricordi improvvisi lo guidassero e lo dominassero, esercitando su di lui una forza enorme e irresistibile. Franco gesticolava, mimava le scene, mentre il respiro si faceva pesante e lo sguardo eccitato: sembrava completamente rapito. Poi, di scatto, tornava in sé e con un sorriso un po' imbarazzato diceva: "Ecco, era così ".Questa incessante verbosità, insieme alla reminiscenza di episodi concreti, sembra appartenere a una modalità completamente diversa dal suo dipingere: Franco mi disse che quando era solo il cicaleccio dei ricordi si spegneva ed egli aveva una calma percezione di Pontito: una Pontito senza persone, senza incidenti, senza dimensione temporale una Pontito in pace, sospesa in un " allora " senza tempo - lo stesso dell'allegoria, della fantasia, del mito dei racconti di fate.

A metà mattina ero ancora affascinato dai dipinti di Franco, ma ne avevo avuto abbastanza delle sue reminiscenze. Aveva un solo argomento di conversazione, non sapeva parlare d'altro: che cosa poteva esserci di più sterile e noioso? E tuttavia da questa sua ossessione egli riusciva a creare un'arte piacevole, serena e autentica. Che cosa trasformava i suoi ricordi, riuscendo ad allontanarli dalla sfera del personale, del banale e del temporale per portarli nel regno dell'universale e del sacro? Di chiacchieroni noiosi che si abbandonano ai propri ricordi se ne possono incontrare a bizzeffe, senza per questo imbattersi in un vero artista come Franco. Perciò i fattori determinanti noti erano la sua grande memoria o la sua ossessione per Pontito; doveva esservi qualcosa di molto più profondo.

 

Franco era nato a Pontito nel 1934. La Pontito di allora era un piccolo paese di circa cinquecento anime, annidato sulle colline di Pescia, in provincia di Pistoia, a una sessantina di chilometri a ovest di Firenze. Come tutti i paesi sulle colline toscane, Pontito vantava una storia antica; aveva conservato antiche tradizioni agricole, risalenti a più di mille anni fa. Le case di pietra di Pontito, come pure le sue strade, ripide e serpeggianti, percorribili solo a dorso d'asino o a piedi, non erano cambiate nei secoli - né era cambiata la vita semplice e metodica dei suoi abitanti. Il paese era dominato, in alto, dal campanile, e la casa di Franco era così attaccata all'antica chiesa che, da bambino, poteva quasi toccarne il tetto se solo si sporgeva abbastanza dalla finestra della sua camera. Gli abitanti di Pontito, un po' isolati dal mondo esterno, costituivano quasi un'unica grande famiglia: i Magnani, i Papi, i Vannucci, i Tamburi e i Sarti erano tutti imparentati fra loro. Il personaggio più importante al quale il paese abbia dato i natali è Lazzaro Papi, vissuto tra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell'Ottocento, autore dei Commentari della Rivoluzione Francese, la traduzione del Paradiso Perduto di Milton, ecc.....  nella piazza centrale di Pontito c’è ancora un monumento eretto in suo onore.

Isolata, immutabile, ferma nella sua tradizione, Pontito era una sorta di cittadella che si opponeva al flusso del tempo e del cambiamento. La terra era fertile e gli abitanti laboriosi: fattorie e frutteti assicuravano loro il sostentamento senza lussi, ma al riparo dalla miseria. Per Franco e per tutti gli abitanti del paese la vita scorreva tranquilla e serena – fino allo scoppio della guerra.

Allora arrivarono orrori e sofferenze di ogni tipo. Il padre di Franco morì nel 1942, l’anno dopo i nazisti entrarono in Pontito e scacciarono gli abitanti – che al loro ritorno trovarono molte case devastate. Dopo tali eventi, la vita a Pontito non fu più la stessa. Il paese era stato saccheggiato, i campi e i frutteti distrutti; cosa forse più grave, le tradizioni e i costumi secolari erano stati turbati. Finita la guerra, Pontito si concentrò nel coraggioso tentativo di riprendersi, senza riuscirvi del tutto, e da allora c'è stato un lento ma costante declino. I frutteti, i campi e l'agricoltura non tornarono più come prima: l'economia di Pontito cessò di essere autosufficiente e i giovani furono costretti a emigrare per cercare lavoro altrove. Il paese, che un tempo - prima della guerra - prosperava con i suoi cinquecento abitanti, oggi ne conta solo settanta, tutti anziani o in pensione. Non ci sono più bambini, e gli adulti che lavorano sono pochi. Pontito, piccolo centro un tempo vitale, oggi è spopolata e si va spegnendo.

Tutti i dipinti di Franco rappresentano il paese e la sua vita di allora, prima del 1943; sono tutte rievocazioni della sua infanzia, del luogo dove - visse, giocò e crebbe prima che suo padre morisse, prima che arrivassero i tedeschi - prima dell'occupazione del paese e della devastazione dei campi.

Franco rimase a Pontito fino all’età di dodici anni, quando - era il 1946 - andò a scuola a Lucca. Nel 1949 si spostò a Montepulciano, come apprendista mobiliere. Già prima di allora si era distinto per la sua eccezionale memoria " fotografica " (la stessa dote, sebbene in misura minore, l'avevano anche sua madre e una delle sorelle): Franco riusciva a ricordare una pagina alla prima lettura, o la predica dopo averla ascoltata in chiesa una sola volta; riusciva a ricordare tutte le iscrizioni delle pietre tombali del cimitero; gli bastava un'occhiata per ricordare (e sommare) lunghi elenchi di cifre. Ma fu solo a Lucca, per la prima volta lontano da casa e pieno di nostalgia, che cominciò a sperimentare un altro tipo di memoria: gli balenavano all'improvviso nella mente immagini di grande intensità e risonanza personale, fonte di piacere o di dolore acutissimi. Queste immagini erano del tutto diverse dalla memoria "automatica" per la quale si era distinto fino ad allora; erano involontarie, subitanee e imperiose - quasi allucinatorie per suono, consistenza, fragranza e sensazione tattile. Il nuovo tipo di memoria era soprattutto esperienziale e autobiografico, in quanto ogni immagine portava con sé il proprio contesto e il proprio affetto personale. Ogni immagine era una scena, un flashback della sua vita. "Sentiva in modo struggente la mancanza di Pontito" mi disse sua sorella. "Vedeva la chiesa, la strada, i campi; ma ancora non sentiva alcun impulso a dipingere ".

Nel 1953, dopo i quattro anni di apprendistato, Franco tornò a Pontito, ma scoprì che il paese, già allora in declino, non poteva dar lavoro a un falegname. Dovette trasferirsi a Rapallo, dove lavorò come cuoco, sebbene fosse insoddisfatto e sognasse una vita diversa e luoghi lontani. Al principio del 1960 (aveva venticinque anni) decise, un po' per impulso e un po' per ragionamento, di lasciare il posto di lavoro e di girare il mondo, facendosi ingaggiare come cuoco su una nave da crociera. E mentre si accingeva a farlo (sapendo, forse, che non sarebbe più tornato) scrisse un'autobiografia, che però al momento dell'imbarco gettò in acqua. A questo punto, il bisogno di rievocare e di ricordare la sua infanzia era chiaramente molto forte; ma Franco non aveva ancora trovato un mezzo espressivo congeniale. Così salpò. Fece la spola, avanti e indietro, fra i Caraibi e l'Europa, e finì per conoscere molto bene Haiti, le Antille e Bahamas; nel 1963 e nel 1964 si fermò per quattordici mesi a Nassau. Franco afferma che durante quel periodo aveva " dimenticato " Pontito e che la sua mente non fu quasi mai sfiorata dal pensiero del paese natale.

Nel 1965, all'età di trentun anni, prese una decisione molto importante: non avrebbe fatto ritorno a Pontito, ma si sarebbe stabilito in America, a San Francisco. Fu una decisione difficile e combattuta, che comportava una separazione - forse irrevocabile - da tutto ciò che aveva sempre considerato più prezioso e più caro: l'Italia, la sua lingua, il paese natale, la famiglia, e tutte le abitudini e le tradizioni che avevano tenuta legata per secoli la sua gente. Tuttavia, questa decisione prometteva - o sembrava promettere - libertà e forse benessere: una nuova vita in un nuovo paese, la libertà di essere sé stesso, indipendente: quella stessa libertà che aveva assaporato a bordo della nave. (Anche suo padre, da giovane, era andato a lavorare in America per alcuni anni; ma poi la nostalgia l'aveva fatto ritornare a Pontito).

Proprio mentre doveva prendere la tormentosa decisione, Franco fu colpito da una strana malattia, che infine lo portò al ricovero in un sanatorio. Ancora oggi, è tutt'altro che chiaro di quale malattia si trattasse. Certo ci fu la crisi della decisione, accompagnata da speranza e paura; ma ci furono anche febbre alta, delirio, dimagrimento e forse convulsioni; fu fatta l'ipotesi che Franco soffrisse di una tubercolosi, o di una psicosi, o di qualche disturbo neurologico. Ma nessuno comprese mai davvero che cosa fosse accaduto, e la natura della patologia rimane tuttora un mistero. Quel che è certo, comunque, è che al culmine della malattia, con il cervello forse stimolato dall'agitazione e dalla febbre, Franco cominciò ad avere, ogni notte e per tutta la notte, sogni straordinariamente realistici. Ogni notte, dunque, sognava di Pontito: non della sua famiglia, né delle attività o degli eventi che si svolgevano nel paese, ma delle case, delle strade, dei muri, delle pietre - sogni realistici fino al minimo particolare, di una precisione di gran lunga superiore a quella dei suoi ricordi coscienti. Durante questi sogni, era posseduto da un eccitamento strano e intenso: aveva la sensazione che qualcosa fosse appena accaduto, o stesse per accadere; la sensazione di un significato immenso, premonitore e tuttavia enigmatico, alla quale si accompagnava una nostalgia dolceamara, struggente e insaziabile. Quando si svegliava, gli sembrava di non essere completamente sveglio, perché i sogni erano ancora presenti, lì, davanti al suo occhio interiore, come fossero dipinti sulle coperte del letto, sul soffitto e sulle pareti intorno a lui; oppure si ergevano dal pavimento come modelli tridimensionali concreti e squisitamente precisi in ogni particolare.

In ospedale, mentre queste immagini quasi di sogno si imponevano alla sua coscienza e alla sua volontà, cominciò a sentire di essere stato " chiamato ". Per quanto dotato di una grandissima immaginazione, Franco non aveva mai avuto prima di allora visioni di tale intensità - immagini sospese in aria come apparizioni che gli promettevano una "riappropriazione" di Pontito. Ora esse sembravano dirgli:"Dipingici. Rendici reali ".

C'è da chiedersi (Franco stesso non ha mai smesso di domandarselo) che cosa accadde in quei giorni e quelle notti trascorse in ospedale, in quel momento di crisi, delirio, febbre e convulsioni. Forse Franco si spezzò per la tensione di dover decidere, subendo una scissione " freudiana " dell'Io e diventando da quel momento in poi una sorta di isterico ipermnesico? (Freud ha scritto: " Gli isterici soffrono principalmente di reminiscenze "). Forse una delle parti scisse cercava di restituirgli - nella dimensione della memoria o della fantasia - quello da cui si era separato e a cui non poteva più fare ritorno nella realtà? Questi sogni, queste immagini della memoria, erano forse evocate da Franco in risposta a un'esigenza emotiva profonda? O gli erano imposte da qualche strano bombardamento fisiologico del cervello, un processo con il quale egli (come persona) non aveva nulla a che fare, ma al quale non poteva fare a meno di reagire? Franco prese in considerazioni tutte queste possibili spiegazioni di tipo " medico " ma le respinse (né permise mai che fossero esplorate a fondo), e abbracciò invece un'ipotesi più spirituale. Credeva che gli fosse stato concesso un dono, un destino, e che fosse suo compito obbedire senza discutere. Fu dunque con questo spirito religioso che Franco, dopo una breve lotta accettò le visioni e consacrò tutto se stesso ad una missione: fare di queste una realtà tangibile.

Prima di allora non aveva mai dipinto o disegnato, eppure sentiva che avrebbe potuto prendere una penna o un pennello e ritrarre le sagome che si libravano nitide nell’aria di fronte a lui, o che si proiettavano, come attraverso una camerachiara, sulle pareti bianche della sua stanza. Soprattutto, in quelle prime notti di crisi, gli si presentarono le immagini della casa dov'era nato - immagini di una bellezza impossibile e al tempo stesso minacciose.

Nel suo primo dipinto Franco rappresentò proprio la sua casa, dimostrando subito una grande sicurezza e chiarezza di tratto, insieme ad una strana, oscura forza emotiva. Egli stesso si meravigliò del proprio lavoro, in particolare del fatto di poter dipingere ed esprimersi in questo nuovo modo meraviglioso. Tuttora, a distanza di venticinque anni, egli non ha smesso di meravigliarsene. " Fantastico " esclama. "Fantastico! Come ho potuto farlo? Com’è possibile che non abbia scoperto prima di possedere questo dono? ". Da bambino, qualche volta aveva immaginato di essere un artista, ma era stata una semplice fantasia, e non si era mai spinto molto oltre qualche gioco con penna o pennello - lo schizzo di una nave su una cartolina, forse, o l'abbozzo di una scena caraibica. Era anche spaventato dal potere che ora sentiva - un potere che l'aveva colpito e sopraffatto, ma che forse egli avrebbe potuto controllare, dandogli voce. E la voce dei suoi dipinti, il suo stile, era tutta lì, fin dal principio, anche - o specialmente - nei primi. " I primi due quadri sono diversi da quelli successivi " mi disse il suo amico Bob Miller. " Vi è in essi un che di sinistro: è come se vi stesse accadendo qualcosa di profondo, pregno di significato, e tu fossi lì a guardare ".

 

Il cognato, che non lo vide dal 1961 fino al 1987, conferma che fino al '61 Franco non aveva pensato ossessivamente al suo paese, non aveva sognato Pontito giorno e notte. " Nel '61 Franco parlava di tutto " mi disse. " Non era ossessionato, era normale. Ma quando lo rividi, nel 1987, sembrava come posseduto. Aveva visioni di Pontito in continuazione, e non parlava d'altro ".

Miller dice: " Fu in questo momento di crisi che cominciò a dipingere. Era in ospedale, abbastanza vicino a un crollo nervoso, e la pittura sembrava una soluzione, una cura. A volte Franco dice: "Ho questi ricordi, questi sogni; non posso andare avanti"; ma invece sembra che se la cavi discretamente. E’ difficile, però, avere una conversazione normale con lui: è tutto un continuo "Pontito, Pontito, Pontito".

E’ come se avesse questo costrutto tridimensionale, questo modello di Pontito da erigere: sposta un poco la testa, la gira per "vedere" i diversi aspetti del modello. Franco sembrava pensare che questo modo di "vedere" fosse normale; solo alla fine degli anni Settanta, quando Gigi (un altro amico) tornò con alcune foto del paese, si rese conto per la prima volta di quanto le sue visioni fossero invece straordinarie ... Tutto è nuovo, vivace, come se fosse stato appena ricordato; non è una forma fissa, di repertorio. Franco ricorda delle scene e le rappresenta, le rivive per intero. Perciò si tratta di una memoria particolare, molto concreta, che si organizza in storie e scene, con "chi disse che cosa e quando". A volte si ha la sensazione che nei quadri di Franco vi sia qualcosa di teatrale e, in una certa misura, egli stesso li vede così.

La disposizione che si era annunciata nei sogni notturni di Franco si fece poi più intensa e profonda nella sua mente. Cominciò ad avere anche di giorno " visioni " di Pontito, emotivamente schiaccianti e con una evidenza tridimensionale e una ricchezza di particolari tali che Franco le paragona a olografie. Possono comparire in qualunque momento della giornata: mentre mangia o beve, durante una passeggiata, mentre è sotto la doccia. Franco non ha dubbi sulla loro realtà. Può capitare, ad esempio, che mentre chiacchiera tranquillamente con qualcuno, all'improvviso si protenda in avanti con gli occhi fissi e spalancati, come rapito: di fronte a lui sta levandosi un'apparizione di Pontito.

" Molti dei suoi dipinti " scrive Michael Pearce in un'affascinante analisi pubblicata sull'"Exploratorium Quarterly" in occasione della mostra di Magnani "nascono da quello che egli descrive come un flash della memoria, quando una scena particolare entra nella sua mente all'improvviso. Spesso egli sente un forte impulso a mettere subito sulla carta la scena; è capitato che si precipitasse fuori da un bar, lasciando a metà quel che stava bevendo, per cominciare uno schizzo ... Questi flash non sembrano visioni statiche, fotografiche ... Egli può analizzarle e "vederle" da diverse angolature. Per far questo, deve riorientare fisicamente il proprio corpo, girandosi a destra per immaginare quel che si trova sulla destra della scena di Pontito e a sinistra per "vedere" quanto si trova dall'altra parte ... mentre con gli occhi guarda lontano, come se potesse effettivamente vedere le case di pietra, gli archi, le scalinate e le strade ".

Le sue apparizioni non sono solo visive. Franco sente le campane della chiesa suonare ("Come se fossi lì"); può toccare il muro del cimitero e, soprattutto, percepisce l'odore di quel che vede: la fragranza dell'edera sul muro della chiesa, gli effluvi dell'incenso mescolati all'odore di muffa e umidità, il vago profumo delle macchie di noci e di ulivi che crescevano tutt'intorno alla Pontito della sua giovinezza. In questi momenti, le percezioni visive, uditive, tattili e olfattive sono per lui quasi inscindibili; quella che ha di fronte a sé è un'esperienza complessa e cenestesica della sua prima infanzia, del tipo di quelle che lo psichiatra Harry Stack Sullivan ha chiamato una volta " registrazioni istantanee di situazioni totali ".

Sembra probabile che, quando Franco è " ispirato " o " posseduto ", il suo cervello vada incontro ad una modificazione improvvisa e profonda. Quando io potei assistere per la prima volta al fenomeno delle visioni di Franco e notai il suo sguardo fisso, le pupilledilatate e il rapimento dell'attenzione, non potei fare a meno di chiedermi se non stesse avendo una specie di attacco psicolettico. Il primo a descrivere tali attacchi, nell'Ottocento, fu il grande neurologo John Hughlings Jackson, il quale osservò come potessero essere caratterizzati da potenti allucinazioni e da un flusso di " reminiscenze " involontarie - da un senso di rivelazione e uno strano "stato simile al sogno", quasi mistico. Questi attacchi sono associati a un'attività epilettica dei lobi temporali.

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Una delle sorelle maggiori di Franco, Antonietta, che ora vive in Olanda, ricorda quando la famiglia tornò alla casa di Pontito, dopo l'occupazione tedesca, e trovò tutto cambiato e devastato. La madre e lo stesso Franco rimasero profondamente sconvolti. Franco era allora un bambino di dieci ani orfano di padre, disse alla madre: "La ricostruirò; ricreerò Pontito per te". E infatti, quando dipinse il suo primo quadro (che raffigurava la casa dov’era nato), lo mandò alla madre: in un certo senso, era il suo modo di mantenere la promessa fattale quel giorno.

La madre di Franco era sempre stata considerata, dal figlio come da altri, una figura dotata di poteri particolare. "Aveva la facoltà di guarire i bambini: insegnò il segreto a mia sorella Caterina" mi raccontò Franco. "Aveva anche il potere di fare male fisicamente con lo sguardo". A Pontito questo modo di pensare intriso di magia era comune. Franco, da sempre molto vicino alla madre (era il figlio prediletto), dopo la morte del padre si strinse ancora di più a lei: madre e figlio sembrarono ritornare a un’intimità e a una vicinanza pre-edipiche, quasi a una simbiosi. Franco mandò alla madre copie di tutti i suoi dipinti e quando la donna morì, nel 1972, la perdita ebbe su di lui un effetto devastante. " Smisi del tutto di dipingere " mi raccontò. Sentiva che per lui, per la sua vita e per la sua arte, quella era la fine; non dipinse più per nove mesi. Uscito poi dalla crisi, sentì un prepotente bisogno di trovare un'altra donna e di sposarsi; fu allora che incontrò la sua futura moglie, una giovane artista americana di origini irlandesi. " Quando incontrai Ruth volevo tornare in Italia. E' stata lei a trattenermi. Io dicevo: "Non ho più motivo di dipingere, adesso". Ma Ruth ... sostituì mia madre. Se non fosse stato per lei non avrei più dipinto ".

Franco fantasticava continuamente di ritornare a Pontito; non smetteva mai di parlare di "ri-unirsi", di " tornare a casa "; a volte lo faceva come se sua madre fosse ancora misteriosamente viva, ad attenderlo nella loro casa, ad attendere il suo ritorno. Pure, sebbene avesse avuto numerose opportunità di tornare in Italia, riuscì a sabotarle tutte. " C'è qualcosa che gli impedisce di tornare a Pontito " affermava Bob Miller. " Una forza, o magari una paura ... non so che cosa sia ". Franco rimase colpito quando poté vedere alcune fotografie di Pontito della fine degli anni Settanta (la scomparsa dei campi e dei frutteti e il rigoglio della vegetazione selvatica lo sgomentarono) e a stento sopportava la vista delle fotografie che Susan Schwartzenberg aveva fatto nel 1987. Nessuna di esse ritraeva la sua Pontito, il paese della sua giovinezza, delle sue allucinazioni e dei suoi sogni, quello che aveva continuato a dipingere per più di vent'anni.

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Nel marzo del 1989, andai a Pontito; volevo vedere il paese con i miei occhi e parlare con alcuni parenti di Franco. La Pontito ritratta nei suoi dipinti era al tempo stesso straordinariamente simile e totalmente diversa da quella reale. C'è una fedeltà quasi fotografica, e una sorprendente capacità di riproduzione, nel modo in cui Franco ricorda i particolari del suo paese natale a distanza di trent'anni. Ciò nondimeno, fui colpito anche dalle differenze: Pontito è molto più piccola di quanto si potrebbe pensare dai dipinti di Magnani: le strade sono più strette, le case più irregolari, il campanile della chiesa è più basso e tozzo. Queste differenze hanno molte ragioni: una è che Franco dipinge oggi quello che vide con gli occhi dell'infanzia, e per un bambino tutto è più alto e più spazioso. Osservando il carattere letterale di questa visione infantile mi chiesi se Franco non riuscisse - o non fosse addirittura costretto -per un singolare gioco di prestigio del suo cervello a rifare esperienza di Pontito esattamente quale l'aveva vissuta da bambino; se non gli fosse dato accesso (un accesso convulsivo) ai ricordi dell'infanzia che custodiva dentro di sé.

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La Pontito di Franco è minuziosamente accurata, e tuttavia è anche serena e idilliaca: vi è in essa una grande calma, un senso di pace, in gran parte perché è spopolata, edifici e strade sono vuoti: la transitoria presenza degli esseri umani affaccendati è stata rimossa. C'è qualcosa di desolato, di postnucleare in questo paese; ma c'è anche una pace più profonda e spirituale. Non si può evitare la sensazione di qualcosa di strano: che l'oggetto del ricordo non sia, come per Proust, la realtà dell'infanzia, ma piuttosto una visione che neghi e trasfiguri quella realtà, e nella quale il luogo (Pontito) prenda il posto di persone (i genitori, la gente viva) che devono essere state importantissime per Franco bambino. Franco non ne è inconsapevole, e a volte può parlare della realtà dell'infanzia così come lui la conobbe, con il suo fardello di complessità, di conflitti, di lutti e di dolori. Ma tutto questo viene eliminato nella sua arte, in cui prevale una semplicità paradisiaca. Secondo Schachtel, la convinzione che l'infanzia sia un periodo felice può riscontrarsi "perfino nelle persone che nell'infanzia hanno vissuto esperienze crudeli. Il mito dell'infanzia felice prende il posto del ricordo, ormai perduto, della loro esperienza ... reale".

E tuttavia le visioni di Franco non si possono ridurre a mere fantasie o ossessioni. Nei suoi quadri di Pontito non c'è solo una rimozione nevrotica, ma anche un'intensificazione e una rivelazione piene di genialità. Il filosofo Eva Brann ama definire la memoria "il magazzino dell'immaginazione" e (come Edelman) considera i ricordi creativi e pieni di immaginazione fin dall'inizio.

"La memoria immaginativa non solo conserva per noi fugaci momenti di percezione, ma li trasfigura, li allontana, dà loro nuova vita li rende inoffensivi; insomma, riplasma impressioni già formate, tramuta le vicinanze in panorami di ampio respiro ... allenta la rigida presa di un acuto desiderio trasformandolo in un progetto fecondo".

Ed è a questo punto che i sentimenti personali e nostalgici di Franco diventano culturali e trascendenti. Egli sente che Pontito è speciale, agli occhi di Dio, e deve essere preservata dalla distruzione e dalla corruzione; è speciale perché incarna una cultura preziosa - un modo di costruire e di vivere quasi sparito dalla faccia della Terra. Egli concepisce la propria missione in termini di conservazione: preservare Pontito esattamente com'era, sopra e oltre tutte le vicissitudini e le contingenze. Che questa idea sia per lui una dinamica centrale (o forse la dinamica centrale) è dimostrato da una serie di eccezionali dipinti apocalittici o "fantascientifici", nati probabilmente in periodi di tensione o sofferenza mentale. In essi, la Terra è minacciata da un altro pianeta o da una cometa, da una distruzione imminente o già in atto, ma Pontito sopravvive: Franco ritrae la vecchia chiesa, o un giardino, tutti verdi e dorati, radiosi e trasfigurati in un fascio di luce solare, miracolosamente sopravvissuti alla completa distruzione tutt'attorno. (In un altro dipinto allegorico, Franco ha messo sulla chiesa un'antenna parabolica che punta verso le stelle - verso Dio). Questi dipinti apocalittici hanno titoli come Pontito Preserved for Eternity in Infinite Space [Pontito preservata per l'eternità nello spazio infinito].

Franco si alza presto, ogni mattina, e sa che cosa deve fare. Ha un compito, una missione: ricordare - consacrare -la memoria di Pontito. Le sue visioni, quando si presentano, sono cariche di emozione e di pathos - non meno delle prime, che risalgono ormai a venticinque anni fa. La pittura (il poter camminare ancora, nel ricordo, per quelle strade e quei viottoli tanto amati, l'essere in grado di articolare tutto questo con tanta maestria, ricchezza e precisione) conferisce alle sue visioni una forma artistica e controllata, e a lui dà un senso di identità e di realizzazione.

"Non credo di avere il merito di questi dipinti" mi scrisse Franco in una lettera. "Li ho fatti per Pontito ... Voglio che tutto il mondo sappia quanto sia fantastica e bella. In questo modo, può darsi che Pontito non morirà, anche se in realtà si sta già spegnendo. Può darsi che i miei quadri servano almeno a tenerne vivo il ricordo".

 

Al principio del 1989, avevo incontrato Franco e lo avevo visitato in diverse occasioni nella sua casa di San Francisco; avevo parlato con i suoi amici di lì e con due delle sue sorelle, residenti in Olanda; soprattutto, ero stato a Pontito e questo emozionava e tormentava Franco, che ora andava pensando, più di quanto non avesse mai fatto nei vent'anni precedenti, di visitarla egli stesso. Fino a quel momento, la sua vita era trascorsa in una strana stabilità: egli viveva, mangiava e agiva - sia pure un poco distratto - nel presente, tenendo però sempre fissate sul passato la mente e l'arte. Molto l'aveva aiutato Ruth, ella stessa un'artista, che si era identificata in modo profondissimo nell'arte del marito e nel rapporto di questi con Pontito; aveva fatto in modo di occuparsi delle sue necessità materiali, per assicurare a Franco la protezione e l'isolamento dei quali aveva bisogno per riflettere e lavorare indisturbato alla sua arte nostalgica. Ma nel 1987, tragicamente, Ruth si ammalò e dopo una dolorosa lotta contro il cancro morì appena tre mesi prima dell'apertura della mostra all'Exploratorium - il vero debutto "importante" di Franco. I due eventi, la mostra e la morte della moglie, lo convinsero che non poteva più andare avanti come aveva fatto in passato; doveva accadere qualcosa di nuovo, bisognava prendere nuove decisioni. Franco me ne parlò in una lettera scritta un mese dopo:

"Può darsi che mi trasferisca fra pochissimo tempo. Probabilmente a San Francisco, ma forse anche in Italia, una volta per tutte..... Da quando mia moglie è morta, per me è stato difficile. Non so bene che cosa fare ... Dovrei vendere la casa, cercare un'altra residenza e un nuovo lavoro a San Francisco, oppure tornare in futuro a Pontito. Questa sarà la fine dei ricordi di Pontito ... ma non della mia vita! Ci saranno nuovi ricordi".

Mi colpì il modo in cui faceva coincidere il ritorno a Pontito con la fine dei suoi ricordi, della sua identità - con la fine delle sue reminiscenze e della sua arte. Adesso capivo perché egli aveva sabotato tutte le, precedenti occasioni di tornare in Italia. Era possibile che la fiaba - il mito - sopravvivesse alla realtà?

Nel marzo del 1989, parlai di Franco e della sua arte in occasione di una conferenza che tenni a Firenze, e subito egli fu sommerso da inviti affinché concedesse interviste, mandasse diapositive, permettesse l'allestimento di una mostra e, soprattutto, perché tornasse a Pontito. Pescia, che è il centro più grande nelle vicinanze di Pontito, organizzò una mostra dei suoi dipinti per il settembre del 1990. Questo stimolo esterno esaltò il conflitto interiore di Franco, ormai di antica data, e il suo stato di ansia, di eccitazione e di ambivalenza crebbe. Infine, quell'estate egli decise di tornare.

 

Aveva pensato di fare a piedi la strada che sale serpeggiando fino a Pontito, portando sulle spalle una croce di legno, fatta con le sue mani per la vecchia chiesa del paese. In questo sacro pellegrinaggio, voleva essere solo, completamente solo. Si sarebbe fermato a una fonte, un'antica fonte di acqua dolce, proprio fuori Pontito, e si sarebbe fatto zampillare l'acqua sul volto: poi, forse, dopo aver bevuto quelle acque, si sarebbe steso a terra per lasciarsi morire. 0 forse, purificato, come nato a nuova vita, sarebbe rientrato nel paese. Nessuno avrebbe identificato quello straniero ormai bianco di capelli, venuto da lontano - finché un vecchio cane che aveva conosciuto da bambino (ora talmente vecchio da riuscire a malapena a muoversi, avendo la stessa età di Franco), ricordatosi di lui, lo avrebbe leccato; poi, terminata finalmente la lunga attesa, avrebbe agitato la coda e sarebbe morto. Era strano ascoltare proprio dalla bocca di Franco questa elaborata fantasia nella quale a elementi del Nuovo Testamento si mescolavano richiami a Sofocle e ad Omero, che però Franco non aveva mai letti, né mai aveva sentito citare.

Nella realtà, il ritorno a Pontito fu completamente diverso. Franco mi aveva telefonato in preda al panico la sera prima di prendere l'aereo; in quel momento infiniti pensieri, desideri e paure contrastavano dentro di lui: doveva andare, o era meglio di no? Continuava a cambiare idea. Dal momento che la sua arte si fondava sulla fantasia e sulla nostalgia, su una memoria mai contaminata da aggiornamenti, lo sgomentava il pensiero di perderle tornando a Pontito. Lo ascoltai con attenzione ma senza dargli suggerimenti, come avrebbe fatto uno psicoanalista: "Deve essere lei a decidere" gli dissi infine. Più tardi, quella sera stessa, si imbarcò sull'ultimo volo.

Franco aveva sperato di potere prima di tutto incontrare il Papa per fargli benedire la croce; ma il Papa non era a Roma, era andato in Africa. E nemmeno poté fare la sua Via Crucis. Era appena sbarcato, e gli dissero che proprio in quel momento il sindaco di Pescia e varie altre personalità lo stavano aspettando a Pontito, dove fu portato subito a tutta velocità, in automobile.

Finita la cerimonia, Franco si allontanò, dirigendosi da solo alla casa di quand'era ragazzo. La sua prima impressione fu: " Mio Dio, era talmente piccola che per guardare fuori dalla finestra dovevo accucciarmi. Ci sono stati cambiamenti, all'esterno ... ma per me è sempre la stessa ". Mentre andava in giro a piedi, il paese sembrava misteriosamente tranquillo, abbandonato "come se tutti se ne fossero andati, e Pontito fosse rimasta soltanto mia". Franco assaporò per un poco questa sensazione, e poi avvertì, doloroso, un senso di perdita: "Mi mancano le galline, il suono degli zoccoli degli asini. E’ come un sogno. Tutti partiti. Una volta c'era molto rumore: c'erano i bambini, le donne, gli zoccoli degli asini ... Tutto passato". Nessuno lo salutò; nessuno lo riconobbe. Le strade erano deserte. Non vide tende alle finestre, né biancheria stesa ad asciugare; non sentì i suoni della vita uscire dalle case, vuote e chiuse. Incontrò solo gatti inselvatichiti che si aggiravano furtivi nei vicoli. Cresceva in lui la sensazione che Pontito fosse morta davvero - egli stesso uno spettro in visita a una città fantasma.

Girovagò spingendosi oltre l'abitato, dove la terra un tempo era stata fertile, tutta campi e frutteti ben curati: ora appariva arida e piena di crepe; tutto era abbandonato, e solo le erbacce crescevano rigogliose. A Franco sembrava che non solo Pontito, ma tutta la civiltà fosse in rovina. Pensava alle proprie visioni apocalittiche: " Un giorno Pontito sarà inquinata e invasa dalle piante parassite. Ci sarà la guerra atomica. E allora io la lancerò nello spazio, in modo da preservarla per l'eternità ".

Ma poi, al sorgere del sole, la nuda bellezza dello scenario gli tolse il respiro: "Non posso crederci, è così bella!". Lassù c'era Pontito, la sua Pontito, che sorgeva sulla montagna, tutta verde e d'oro, con il campanile in alto, scintillante nel primo sole del mattino; e la sua chiesa - sempre la stessa. "Salii sul campanile; toccai le pietre ... Per me è come se avesse mille anni. Tutti colori diversi ... il rame, il verde". Toccando, sfiorando e accarezzando le pietre, Franco ridiscese a terra, e ricominciò a credere che Pontito fosse reale. Le pietre hanno sempre avuto un'importanza cruciale nella sua pittura; egli le ritrae con la massima accuratezza: indugia, riflette e descrive con amore tutte le ombre e le sfumature di colore, ogni singola crepa e ogni anfratto. Nelle pietre dipinte da Franco c'è una straordinaria qualità tattile o cinestesica. Ora, mentre le toccava, la realtà del suo "tornare a casa" cominciò a riaffacciarsi e per la prima volta Franco ne gioì. Le pietre, almeno, non erano cambiate; né erano cambiate la chiesa, le case, le strade. Quanto meno, egli le sentiva come allora. E ora gli abitanti di Pontito, molti dei quali erano suoi parenti, uscirono dalle case e lo salutarono, eccitati, orgogliosi di lui, tempestandolo di domande. "Abbiamo visto i tuoi quadri, abbiamo sentito parlare di te. Ora tornerai?". Franco cominciò a sentirsi una specie di figliol prodigo. Questo, mi disse in seguito, fu uno dei momenti culminanti del viaggio: "Quando ero bambino, a Pontito, pensavo: "Un giorno sarò grande e farò qualcosa, sarò qualcuno, per mia madre. La gente di Pontito vedrà". Dopo la morte di mio padre non avevo più scarpe, quelle che avevo erano tutte rotte. Io mi vergognavo. Eravamo disprezzati".

La fantasia della sua infanzia si stava avverando: Franco aveva fatto qualcosa, era qualcuno, e ora la gente - non solo in America e in Italia, ma anche la sua gente, la gente di Pontito - lo amava e lo ammirava. Fu assalito allora da un sentimento di tenerezza - "la mia gente". Loro non potevano ricordare il passato come lo ricordava lui: non avevano una memoria potente conte la sua, e inoltre i loro ricordi erano stati aggiornati e questo aveva cancellato il passato. Questo risultava evidente ogni volta che Franco parlava con loro; egli stesso, dunque, sarebbe stato il loro archivio, la loro memoria: "Restituirò a costoro la memoria". E più tardi disse al sindaco: "Ho intenzione di costruire una galleria, un piccolo museo qualche cosa che riporti la gente a Pontito".

In superficie, il ritorno al paese non fu un'esperienza intensa come si era aspettato: non c'erano state rivelazioni mistiche, nessuna estasi sulle montagne; ma nemmeno era stramazzato dopo aver bevuto l'acqua avvelenata della fonte, né aveva avuto un attacco cardiaco - cosa che gli era sembrata probabile. Fu solo al momento di andar via che sentì l'impatto di quel ritorno.

A San Francisco, sprofondò in una crisi. In primo luogo, si trovò in una terribile confusione percettiva: gli sembrava di vedere due film di Pontito - due "cinegiornali", come diceva lui - che scorrevano simultanei nella sua mente: il più recente, quello della nuova Pontito, tendeva a cancellare il vecchio. Franco non poteva far nulla per fermare questo conflitto di percezioni, e quando cercò di dipingere Pontito si rese conto che non sapeva più che cosa fare. "Sono confuso, vedo le due immagini insieme" mi disse. "Pensavo di dipingere la Pontito di un tempo ma la "vedevo" com’è ora; mi sembrava di impazzire. Che cosa potevo fare? Forse non avrei più potuto dipingere Pontito. Ero spaventato. Dio mio, e adesso?... ricominciare tutto daccapo?... Mi ci vollero dieci giorni per venirne fuori".

Ci vollero dieci giorni perché nella sua niente le immagini della nuova Pontito, vivide come un'allucinazione, si spegnessero e smettessero di competere con quelle della vecchia Pontito: dieci giorni perché quel conflitto, meramente percettivo, si risolvesse; quanto alle sue emozioni, erano talmente confuse che quasi non osava pensarci. Sull'orlo della disperazione, proruppe: "Vorrei non esser mai tornato là. Io lavoro meglio con la fantasia ... e adesso non posso più lavorare". Di lì a un mese, ricominciò a dipingere Pontito. Questi nuovi lavori, disegni e pitture minuscoli, erano insolitamente teneri e intimi: erano scorci di angoli nei quali può sedere un ragazzino, nei quali effettivamente si era raccolto a sognare da bambino. Non contenevano figure umane, ma trasmettevano un'atmosfera intensamente umana, come se gli occupanti se ne fossero appena allontanati o fossero sul punto di arrivare: molto diverse, quindi, dalle scene idealizzate e comunque deserte che Franco era solito dipingere prima.

Ripensando a questa esperienza, Franco la giudicava al tempo stesso piacevole e spossante; riteneva però che fosse stata compromessa, a un livello più profondo, dal fatto che, nelle tre settimane trascorse a Pontito, non aveva mai avuto tempo per se stesso: ogni giorno era stato seguito e intervistato, senza mai un momento per fare uno schizzo o per riflettere. Sentiva il bisogno di tornare una seconda volta, per affrontare i problemi più profondi, per passare un po' di tempo a Pontito da solo.

 

Nel marzo del 1991 ci fu una seconda mostra italiana dei suoi dipinti, questa volta a Palazzo Medici Riccardi di Firenze; io lo accompagnai. Franco era imbarazzato dalla splendida cornice, dal vedere i propri dipinti esposti in quelle sale maestose. "Mi sento come un intruso" confessò. "I miei quadri, qui, sono fuori posto". Franco crede che le proprie radici, come quelle della sua pittura, affondino nelle dolci ondulazioni della campagna toscana, e nella grandiosità cosmopolita di Firenze egli si sente a disagio.

La mattina dopo Franco e io partiamo, diretti a Pontito: per la prima volta, la visiteremo insieme. Nel centro di Firenze, oltrepassiamo il Duomo, il Battistero e l'Ospedale degli Innocenti, attraversando in auto la città vecchia, che è rimasta miracolosamente intatta, e si schiude di fronte a noi deserta - è l'alba, ed è domenica. Franco, accanto a me, è assorto nei suoi pensieri.

Oltrepassiamo l'uscita per Pistoia e ci dirigiamo verso Montecatini; su entrambi i lati della strada, le colline sono punteggiate di antichi paesi. "In fondo alla mente di ogni artista c'è qualcosa di simile a un modello o a un tipo di architettura" scrisse G.K. Chesterton. "E’ come il paesaggio dei suoi sogni; il tipo di mondo che vorrebbe costruire o nel quale vorrebbe vagare; la strana flora e la strana fauna del suo pianeta segreto". Per Auden questo paesaggio era rappresentato dalle rocce calcaree e dalle miniere di piombo; per Franco è questo antico, nocchiuto paesaggio toscano, che i secoli non hanno alterato.

Un segnale stradale mette in guardia gli automobilisti dalle possibili nevicate; chiedo a Franco se a Pontito sia mai caduta la neve e se egli abbia mai dipinto il paese ammantato di bianco. Sì, la neve c'era, mi risponde, e una volta aveva cominciato a dipingere un paesaggio innevato; quasi tutti i suoi quadri, però, rappresentavano Pontito in primavera.

Quando raggiungiamo Pescia, ai piedi della montagna, sotto Pontito, Franco riconosce luoghi e persone: ecco il negozio dove era solito comprare i colori, quarant'anni fa; e là, ecco un bar sotterraneo. Poco è cambiato in questa città, che sembra muoversi al rallentatore. Franco riconosce il postino, lo stesso degli anni Quaranta: si gettano le braccia al collo in mezzo alla strada. Tutti gli danno il benvenuto; ovunque spuntano sorrisi per il figliol prodigo che ancora una volta torna a casa. Saliamo verso il municipio, dove Franco ricevette gli onori della città durante la sua prima visita. Oggi, dunque, è possibile essere profeti in patria... Questa rinomanza locale gli fa piacere; a questi luoghi egli appartiene, così come non appartiene a Firenze.

Da Pescia, la strada sale stretta e ripida, tutta tornanti; arranchiamo in seconda, dopo essere quasi finiti nel fosso alla prima curva passata Pietrabuona, un paese che prende il nome dalla sua roccia pregiata, con la chiesa e la parte antica dell'abitato appollaiate sulla collina più alta. Passiamo le colline terrazzate, soffuse di una luce morbida, ammantate di vigne e di olivi nodosi; queste terrazze sono antiche, risalgono al tempo degli Etruschi. La strada oltrepassa serpeggiando molti piccoli paesi - San Quirico, Castelvecchio, Stiappa. Finalmente, dopo un'altra curva, ecco il primo scorcio di Pontito. "Dio mio! Guardi!" esclama Franco sottovoce. "Gesù Cristo! Riesco a vedere casa mia. No, non quella... Ma quanta vegetazione spontanea: ci sono piante infestanti ovunque. Una volta c'erano ciliegi, peri, alberi da frutto, castagneti, e poi anche campi di grano e di mais, lenticchie". Franco mi racconta che quando era un ragazzino smilzo e dalle gambe lunghe era solito andare a piedi, di buon passo, da un villaggio all'altro. Mentre ci avviciniamo a Pontito, i suoi occhi diventano umidi; fissa il paesaggio tutto concentrato e mentre assimila ogni scorcio borbotta fra sé. "Questo è il ponte, ecco il torrente dove si faceva il bucato. Giù per quel viottolo le donne camminavano portando le ceste sulla testa". Ci fermiamo e Franco salta dall'auto, per vedere e ricordare sempre di più. Associata alla memoria puramente topografica c'è anche una memoria culturale. Mi racconta che gli abitanti del villaggio raccoglievano la canapa e la immergevano nel torrente per un anno, ancorata a dei massi; poi la tiravano fuori, la mettevano ad asciugare e la tessevano per farne lenzuola, asciugamani e sacchi per le castagne: tutta un'industria locale, una tradizione oggi quasi dimenticata - se si esclude Franco, naturale mente All'improvviso, infastidito dalla vegetazione spontanea che ostruisce il cammino, la strappa a grandi bracciate. Irritato da qualche nuova costruzione, mi descrive il paesaggio di una volta: "Là c'era una grande roccia, e qui scorreva l'acqua". Non c'è dubbio: ogni pietra, ogni centimetro di Pontito sono scolpiti nella sua memoria

"Come stai?": arrampicandosi sulla ripida strada acciottolata Franco saluta un uomo corpulento di mezza età con un soprabito verde. ("Suo padre ci dava le caramelle"). Franco ha una memoria epica, nella quale però si mescolano indiscriminatamente ciò che è banale e ciò che è importante, il personale e il mitico. Si ferma davanti alla casa natale di sua madre.

"Sabatino!".

"Franco!". Spunta un vecchio. ("E’ mio zio"). "Non eri in America? Come mai sei tornato? Ho sentito di una mostra a Firenze... ". Il vecchio accenna alle castagne, a come si fanno seccare; lui dimentica i particolari, ma Franco no. L'uomo osserva che le quattro case dopo la sua, un tempo traboccanti di vita, oggi sono disabitate. "Quando sarò morto, sarà vuota anche questa".

Facciamo visita a Caterina, sorella di Franco. Lei e il marito si sono ritirati a Pontito, e per Franco è un colpo trovarla invecchiata rispetto a come la ricordava. Caterina ci prepara un sontuoso pranzo toscano: formaggio pane, olive, vino, pomodori conservati, del suo orto; poi Franco mi porta fuori a vedere la chiesa. E' un angolo bellissimo, in cima alla collina, in una posizione dalla quale si domina tutto il paese. Nel cimitero, Franco mi indica la tomba di sua madre di suo padre, di questo e di quel parente. "Ci sono più morti nel cimitero che vivi in paese" mormora. Ha in mente di fermarsi a Pontito per altre tre settimane, per fare qualche schizzo in pace. Mi confessa: "Ho intenzione di rimettere qui le mie radici". Quando me ne vado, l'ultima immagine che ho di Franco è di lui in piedi, da solo nel cimitero, lo sguardo fisso sul paese spopolato.

 

Le tre settimane che Franco passò a Pontito sembrarono ricaricarlo; almeno, da quando è tornato, è stato sempre molto attivo. Il suo garage-studio ferve di attività. Ci sono quadri dappertutto, vecchi e nuovi: gli ultimi si basano sugli schizzi fatti in marzo, mentre quelli vecchi (cominciati nel 1987 e rimasti incompiuti dopo la morte di Ruth) vengono ora completati in un impeto di determinazione e di energia.

Vedere Franco ancora una volta al lavoro, assistere al rinnovarsi della sua energia creativa e dei suoi ricordi, ripropone tutti i problemi associati alla sua singolare impresa e al significato che Pontito ha per lui. I suoi "nuovi" dipinti non sono nuovi davvero: Franco non ha fatto che aggiungere qualcosa qua e là (uno steccato, un cancello, magari un albero), ma restano essenzialmente gli stessi. Negli aspetti fondamentali, il suo progetto resta immodificato. Quando andai a trovarlo la scorsa estate, vidi un paio di scarpe da tennis appese alle travi del suo garage, con un cartellino sul quale spiccava in bella calligrafia la seguente scritta, in italiano: "Con queste scarpe, dopo trentaquattro anni, ho messo piede per la prima volta in quella che era stata la Terra Promessa". Ma ora che l'aveva potuta calcare, essa aveva perduto parte del suo fascino e della sua promessa. "A volte vorrei non esserci mai tornato" mi disse quando si accorse che guardavo le scarpe. "La fantasia, il ricordo, sono la cosa più bella". E poi aggiunse, con fare pensoso: "L'arte è come un sogno".

Vedere la realtà attuale di Pontito l'aveva turbato molto, sebbene egli fosse poi riuscito a riprendersi. Aumentò in lui la sensazione che la Pontito attuale (la Pontito del "qui e ora") fosse una minaccia per la sua visione del passato, e gli dimostrò la necessità di dosare ogni futura esposizione alla nuova realtà. In seguito Franco ha ricevuto molti altri inviti, ma non è più tornato, neppure in occasione di una mostra dei suoi quadri allestita per le strade di Pontito. Altri artisti vi stanno ora affluendo numerosi, ma per loro non è che uno dei tanti affascinanti paesini che sorgono sulle colline toscane. Fuggendo da tutto questo, Franco è tornato al suo garage, al progetto che lo aveva consumato per venticinque anni. E’ un progetto senza fine, che non potrà mai essere portato ad una conclusione o ad un completamento; ho la sensazione che ora egli dipinga come preso da una sorta di frenesia, e quasi non ha finito una tela che passa subito alla successiva. Franco sta anche sperimentando nuove forme di rappresentazione: modelli di Pontito fatti di cartone, che fabbrica con le sue mani agilissime, e videocassette dei suoi quadri (accompagnate da un commento musicale), che simulano una passeggiata in paese. Lo affascina l'idea di una simulazione computerizzata di Pontito il pensiero di potersi mettere casco e guanti e di non doversi limitare a guardare, ma di potere anche toccare questa realtà virtuale.

Quando lo incontrai la prima volta, Franco era definito "un artista della memoria", e questo implicava una sua affinità con Proust, il "poeta della memoria". Sulle prime pensai che ci fosse un’effettiva somiglianza: entrambi gli uomini, entrambi gli artisti, si ritirarono dalla realtà per ricatturare il mondo perduto della propria infanzia. Ma adesso è chiaro, e lo è ogni anno di più, che il progetto di Franco è totalmente diverso da quello di Proust. Anche Proust era tormentato dal passato, dal passato dimenticato, e la sua ricerca intendeva scoprire se fosse possibile schiudere una porta per riaccedervi. Quando vi riuscì, in parte grazie ai "ricordi involontari", in parte attraverso un enorme lavoro intellettuale, la sua opera poté trovare completamento e raggiungere una conclusione (al tempo stesso psicologica e artistica).

Questo non è possibile nel caso di Franco, che invece di penetrare l'interiorità, il "significato" profondo di Pontito, compie una vasta, addirittura infinita enumerazione di tutti i suoi aspetti esteriori come se così potesse in qualche modo compensare il vuoto umano interiore. Franco in parte lo sa e in parte no, e comunque non ha scelta. Egli non ha il tempo, né il gusto, né la capacità dell'introspezione, e forse teme che questa potrebbe riuscire fatale alla sua arte.

Franco è convinto di avere ancora davanti a sé venti o trent'anni di lavoro, perché nel migliaio di dipinti che ha prodotto dal 1970 a oggi ha trasmesso solo una parte della realtà che sta cercando di ritrarre. Deve dipingere, o simulare, ogni particolare, ogni punto di vista: in prospettiva lontana, come quando si arriva a Pontito in macchina da Pistoia, fino al più minuto disegno delle pietre della chiesa, coperte dai licheni. Egli immagina che venga costruito, in alto, dominante sul paese, un museo che ospiti un vasto archivio di Pontito (della sua Pontito) e che accolga le migliaia di dipinti che ha già fatto, e le altre migliaia che ha intenzione di eseguire in futuro. Questo sarà il punto culminante del lavoro di tutta la sua vita; quando lo avrà realizzato, in quel momento avrà mantenuto la promessa fatta alla madre: "La ricostruirò; ricreerò Pontito per te".-

 

Oliver Sacks è stato professore di Neurologia all'Albert Einstein of Medicine di New York. Di lui si ricordano le seguenti pubblicazioni: L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1986) - Risvegli (1987) - Su una gamba sola (1991) ecc...

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