home page

una gita a...pontito

il paesaggio dei suoi sogni 

 

B i o g r a f i a

di:

 

L a z z a r o    -    P a p i

 

1763 / 1834

 

PRIMI  STUDI IN PONTITO E POI IN LUCCA

Sebbene Lazzaro Papi di Pontito nascesse il 23 ottobre 1763, possiamo ritenerlo come uno scrittore del XIX secolo, essendosi svolta la sua operosità letteraria fra il 1802, con la pubblicazione delle Lettere sulle Indie Orientali, e il 1834, anno della sua morte.

Al lavoro intensivo di quest'ultimo periodo fu come una preparazione la sua vita avventurosa, la quale temprandone il potente ingegno, che la natura gli aveva dato, sviluppò in lui lo spirito di osservazione, arricchì la sua mente di cognizioni svariatissime, ne fece un uomo pratico e sicuro di sé. Tale sicurezza che nasce soprattutto in noi dopo aver lottato e vinto senza aiuto e senza conforto, nel Papi si venne formando fin da fanciullo, perché fin d'allora egli dovette affidarsi alle sole sue forze: non ebbe amici, che conquistò poi numerosi con l'animo suo buono e col suo sapere: i nomi dei genitori, Alberto Papi e Fiora Pierini, non si ricordano che in grazia del figlio e, per non parlare della discendenza del fratello, anche il nome del nipote Luigi Niccolai è noto solo che io sappia per la pubblicazione che fece delle lettere del Giordani a Lazzaro Papi.

Modesto, come la famiglia, è il luogo ove il Papi nacque: Pontito è un piccolo paese in montagna nel territorio di Lucca, non molto lontano da Pescia e dagli storici colli del pistoiese, che spicca quasi in forma di cono fra gli altri paesetti disseminati in quelle profonde vallate. Qui in una povera casa, che conserva anche oggi poche memorie di lui, nacque Lazzaro Papi: l'umile condizione se gli giovò togliendolo a quella educazione molle e frivola delle case nobili d'allora, se gli risparmiò d'esser esaltato, nascendo, in mille forme dai poeti alla moda, gl’impedì anche di darsi con tutto agio agli studi.

I genitori, appena ebbero il figlio in età di apprendere qualche cosa, lo mandarono a scuola, ma ciò non poteva significare altro che avere la possibilità (e anche questa era una fortuna) d’imparare a leggere e scrivere e far di conto in quella specie di scuola comunale che il parroco d'allora, D. Marco Tognini, teneva. Il Tognini, se non insegnò grandi cose al suo allievo, ne capì almeno il buon volere, l'attitudine ad apprendere; e usando la sua autorità sopra i genitori di Lazzaro, religiosissimi, ottenne che il suo piccolo allievo corresse una via molto diversa da quella che secondo le condizioni di famiglia gli sarebbe spettata. Studiare era la cosa su cui si trovavano d'accordo tutti, ma conveniva vincere le difficoltà economiche e pregiudizi di menti piccole, che certo mai avrebbero accondisceso ad allontanare il figlio, per fargli intraprendere studi profani e senza aver fatto, da gente pratica, un calcolo sicuro su di lui. I genitori e i parenti certo avrebbero riso di chi avesse loro parlato di fare del ragazzo o un dottore, o un colonnello, o anche un lodato scrittore: forse perché non ardivano di aspirare a tanto e forse anche perché li allettava di più l’idea di vedere onorato e rispettato in quelle religiose contrade coi distintivi della religione, un loro figlio. Tanto erano lontani dal sospettare che a tali disegni si potesse opporre una piccola volontà di ragazzo, o che almeno potesse contare qualche cosa; tanto l'ignoranza congiunta a un ostinato volere può condurre a falsità e crudeli propositi. Ma non precorriamo. Il Papi in età ancora tenera di 12 anni si trovò dunque a Lucca vestito dell'abito clericale nel seminario di S. Martino. Lucca non aveva allora un corso regolare di studi e sebbene fosse uno stato indipendente, era costretta a mandare i suoi giovani ad apprendere le varie professioni in altre città, specialmente nella vicina Pisa.

L'insegnamento patrio si restringeva alle elementari, dette scolette, e alle scuole di lettere latine e di umanità. Esistevano, per chi poteva spendere, parecchie scuole tenute da maestri privati a pagamento, ma nell'insieme l'istruzione era molto deficiente e a questa deficienza supplivano in parte i seminari di S. Martino. di S. Giovanni e di S. Michele, specialmente il primo, le cui scuole frequentò da principio il Papi. L'insegnamento di questi seminari era quasi esclusivamente letterario e fra le lingue la più insegnata era il latino; cosa naturale per lo scopo a cui questi istituti dovevano servire.

Si applicò il Papi con ardore allo studio della lingua latina ed italiana e apprese poi anche la greca dal padre Barnaba di Pedona, lodato maestro di quel tempo il quale, a quanto ci viene riferito, soleva dire di non aver avuto mai scolaro di mente così aperta e così aggiustata. Oltre le buone disposizioni e ingegno suo naturale doveva eccitarlo allo studio anche lo stato tutt'altro che agiato della sua famiglia: l’aver provato l'inimicizia della fortuna e l'aver egli sofferto la povertà, influì intanto a far nascere in lui quella compassione e quasi liberalità che ebbe poi sempre verso i poveri e i sofferenti in generale.

Nello studio delle tre letterature impiegò i primi anni della dimora in Lucca e fino d'allora, al dire di un suo biografo "innamorato alle bellezze dei classici della nostra lingua, gli andava a tutto potere studiando e faceva tesoro delle belle forme e dei sublimi concetti di cui hanno tanto copia i nostri grandi maestri ". Ma non ridusse però mai il suo studio ad un lavoro meccanico di forme e frasi; fiero dispregiatore delle minute regole, come lo dice il Bini, si abituò fino d'allora a colorire sugli scrittori il pensiero ch'era suo. Meglio d'ogni altro lo attesta il Papi stesso nella prefazione al Clearco, sua prima opera, dove, deridendo le questioni di frasi e parole che nelle scuole si facevano, così scrive: "Tale applaudirebbe alla vostra opera, se per sventura non gli avessero sconcertate le orecchie tre o quattro espressioni che non sono di suo gusto, perché dal suo maestro di retorica le udì solennemente riprovar nelle classi, e talaltro s'avventerebbe a lacerarvi, che forse forse è trattenuto da quelle stesse tre o quattro forme di dire appunto che gli danno di voi un'alta stima ".

Indizio del profitto del Papi in questi primi anni di studio è la notizia che abbiamo di una sua traduzione in ottave del primo libro dell'Iliade: la scelta del metro e il tempo in cui fu fatto ci dicono che questo fu un esercizio e nulla più: ma è bene notare fin d'ora il suo desideriodi segnalarsi e più la tendenza a dare forma italiana a concetti stranieri, tendenza che coltivata, lo farà maestro nell’arte del tradurre. Avendo finito i corsi delle lettere, forse non ancora ben deciso che partito scegliere, forse minacciato dai genitori di ritornare ai lavori della campagna se non proseguiva la via intrapresa, pensò di continuare nello stesso seminario lo studio delle matematiche e della filosofia, senza però legarsi con alcun vincolo ad una carriera a cui non si sentiva portato. Non fu uno studio profondo, ma bastò ad aprirgli la mente: i vari sistemi e i nomi dei più grandi filosofi antichi e moderni avranno risuonato alle sue orecchie, sia pure con le vuote grida dell'accigliata burbanza magistrale, e per quanto il gretto insegnamento impartitogli lo permetteva, gli avranno parlato ciascuno il proprio linguaggio, gli avranno aperto nuovi orizzonti, dando alla sua mente forza e consiglio, risoluzione e ardire.

Così quando finiti gli studi di scienze fu necessario di decidersi o per il sacerdozio, o per l'abbandono assoluto di questa via, egli si trovò sicuro di sé e ben deciso: la sua volontà si sentì forte contro quella dei genitori e, riuscite inutili le istanze per piegare i suoi a miglior consiglio, ad essi che gli proponevano la dura alternativa: o seguitare nel seminario o tornare alle faccende di campagna, egli poté rispondere se non con le parole, coi fatti: non posso obbedirvi. Abbandonare gli studi dopo essercisi applicato con tanto amore, e quando a venti anni la sua mente ripiena d'idee, il cuore di affetti gli aprivano davanti un campo ove spaziare liberamente, ritirarsi invece, chiudersi in un montuoso paese, tra persone prive di cultura. Incapaci di comprenderlo, alla vita dei campi, al lavoro, agli stenti, dimenticare a un tratto il passato e togliersi per sempre ogni speranza nell'avvenire, era ciò possibile a Lazzaro Papi? Meglio l’avventurarsi ove il proprio destino e la fiducia nella propria stella l’avrebbero condotto, lasciare la patria, i parenti, cercare la terra più ospitale.

 

SCAPPATA A NAPOLI E RITORNO A LUCCA

E' significativo come il Papi, nella breve biografia che ci ha lasciato di se, sorvoli e tagli corto su questo periodo della vita sua non avvertendo stacco di sorta nei suoi studi, ne accennando minimamente alla sua dimora in Napoli. Ma pare (e Giusto Papi me lo confermava) che non intraprendesse questo viaggio che dietro la persuasione di un suo amico napoletano, il quale gli dava sicure speranze d'impiegarsi in quella città; pieno di giovanile coraggio accettò l'occasione, e partì con l'amico. Ma la sua prima avventura non fu felice, a Napoli era morta la persona che l'avrebbe dovuto aiutare e per tale motivo si trovò solo e senza denari nella grande capitale del regno di Ferdinando. Le cose non andavano neppure troppo bene colà: siamo al 1783, la bufera che si scatenerà sulla Francia nel 1789 si va preparando, ed i re fanno a gara per comprimere qualunque idea di libertà. Ferdinando IV non era uno degli ultimi in sì fatti provvedimenti, soprattutto per l'influenza che in lui aveva la moglie Carolina d'Austria. Quando si pensi che il leggere i libri del Voltaire portava a pena di galera per tre anni, e il leggere la gazzetta di Firenze a sei mesi di carcere, si avrà un'idea del libero regime con cui era governata quella società guasta dai pregiudizi e più corrotta nel costume, composta da una nobiltà altera e frivola e un volgo sprezzato e sofferente. E come se ciò non bastasse, nel 1783, ad accrescere il timore e la miseria, si aggiunse lo spaventoso terremoto che devastò gran quantità di terre, abbatté città e villaggi con numerose vittime ripercuotendosi dalla Calabria nella Sicilia e portando lo spavento fino a Napoli. Il Papi arrivava proprio in quell'anno e con sorpresa dovette riguardare uno Stato tanto sconvolto, egli che veniva da una città così quieta, e retta con governo assai mite: giovane d'ingegno ma sconosciuto, ardimentoso ma senza appoggi, non aveva innanzi a sé che una sola strada da scegliere e si fece soldato. Il mestiere dell'armi, specialmente nel regno di Napoli, non era allora la professione più onorevole: gli ordini più distinti ne erano in generale esenti e il basso popolo cercava anch'esso di liberarsene essendo la milizia divenuta cosa spregevole e vile, atta solo a tener sù una dinastia invisa e odiosi privilegi. Questo stato di cose portava la debolezza degli eserciti e la necessità di formarli delle classi più abbiette, degli uomini tristi, che uscivano dalle prigioni e galere, e in generale dei disperati che chiedevano in grazia di poter campare per tal modo la vita. Ne migliori erano quelli che presiedevano a questa massa informe di milizia se dobbiamo credere all'Arrighi il quale afferma che "non l'anzianità, non il merito e le conoscenze solide elevavano ai gradi della milizia, ma il denaro, lo spionaggio e qualche titolo anche più infame dello spionaggio". E’ vero che vi furono i Correale, i Bausan, i Caracciolo, ma essi, "nel giorno della battaglia salveranno con scarse forze, con indomito coraggio l'onore del nome e della bandiera napoletana, non quello del Regno". In questa società si trovò a vivere il Papi e qui apprese una qualche conoscenza delle armi che gli fu poi di assai giovamento: ma più gli giovò per allora questa sua ardita e giovanile scappata, perché bastò a cambiar l’animo dei suoi.

Poco si trattenne in Napoli: pentito, secondo il Bini; secondo me, annoiato e malcontento di esser piovuto in mezzo di quella marmaglia, decise per la via di Roma di ritornare a Lucca. I genitori, se pure non furono loro a richiamare il figlio, si mostrarono contenti del suo ritorno e d'ora innanzi, rinunciando per sempre ai disegni fatti su di lui, lo lasciano in libertà di applicarsi a ciò che voglia. Questa condiscendenza non fece che accrescere nel Papi le difficoltà della scelta: si era dato con zelo agli studi letterari, ma non era questa una carriera da poterci fare assegnamento, e poi avrebbe dovuto frequentare qualche università con spesa non lieve; in Lucca, anche quando col liceo fondato da Maria Luisa si ebbe una sufficiente istruzione scientifica, fu sempre scarso l'insegnamento letterario. Invece una professione che offriva certezza di guadagno era la medicina la cui scuola esisteva anche a Lucca come una dipendenza dell’ospedale. " Benché senza molta voglia>> lo dice egli stesso, si decise dunque a studiare questa scienza e nel 1785 cominciò a frequentare in patria le lezioni del Dott. Luigi Moscheni, conquistandosi ben presto la stima del maestro che gli fu anche consigliere ed amico.

 

DIMORA IN PISA FINO AL 1792

Era poco più d'un anno che studiava la medicina in Lucca quando, forse per consiglio del Moscheni stesso, forse aiutato da qualche mecenate lucchese che mai mancava, ci attesta il Mazzarosa, a chi dava bella speranza dì sé, si recò all'Università di Pisa per abilitarsi nella chirurgia. Insegnavano in questa città, fra gli altri, i Dottori Serafino Maffei, che divenne poi così intimo del Papi, e l'assai celebre Francesco Vaccà Berlinghieri. Il Papi vi andò sul finire del 1786 e certo avrà trovato là molti suoi concittadini che secondo il Mazzarosa, "vi accorrevano in tanto numero da farvi una classe separata di scolari".

A Pisa non smentì le speranze che aveva già fatte concepire al suo maestro Moscheni e la chirurgia fu la sua principale occupazione, ma trovò modo anche di darsi agli studi letterari e qualche volta di esercitarsi in questi a beneficio stesso della medicina. Di questo tempo sono appunto ventuno suoi esametri latini col titolo - Rami d’aortae discendentis - e con l'indicazione: "Nel tempo ch'io studiavo l'anatomia nell'Università di Pisa, feci i seguenti versi per aiuto della memoria". Non trascurava neppure la letteratura italiana, ma avido di conoscere, univa all'antico il moderno, le tragedie di Alfieri pregiava al pari di quelle dei tre sommi tragici greci e non le scompagnava dalla lettura di Corneille, di Racine, di Molière. Conobbe e strinse amicizia con Lorenzo Pignotti che trovavasi a Pisa medico e professore di quell'Università e l'amicizia del Pignotti gli procurò la conoscenza dì altri uomini insigni; alle lingue antiche aggiunge lo studio delle moderne. specialmente del francese e dell'inglese, il quale ultimo formerà poi tutta la sua fortuna in India, gran parte della sua fama in Europa. In mezzo a tutto questo ardore di studi trova tempo anche per distrarsi e s'innamora d'una gentile signorina pisana di nome Carlotta Ulivieri Beccani. Fu un amore serio e grande che non diminuì ma accrebbe la sua attività ed energia, il suo amore alla gloria, e lo studio ostinato per ottenerla. Aveva venticinque anni: era vissuto assai ignoto a tutti fuori che a se stesso, come egli diceva, vedeva uomini sommi come il Parini e l'Alfieri che egli tanto ammirava, tentare di scuotere gl'italiani dal loro sonno di più secoli e far di tutto per indirizzare la letteratura all'alto e nobile scopo di educare il popolo; vedeva d'altra parte una scuola guasta, debole, sdolcinata, uno stuolo di poeti che intenti a cantare e ricantare le solite ciance si ripromettevano l'immortalità. In queste condizioni e con questi sentimenti egli compone il suo primo lavoro, la tragedia "Il Clearco".

Rispecchia questa assai bene quali fossero le idee e i giudizi del giovane scrittore sulle questioni letterarie del tempo, ma è priva, come vedremo, di alcun merito letterario e composta forse in uno di quegli impeti di esuberanza giovanile e di desiderio ardente di piacere alla sua donna ed esserne tenuto in gran conto. Di lei parla in questo lavoro. Il Papi scriveva da Pontito e non si può immaginare che queste parole siano rivolte ad altra che alla giovane pisana. Era la Beccani di civile condizione ma non ricca, come si può rilevare dalla dote di appena duecentocinquanta scudi che per parte di madre andò alla figlia Albertina, ma il Papi non guardava a questo e neppure si curò che la giovinetta fosse di malferma salute e le promise di sposarla appena fosse un po' migliorata.

Seguitava in tanto in quell'anno 1788 i suoi studi, quando sopraggiunse un fatto per lui dolorosissimo e che il Mazzarosa racconta con queste parole: "Nel dicembre di quell'anno seppe a caso che suo padre era presso a morte, corse ratto da Pisa a Pontito per la via più breve dei monti, a piedi ed anche scalzo per andare più spedito che è un viaggio di oltre a venti miglia e potette così vederlo tuttavia in vita ed averne l'ultimo bacio". Si trattenne dopo la morte del padre qualche giorno a Pontito e poté almeno dar sfogo alla tristezza sua col compiere tutti gli uffici di figlio devoto in sì triste circostanza. Tornato a Pisa trovò la Beccani in migliori condizioni di salute; e mantenendo la promessa, dispose tutto per sposarla. Il matrimonio si fece nella chiesa di S. Nicolò il dì cinque febbraio 1789. Molta era la stima che il Papi si era venuto acquistando in Pisa, come si può rilevare dall'impiego che gli fu dato negli ospedali prima ancora che avesse terminato il corso di chirurgia. Vogliono alcuni che imparasse in questo tempo dal suo maestro Vaccà Berlinghieri la diffidenza che sempre poi ebbe, per la medicina e che fu causa della sua precoce  morte per unanime parere di molti; ma se le dottrine del maestro trovarono adito e si radicarono nel giovane, vuol dire che incontrarono un terreno adatto e già predisposto ad accoglierle: n'è prova il fatto che in letteratura i suoi maestri, più o meno puristi, non poterono egualmente trasfondere in lui le loro teorie e farne un raccoglitore di parole e frasi, invece che uno scrittore purgato e disinvolto. Già abbiamo visto che si mise a studiare medicina senza molta voglia; può essere che con questa sua cattiva predisposizione, un maestro che considerava come ingegnose produzioni dello spirito umano e non altro i vari sistemi e dava la massima importanza nella cura alle forze naturali, può essere che un tal maestro abbia accresciuti, o per lo meno confermati i dubbi in un giovane allievo sull'efficacia di alcuni rimedi.

Del resto il Papi studiava in Pisa più che altro la chirurgia, sia frequentando assiduamente le lezioni, sia unendo allo studio teoretico le esercitazioni pratiche. A tale scopo assisteva alle medicature; egli stesso medicava sotto la direzione dei professori e si esercitava pure nelle operazioni chirurgiche tanto da riuscire poi, per testimonianza dei suoi maestri ad operare ne' casi più difficili con somma franchezza e puntualità. Univa all'acutezza dell'ingegno la carità e lo zelo per gli ammalati, virtù tutte proprie del suo animo buono.

Queste, da me riassunte, sono le lodi che gli tributarono unanimi gl'insegnanti suoi nei certificati che gli rilasciarono alla fine dei cinque anni di sua dimora in Pisa: queste lodi sono ripetute nel documento di congedo ove si dichiara infine: "illi …. nihil prorsus desit, quod ad chirurgiarm ubicumque exercendam desiderari posse videatur".

Nonostante tutto ciò il Papi non era contento: se la disgrazia del padre gli era stata alquanto mitigata dall'amore per la Beccani, non che eguale nessun compenso trovò quando l'anno appresso si vide morire anche questa e restò padre desolato di una bambina lattante. Morì della sua malattia di tisi, aggravatasi in conseguenza del parto; la bambina, quantunque nata da madre non sana, visse assai a lungo se nel 1834, quando morì Lazzaro, era ancora in vita; certo influì a fortificare la costituzione sua il buon pensiero che ebbe il padre, e in questo le idee sue gli giovarono, di farla educare nel paese nativo, dove e il nutrimento sano e l'aria salubre della montagna le fecero assai più di qualunque medicina.

Tanto dispiacente rimase il Papi della perdita fatta che secondo il Bini avrebbe stabilito in cuor suo di non legarsi ad altra donna; se anche questo non si propose, è certo che nel fatto, egli si attenne e mai nella vita sua che pur era ancora nel fiore, si permise altri amori.

 

SUO VIAGGIO IN INDIA – CAUSE CHE LO DETERMINARONO

I dispiaceri però non erano la sola causa della sua tristezza in quel tempo. Che cosa aveva fatto fin qui? Si era acquistato la conoscenza di un’arte che non apprezzava, s’era fatta per conto proprio una cultura assai vasta, godeva dell’amicizia d’illustri persone, fino il Cesarotti si dice che l'incoraggiasse per lettera e ne lodasse la sua tragedia, il Clearco, pubblicata in quell'anno 1791: ma tutto questo poteva bastare al Papi? Egli sapeva in fondo di non aver prodotto nulla che lo potesse far aspirare a vera gloria e non aveva formato neppure innanzi a se un piano sicuro della vita avvenire: soltanto ben chiaro e forte in lui era un ardore giovanile e un'avidità dì veder cose nuove. In questo stato d'animo qualunque occasione era buona, ogni partito sarebbe stato pur sempre migliore dell'indecisione: perciò quando il Montemerli, capitano della Ferdinando III di Toscana e suo amicissimo lo invitò ad andare in qualità di medico sulla sua nave in partenza per l’India. il Papi subito accettò senza sapere precisamente, io credo, a che scopo intraprendesse quel viaggio. Qualche biografo ha voluto argomentare che lo movessero a lasciare la patria molti e nobili pensieri, e fra gli altri anche quello di potere un giorno incontrare per lei chiara ed utile morte e di poter adoprare la sua spada e la sua militare esperienza a vendicarne gli oltraggi ed il vilipeso diritto. Ma il fatto stesso che il Papi partì con l'assicurazione dell'amico che dentro quindici mesi sarebbero di nuovo sulle spiagge toscane, basta a mostrare falsa ogni simile supposizione. La sua partenza dall'Italia possiamo metterla a riscontro con quella di tanti altri ingegni, che noi troviamo in questo periodo sparsi qua e là per l'Europa.

I nomi di Ferdinando Galiani, Pietro Verri, Carlo Denina, Antonio Conti, Pietro Metastasio, Vittorio Alfieri, Giuseppe Baretti e più altri, ricorrono alla mente di tutti. Perché questo movimento, questo versamento al di fuori d'Italia di energie italiane? Non era meglio restando in Italia fossero spese in pro della patria? Ma l’avevano forse gli italiani? esclamava il d'Azeglio. L'Italia esisteva come espressione geografica, esisteva ancora nella lingua, ma non esisteva come stato e neppure nella coscienza delle popolazioni. Divisa in molti principati, ciascun dei quali non aveva di comune con gli altri che il servire a un signore straniero, vedeva i suoi abitanti accrescere i mali propri con l'odiarsi a vicenda: Napoli temeva l'ingrandimento di Torino, Venezia di Roma quasi come l'Inghilterra della Russia o la Germania della Francia. Alla debolezza della nazione si aggiungevano i mali d'una società che già crollava all'urto delle nuove dottrine d'oltralpe. Comandare o servire, essere abietto o esser grande, erano le condizioni generali della popolazione d'allora tanto è vero che molti si ritiravano dalla vita pubblica dandosi ad avventure e rapine: i masnadieri in terra, i ladroni in mare, rendevano anche mal sicure le strade e le coste. Ho accennato già come male organizzato fosse l'esercito nel regno di Napoli: alla dissoluzione di esso faceva riscontro la debolezza dello stato che, in mancanza di meglio, consigliava ai viaggiatori di andare a carovana e armati. Le conseguenze più tristi derivavano da ciò: molti si trattenevano dal coltivare, perché non sicuri delle raccolte; e così l'industria il commercio languivano e in gran parte regnava fiacchezza, corruzione. Quando si pensi che nel resto d'Italia non erano molto diverse le cose, ci meraviglieremo noi che un Alfieri, che un d'Azeglio si vergognassero d'essere italiani e che un Pietro Verri si chiedesse con rossore "Donde viene mai che i costumi di noi italiani siano corrotti a segno, che per tutta l'Europa sia ormai una vergogna il dire: sono italiano?". Ma il sentir vergogna è già un buon indizio che il livello morale si va innalzando e questi uomini sentendosi tanto superiori ai propri connazionali e non potendosi adattare ai governi tirannici e alla servitù che il popolo ancora pazientemente sopportava, passano le Alpi o il mare in cerca di qualcosa di nuovo. E il nuovo veramente si trovava al di là delle Alpi. Il 1789 aveva veduti proclamati in Francia i diritti dell'uomo dai rappresentanti di un'intera nazione, in quello stesso anno e nei successivi l'assemblea costituente proseguiva i suoi lavori per abbattere il governo assoluto ed il feudalismo, dando prova di assennatezza e buon volere, mentre la plebe abbandonandosi alla licenza incominciava a far temere che la trasformazione della società non sarebbe avvenuta tanto bonariamente come molti ancora credevano; la presa della Bastiglia e i misfatti di Varsailles ben presto lo provarono. Intanto mentre il re col suo tentativo di fuga si alienava gran parte del popolo, questo colla formazione dell'assemblea legislativa faceva un gran passo verso la repubblica. Tali fatti non potevano non aver un'eco anche nelle altre nazioni e la Francia, come già aveva sparso per l'Europa i suoi libri e le sue dottrine, vi portava ora la rivoluzione. E i popoli ? "I popoli, scriveva più tardi il nostro Papi, sembravano stare con grande ansietà intenti a quanto in Francia accadeva, bramare avvenimenti somiglianti e riguardare anche di malocchio quei fuorusciti che avevano abbandonato la patria pel dispetto di esser quivi stati agguagliati al rimanente dei cittadini ".Mentre così volgevano sempre più minacciosi i tempi, e in Francia stavano per scoppiare i torbidi della rivoluzione e per l'Europa tutta si preparavano grandi sconvolgimenti, il Papi lasciò e l'Italia e l'Europa: chi poi non vorrà tacere le colpe dei principi né quelle dei popoli si allontana ora dalla scena: le troppo vive impressioni che avrebbe avuto restando in patria, avrebbero potuto influire nella serenità dei suoi giudizi ed invano forse avrebbe tentato di spogliarsi degli odi di parte, se fosse stato mescolato e coinvolto in quei luttuosi avvenimenti. Partì da Livorno la mattina del sette aprile 1792, con l'assicurazione dell'amico Montemerli di essere in cinque mesi sulle coste dell'India; ma le cose andarono ben differentemente e la navigazione, già lunga in se, che conveniva passare dal Capo di Buona Speranza, fu questa volta lunghissima e piena di pericoli. Alla malinconia del lungo viaggio si aggiungevano un caldo soffocante e il corrompimento della provvigione dell'acqua; il Papi cercava distrarsi da queste angustie collo studio. Aveva tra i suoi libri una narrazione in prosa del barone di Eckartshausen: egli pensò di farne il soggetto di un racconto in versi; ecco come nacque la sua Licca, specie di novella pastorale, che stampò più tardi al suo ritorno in patria. La lenta navigazione, non fu neppure priva dì pericoli; già il Papi si era trovato in grave rischio della vita, quando (lo racconta il Bini e dopo lui il Dal Poggetto) giunta la nave presso Calcutta ebbe desiderio e si nutrì di alcune erbe fresche avute dalla città; nella notte fu preso da atroci dolori che solo il giorno dopo si mitigarono. Ma un più grave pericolo raccontato da lui stesso l'incontrò il 18 settembre 1793 quando fu sul punto di affogare nel Gange con tutto l'equipaggio, perché una fiera bufera respinse la nave, che già si era inoltrata per l'Hugly, una delle tante bocche del Gange, nelle secche presso Calcutta. Passati questi pericoli e dopo quindici mesi circa da che era partito sbarcò finalmente a Calcutta.

 

DIMORA IN INDIA DAL 1793 AL 1802.

Il Montemerli, essendo caduto ammalato quasi subito dopo il suo arrivo, fu costretto, contrariamente a quanto si era proposto, di restare rimandando la nave in Europa per un sito luogotenente. E neppure il Papi partì, che non volle abbandonare l'amico in quello stato e già meditava anche altre cose nella sua mente. Provvide alla salute del capitano curandolo egli stesso ed appena guarito l'aiutò a sbrigare alcuni affari mercantili giovandogli soprattutto come interprete per l'inglese. Passati quattro o cinque mesi in queste faccende, ed avendo compiuti col Montemerli tutti gli uffici di sincero amico, il Papi si divise da lui e lasciando Calcutta ed il Bengala si diede in braccio della fortuna dirigendosi nella parte meridionale dell’India. La fortuna dapprima non troppo propizia gli divenne poi favorevole giovandogli in ciò non poco la conoscenza dell'inglese. Le condizioni dell'India non erano, è vero, un secolo fa precisamente come oggi; l'Inghilterra non era ancora padrona assoluta, ma la Compagnia unita dei mercanti inglesi pel commercio delle Indie Orieniali da tempo aveva mutato il carattere mercantile per darsi a conquiste e sottentrava a poco a poco ai dominatari antichi, togliendo ogni speranza ai pretendenti nuovi : tanto poté il commercio unito alla sagacità ed alla prudenza. E’ stato detto che gli Inglesi sono i Romani del settentrione ed è stato aggiunto ancora che sono divenuti tali perché hanno imparato dai Romani a dominare i popoli; non so quale di queste due osservazioni sia la più vera: certo è che in India più che altrove si è manifestata l'efficacia del divide et impera, come la capacità degli inglesi nell'applicarlo. Mischiarsi fra le gelosie e le guerre dei tirannelli e facendo il proprio interesse fingere di aiutare altrui, mascherare con i bei nomi di alleanza e protezione quella che è o diventerà ben presto servitù, chiamare a suo luogo ribelli e delusi i difensori della propria indipendenza, muover guerra solo quando uno è sicuro della vittoria, infine sapersi regolare secondo le circostanze, ma in modo che ogni atto sia un nuovo passo e una nuova conquista, questa è la politica seguita dagl'Inglesi in quelle regioni, che li ha portati in due secoli alla completa dominazione.

Già sulla fine dei sec. XVIII non solo l'antica gloriosa potenza portoghese ma anche la Francese e l'Olandese stavano per sparire dinanzi alla forte rivale; basti dire che non piacendo alla compagnia inglese che lo stato del Nizam avesse un numero d'ufficiali francesi al suo servizio, trovò pretesto e modo di farli allontanare, e in simile modo il re di Travancore fu costretto, per mantenersi l'amicizia degl'Inglesi, a licenziare esso pure gli ufficiali francesi ; così l'Inghilterra vendicava anche in India le offese che Napoleone tentava farle in Europa.

Queste presso a poco erano le condizioni dell'India quando il Papi vi giunse: le sue già le sappiamo; non insignito di titoli e protetto da raccomandazioni, ma tutto fiducioso in sé e nella sorte, scorre ed osserva il paese esercitando la sua professione per vivere, finché giunto nel Travancore trova nel re Rama Varmer, per una singolare circostanza, favore ed ospitale accoglienza; il re aveva male a un dito e invano vi aveva applicato vari rimedi; avendo saputo di un forestiero che esercitava la medicina nel suo Stato, lo mandò a chiamare ed il Papi lo curò e lo guarì ricusando poi ogni ricompensa chiese solo al re di poter entrare al servizio nel suo esercito.

Era il Travancore tuttora fra gli stati indipendenti, almeno in apparenza, ma in realtà pagava assai cara la sua alleanza con l'Inghilterra, e per gli scambi a cui era con essa obbligato e per le soldatesche che doveva somministrare, e per i tributi cui era soggetto. Aveva in compenso un esercito assai agguerrito, composto di soldati disciplinati ed armati all'europea e contava fra i suoi ufficiali non pochi francesi, inglesi, portoghesi. La domanda del Papi fu quindi accolta dal re con piacere e il cinque giugno del 1794 entrò al servizio assicurandosi per la seconda volta di che vivere col mestiere delle armi. Iniziò la sua carriera come capitano comandante le due compagnie dei Rajaputs, che erano guardie del corpo a S. E. il Ministro o Divano. I Rajaputs formano una delle principali caste in cui sono divisi gl'Indù e sono una tribù militare che comanda e governa. Il Papi, a cui non riusciva nuovo il maneggio delle armi, ben presto si guadagnò l'animo del re e la stima dei soldati.

Con rapidità percorre la carriera militare in quel libero regno, dove non gli faceva ostacolo né la povertà, né la nascita: al comando delle due compagnie aggiunge ben presto anche quello di un battaglione indipendente di Sipai, soldati indigeni disciplinati e armati all'europea, composto di ottocento uomini, ed è fatto aiutante di campo al Divano: passa maggiore nella quarta brigata dei Najers sotto la dipendenza del colonnello Scot, viene promosso luogotenente colonnello nella seconda dei Sipai comandata da Tambi-Saib, fratello del Divano e giunge infine al colmo degli onori il sette novembre 1798 con la nomina a colonnello comandante la seconda brigata dei Sipai e con lo stipendio di trecentocinquanta rupie al mese. Per tal modo sbarcato in India povero, sconosciuto, in meno dì cinque anni si trovava per favore della fortuna e per merito proprio ai più alti gradi della milizia; avrebbe potuto anche arricchirsi, anzi confessava più tardi a persona di sua conoscenza che nell'India gli si era presentata più volte l'occasione, ma non se ne era curato mai.

Vita di studio e vita di soldato potrebbe chiamarsi quella del Papi in questi anni: studia anche quando viaggia per scopi militari osservando minutamente ogni cosa, dalla vegetazione dei luoghi ai costumi degli abitanti, studia conversando colle caste più alte, compresi i Bramini, e si istruisce sulla lingua, sulla religione: nelle ore di riposo legge una quantità di libri francesi e inglesi trascrivendo ciò che più lo colpisce; non trascura il latino, di cui vari brani si trovano riportati ne' suoi appunti. In latino anzi compone un'iscrizione per un monumento eretto a Quilon, città del Travancore.

Caro ai soldati non meno che ai superiori fu sempre al posto suo quando si trattò di adempiere il dovere militare e prese parte per comando del suo re alla guerra contro al sultano Tipù, sovrano del Mysore. Era questi figlio del celebre Aider Alì, che con l'astuzia riuscì ad impadronirsi del regno e con l'abilità sua ne dilatò non poco i confini; avrebbe messo a mal partito gl'Inglesi, se i potentati indiani non avessero esitato ad unirsi con lui. Il figlio, che aveva l'ardire del padre senza averne le virtù, volle compire ciò che a quegli non era riuscito; scrisse perciò lettere a parecchi re dell'India non che al generale Malartique governatore dell'Isola di Francia e di Borbone, perché si unissero e l'aiutassero a liberare l'India dal giogo britannico. Ma l'Inghilterra vegliava e prevenne i disegni di lui; mise in moto le sue forze, riunì quelle degli alleati, fra i quali era anche il re del Travancore e marciò sul nemico impreparato. li Papi ebbe l'ordine di unirsi agl'Inglesi con la sua brigata e fu pars quamvis parva, di quella spedizione.

Di lui sappiamo che trovandosi un giorno a passare vicino a un'imboscata, fu sorpreso da una inaspettata scarica di archibugi : alcuni soldati gli caddero al fianco ed egli stesso riportò una leggera ferita. Al fatto principale di questa guerra, all’assedio che gl'Inglesi misero alla capitale Seringapatam, dove il sultano Tipù si era chiuso, egli non si trovò e neppure prese parte all'assalto decisivo del maggio 1799, dove il sultano perdette col regno la vita. Sappiamo invece che finita la guerra gl’Inglesi continuarono a stipendiare la brigata a lui sottoposta e la tennero come ausiliaria. Il Papi, da buon soldato, obbedisce e resta al posto suo; al Travancore il re, a cui era legato da riconoscenza, era morto; non gli restavano dunque colà che i vecchi colleghi. Di questi non si dimentica nella lontananza e numerose sono le lettere che nel 1799-1800 scriveva al colonnello Scot e al capitano Miles e al capitano Spens e al capitano Collier e a più altri. Dapprima manifesta anche la speranza che le sue truppe siano rinviate nel Travancore, ma senza dimostrare mai grande scontentezza della residenza sul Malabar: " pour moi, je suis assez bien ici " scrive al colonnello. Scot, e più tardi a Calicut compra anche una casa sebbene con l'idea già fissa di non restarvi a lungo.

 

LASCIA PER VARIE RAGIONI L'INDIA E TORNA IN PATRIA.

Maggiori pensieri e maggiori affetti lo richiamavano lontano dall'India ed egli sognava, sognava anche là su quelle coste lontane i bei monti e il bel sole d'Italia: "ces montagnes me representent un peu les Alpes e les Apennins". E sapeva l'Italia stia quale l'aveva lasciata e quale gli avvenimenti posteriori l'avevano trasformata. Sapeva che la rivoluzione francese allora poco più che sul sorgere, aveva ormai messo sottosopra e popoli e re: sapeva che la Francia, al tempo stesso che combatteva sul Reno, compiva per mezzo di Napoleone, come per prodigio, la conquista d'Italia ed era accolta come liberatrice là dove gli antichi sovrani fuggivano. In Italia si creavano varie repubbliche ad imitazione della francese e il nome di Francia e quello di Napoleone erano ovunque accolti come emblema di vittoria e libertà.

Il Buonaparte, occupato l'Egitto, scriveva al sultano Tipù Saib chiamandolo suo grande amico ed annunziandogli d'essere venuto con innumerabile ed invincibile esercito per liberarlo dal ferreo giogo dell'Inghilterra e questa rispondeva alla sfida distruggendo la flotta di lui ad Abukir, intercettando la lettera, e assicurandosi in breve e per sempre del re del Mysore. Né minori erano l'angustie che gli procurava in Europa; l'Italia, già sottomessa, ritorna in potere dei vecchi padroni, finché la gloria di Marengo la restituisce a libertà; bella e lusinghiera parola che ingannava i più saggi. Il Papi che fu sempre assetato di libertà che non fosse licenza, che aveva applaudito in cuor suo alla filosofia che di questa libertà si era fatta banditrice, non poteva non riguardare con simpatia gli avvenimenti d'Italia e ammirare i Francesi che gli apparivano come liberatori; quando fu a contatto con essi o nei luoghi dove essi erano stati, capì quanto si era illuso.

Ma allora non sapeva convincersi come mai l'Inghilterra tentasse tutti i mezzi per debellarli; in una lettera scritta nel 1801 deplora che questa nazione tragga dall'India tanti tesori, perché, secondo lui quell'oro "corrompendo i gabinetti europei e ridestandone l’ambizione scoraggiata dalle disfatte, riaccende quella guerra che inonda di sangue l’Europa e trattiene il ritorno della pace>>.

Piena la mente di così dolci speranze, desideroso di rivedere la patria e i grandi cambiamenti accadutivi annoiato del clima del paese che cominciava a tediarlo ed infiacchirlo, domandò nel 1801 il permesso di ritornare in Italia, e il tre dicembre di quell'anno abbandonò quella terra, lasciando in chiunque lo conosceva il desiderio di se. In un suo giornale di viaggio dalla costa Malabar in Europa ci narra egli stesso che l'accompagnarono al mare e ufficiali e soldati e se in quell’occasione tutti vollero mostrare la loro affezione e il loro dispiacere per la partenza del colonnello che non dovevano rivedere, non meno addolorato era il Papi, il quale non dimenticò mai gli anni, passati nell'India, ma anche da vecchio volava spesso col pensiero a quelle belle contrade.

Nel suo viaggio dal Malabar a Bombay passò il tempo scrivendo, prendendo appunti e quando gli si presentava l'occasione facendo qualche passeggiata a terra. Giunse a Bombay verso la metà di dicembre, donde ripartì il sette febbraio 1802 sopra un Dau arabo ripieno <<d'una ciurma di barbari e di fanatici," i quali l'onorarono con l’appellativo di migliore degli infedeli. Giunto a Moka nel marzo, ivi trovò uno scuner e su di esso un ufficiale inglese suo amico, il quale non solo gli fece compagnia fino a Suez, ma anche nella traversata del deserto. A Giza ammira le Piramidi: per affrettare il suo viaggio s'imbarca sul Nilo fino a Rahmanie, e di là prosegue per terra ad Alessandria. La celebrità di quei luoghi era aumentata dalle recenti imprese di Napoleone: erano poco più di due anni che questi si era partito; da per tutto restavano ancora in piedi le costruzioni che i francesi avevano fatto qua e là nella loro breve dimora e sulla bocca di molti era ancora il nome del gran conquistatore, nel cuore d'ognuno la delusione provata. Le notizie contraddittorie facevano più vivo nel Papi il desiderio di rivedere il proprio paese; partì dunque d'Alessandria il sette giugno diretto a Candia e invece per venti contrari approdò a Coo; ne approfittò per visitare la patria d'Ippocrate ed Apelle e copiare due iscrizioni greche, sebbene avesse trascurato un poco questa lingua nella sua dimora in India; sono le due iscrizioni che il il18 ottobre 1802 sbarcato a Livorno mandava a Cesare Lucchesini, noto grecista del tempo, a Lucca, dove giungeva poco appresso egli pure dopo un'assenza di dieci e più anni.

Tornava in patria a 39 anni quasi sconosciuto come n'era partito, ma ricco d'esperienza, piena la mente di idee grandi, non più titubante di sé della sua sorte, ma sicuro della via da percorrere, e della meta dove arrivare. Le antiche amicizie si rinsaldano, le antiche protezioni diventano amicizie; il volgo ammira in lui l'uomo che si è fatto strada, il colonnello, la fortuna che ha portato e a queste cose s'inchina; i dotti, gli intellettuali trovano in lui la persona colta, che ha viaggiato, veduto ed osservato molto e ritengono la sua conversazione piacevole. Ma egli sente in sé qualche cosa di meglio che tutto ciò; in dieci anni la sua mente ha subìto una di quelle trasformazioni non rare negli uomini d'ingegno colpiti da circostanze imperiose. Fu già notata dal Sardi l'indipendenza colla quale il Papi vive in Lucca coi letterati di quella città, il Lucchesini, il Fornaciari, il Bini il Mazzarosa, ed altri, ma questa indipendenza, che infine superiorità, secondo me il Papi la deve in gran parte a quel senso pratico, a quella larghezza d'idee a comprendere e discutere che acquistò vivendo nel mondo e che quei suoi bravi concittadini, ristretti sempre in una piccola repubblica, in una cerchia limitata e circoscritta, non ebbero; non vorrei chiamare gretti quegl'ingegni, ma pure paragonati al Papi, quale differenza! Gli uni sono lucchesi, l'altro è italiano; il nome dei primi è legato a un successo di stima, il nome del Papi ad opere che resteranno.

Giunto il Papi al paese nativo sul finire dell'anno 1802 poté riabbracciare tutti i suoi e anche la vecchia madre, che poi morì pochi anni appresso e quasi improvvisamente mentre egli era a Lucca. Ma finite l’accoglienze oneste e liete, quando volse lo sguardo sull'Italia e pensò quanto diversa la ritrovava e quanto diversa l'aveva immaginata, si sentì stringere il cuore e rimproverò a sé stesso il desiderio che aveva avuto di rivedere quei grandi cambiamenti, e "non so, esclama, s'io debba chiamar crudele o pietosa quella fortuna che per tanto tempo mi ha tenuto dalla patria lontano. Ho sofferto non leggeri disagi, ho incorso non pochi pericoli; ma ho sfuggito almeno il dolore di vedere cogli occhi miei Italia fatta gioco di straniere nazioni, gli acerbi mali che l'hanno afflitta e l'ultimo suo avvilimento; non ho veduto almeno l'orgoglio più stupido e cieco, la corruzione più infame, e la più vile e detestabile ipocrisia attizzare le stolte discordie dei suoi cittadini insensati e la più grande e gloriosa causa pubblica vituperevolmente tradirsi ed opprimersi>>.

Sdegnoso di vivere in mezzo alle lotte cittadine, alle miserie, alle discordie, egli si agita fra il pensiero di abbandonare di nuovo la patria e il restarvi adoperandosi in suo bene: ma l'età sua e più il bisogno di dar corpo a ciò che da lungo tempo si veniva in lui maturando lo persuasero a differire e restare. Ed ecco appena due mesi dopo il suo arrivo manda fuori le sue lettere sulle Indie Orientali: poi si trattiene a Pisa per attendere alla pubblicazione della breve versione della Licca, che uscì stampata nel Nuovo Giornale dei Letterati l'anno dopo 1803. Rivedeva al tempo stesso in quella città le antiche conoscenze e fra gli altri il suo intimo Giovanni De-Coureil, noto direttore del Giornale di Pisa e grande ammiratore e difensore suo nella polemica sulle Lettere, che aveva pubblicato anonime. Fino da questo tempo abbiamo notizia che il Papi rivolgesse il suo pensiero a tradurre dall'inglese e siccome in lui fu sempre fissa l'idea di non scrivere se non a giovamento altrui, così ci fa sapere che colla persuasione di far cosa utile agli Italiani si accinge a presentar loro il poema del dottor Armstrong sull'arte di conservar la salute. Differì alquanto, come pare, l'esecuzione di questa sua idea e la traduzione non comparve che nel 1806.

Intanto la pubblicazione sebbene anonima delle Osservazioni sulle Indie Orientali, fece conoscere a molti il valore del nostro autore e la polemica combattutasi fra il Ciampi e il De Coureil su di esse contribuì ad estenderne la lettura; il Cesarotti nel 1806 mentre gli lodava per lettera la versione dell'Igea, lo ringraziava dell'offerta dell'opera sulle Indie, esprimendo il desiderio di leggerla. Anche in patria il Papi cominciava ad esser circondato di stima e designato a vari uffici. Lucca l’aveva trovata ancor retta a repubblica, ma questa piccola e aristocratica repubblica il cui senato procurava "che rimanesse come scordata al mondo, affinché il suo benestare non fosse insidiato e perciò disturbato" era essa pure stata contesa e saccheggiata dall'ingordigia francese e austriaca; aveva veduto il suo erario vuoto non per spese di guerra e in difesa della città, ma per soddisfare alle imperiose richieste del comandante vincitore; aveva veduto anch'essa cambiarsi il vivere dei suoi cittadini e non più riposato e bello, ma discorde e in guerra, favorire i disegni che su lei già concepiva Napoleone. Difatti la repubblica democratica del 23 dicembre 1801, durante la quale il Papi fu del Comitato di Sanità (11 dicembre 1804) non durò a lungo e più che il cambio fu di avvilimento a Lucca l'indegna finzione a cui chi tutto poteva obbligava quella Repubblica. Non sarebbe forse riuscito meno inviso ai Lucchesi il comando di ricevere a sovrana Elisa, la sorella di Bonaparte, sposata a Felice Baciocchi, di quello che esser obbligati a supplicar l’imperatore di concederla? Queste arti nell'animo del Papi dovevano già suscitare l’avversione per quell'uomo ambizioso, che sempre ebbe "in vista l'interesse proprio e di sua famiglia piuttosto che quello dei popoli a lui soggetti". Però se Elisa portò sul trono il dispotismo del fratello, vi portò anche l'ingegno ed una sua particolare ambizione di farsi amare da' sudditi e d'accrescere il loro benessere. "Qui in Lucca, era solita dire, io sto bene, perché mi pare d'essere in mezzo alla mia famiglia". E veramente si occupò degl'interessi di questa città: abbiamo veduto quanto l'istruzione fosse insufficiente; Elisa creò due istituzioni per le femmine e per i maschi il Collegio Felice, estese l'istruzione anche nelle campagne, riordinò le scuole che già esistevano, favorì l'accademia degli Oscuri. All'amore per le lettere e scienze andava unito in lei quello per l'arti: bene lo sa la città di Carrara che, unita al principato di Lucca nel 1806, vide l'accademia sua toccare il più alto splendore mentre fu sotto il governo di Elisa. Essa aveva raccolta, come dice il Lazzoni, fanciulla dalle mani del governo italico, ed ora la vedeva vegeta di gioventù, ricca di sentimento e di vita. Sua opera fu infatti l’istituzione della banca Elisiana ad assicurare lavoro a numerosi operai e ad incoraggiare gli studi accademici; fu sua cura di istituire straordinari concorsi e premi per i giovani più valenti; né fu suo ultimo merito il mettere a professori e direttori in quest'accademia uomini illustri quali il Fantoni (Labindo), il Desmarais, il Bartolini e lo stesso Papi. E non meno certo si adoperava al benessere del popolo ; soccorreva i poveri, migliorava gli ospedali, allargava le vie anguste della città e ne apriva quattro al di fuori ; insomma Lucca si trovava finalmente sotto un governo stabile venuto dopo una successione di mutazioni e sconvolgimenti. Ciò rendeva più facile il tollerarlo anche se straniero; ed il Papi credendo follia per allora sperare qualcosa di diverso o migliore, ci si adattò senza adulare, ma anche senza chiudersi in uno sdegnoso e inutile riservo. L’accorta principessa ben presto lo trasse ai primi onori nominandolo suo bibliotecario con un assegno di 1200 franchi, e nello stesso Giugno 1807, tenente colonnello del primo reggimento della milizia nazionale del principato. Di più circa questo tempo ebbe anche la direzione della Gazzetta di Lucca, piccolo foglio politico letterario, emanazione della Corte, che ne obbligava l'associazione agli impiegati mediante ritenuta di stipendio. Tali uffici gli permettevano di attendere ai suoi studi e di passare la vita in una modesta agiatezza: forse avrebbe messo assieme anche qualche somma, se la carità spinta all'eccesso e la passione per i libri non glielo avessero impedito. Frattanto i suoi amici gli procuravano gli onori accademici; fino dal 1789 era stato inscritto all'accademia dei Palentofagi; ora, nel 1808, due accademie vollero registrare il suo nome, quella Italiana di Pisa, che lo dichiarava per mezzo di nomina di Lorenzo Pignotti, socio onorario, e quella Pistoiese che lo nominava socio corrispondente, per acclamazione. Oggi di accademie quasi più non si parla, ma qualunque idea si voglia avere su di esse, è certo che ne facevano parte i migliori ingegni e il trovare in tante il nome del Papi è un segno della stima in cui era tenuto. Si sapeva che dopo la prova ben riuscita dell’Igea, si era messo a un'impresa ben più ardita, alla versione del Paradiso Perduto, che pubblicò nel 1811; per esso il suo nome fu noto anche agli stranieri e maggiormente apprezzato in patria: da Bologna gli scriveva il Giordani nel 1812 ringraziandolo del nobile dono del suo Milton e poco, appresso, del molto piacere che gli aveva procurato, quella lettura, l'accademia Napoleone di Lucca dopo la pubblicazione dell'opera l’ammetteva nel numero dei soci ordinari; infine la principessa Elisa, a cui aveva dedicato il libro e che trovavasi a Firenze dal 1809 come granducchessa di Toscana, al posto dei Borboni cacciati dalla prepotenza napoleonica, scriveva al Papi una lettera nel gennaio del 1811, dichiarando di aver ricevuto con molto piacere il primo volutile della sua versione. Nell'agosto di quello stesso anno confermava la fiducia in lui nominandolo provvisoriamente direttore della stampa nel Principato lucchese, con l'incarico d'esaminare le opere che si volessero stampare, di comunicare al ministero dell'interno ciò che si scorgesse d'immeritevole e poco conveniente che si stampasse. Ma tutte queste cure non tardarono a indebolire la sua salute; il male non curato si aggravò nel 1811, fino a metterlo in serio pericolo di vita. La malattia fu superata con gran gioia degli amici e della figlia con cui allora viveva in Lucca.

Ma la sua penna era destinata ad un'alta opera (1) alla quale si andava da lungo tempo preparando col leggere e meditare: in ciò gli giovavano molto anche gli amici e specialmente il Giordani che ora gli dava notizia della Storia della guerra americana del Botta, ora gli chiedeva un giudizio sopra l'opera del Sismondi, ora gli parlava della storia del Thiers.

La vasta sua cultura era ben nota alla corte di Toscana, e l’anno di poi essendo vacante il posto di direttore al Museo di Carrara non si seppe fare scelta migliore del Papi. La condizione sua migliorata non poco in questo cambio. Partì per Carrara verso il novembre del 1813 e quivi avrà dovuto esercitare la sua pazienza fra "le invidie tristi, gli stolti puntigli, le gare ambiziose e avare e fraudolenti degli artisti>> come gli presagiva il Giordani, ma egli amava i giovani, sapeva guadagnarsi il loro cuore, e questi lo riamavano sinceramente: non erano ancora due mesi che si trovava fra loro quando ricorrendo il diciassette dicembre il suo onomastico, essi pensarono di regalargli il busto di lui in marmo. Cercava il Papi di contraccambiare quell'affetto illustrando quell'accademia non solo col dedicarvisi tutte le sue cure, ma anche con l'acquistarsi l'amicizia di uomini insigni, come il Canova, che potevano grandemente giovare a quell'istituto.

Poco poté mantenere il suo ufficio; nel 1812 i geli, più che le armi della Russia erano riusciti fatali alla fortuna di Napoleone: l'Europa intera, armata gli contrastava di rialzarsi: risorse tuttavia, ma la prigionia di S. Elena chiuse per sempre le speranze ridestate dal regnatore dell'Elba. La granduchessa di Toscana partì da Firenze al primo rovescio delle armi francesi e riparò a Lucca, donde fu costretta pure a sloggiare all’apparire in Livorno delle navi inglesi. Partì la mattina del quattordici marzo 1814 affidando la cura del paese al suo Consiglio.

(1) - I Commentari della Rivoluzione Francese.-

 

PERIODO D’INCERTEZZA – CONDOTTA DEL PAPI

Lucca rimasta, per cosi dire, senza governo fu preda per qualche tempo ai faziosi; tutto ciò che ricordava i Francesi fu odiato e mutato, e fino l'accademia, che si era chiamata Napoleone, dovette cambiare un'altra volta il suo nome in quello di R. Accademia Lucchese. Durò questo stato di cose fino al quattro maggio, quando ad istanza del popolo il senato adunatosi decretava l'istituzione di un nuovo governo di nove cittadini col titolo di Commissione provvisoria di governo o, come poi si chiamò, Governo provvisorio dello stato di Lucca: si componeva di un presidente e gli affari erano spartiti in quattro sezioni. Nella notte dal quattro al cinque maggio arrivava a Lucca il conte di Starhemberg con un presidio austriaco in qualità di governatore generale della città e del territorio: Piombino, Massa, Carrara e quella parte della Garfagnana che Napoleone aveva unito a Lucca, furono disgiunte e il Papi nel darne avviso all'amico Giordani con lettera del due giugno l’informava della sua partenza dall'accademia. Tornò a Lucca quando già era retta dalla commissione provvisoria dei nove cittadini.

La caduta del governo di Elisa non dovette dispiacere al Papi: egli non odiava la monarchia, ma stimava non meritarsi nome di re quegli che governava assolutamente, o per mezzo di pochi ed interessati ministri; ammoniva ciascheduno di questi re che "l'amore della libertà è piantato nel cuore di tutti gli uomini, che non potrà svellersi mai.... che quegli stessi che gli stanno d'intorno.... se domani perderanno quel guadagno, quell'onore e quella speranza, si vedranno tosto cambiare opinione;…. e lodare ciò che prima fingevano di biasimare e cercare libero governo". Libertà e non licenza, ecco ciò che il Papi bramava: e biasimava perciò i così detti novatori che riguardavano ogni mutazione come loro vantaggiosa, non avendo mai nulla da perdere.

Nel breve tempo che durò il governo provvisorio in Lucca i membri di essi furono in un continuo cambiamento, o per rinunzia propria o perché rimossi dal loro ufficio; anche il Papi ne fece parte, ed il sedici giugno, pochi giorni dopo il suo ritorno da Carrara, il Conte di Starhemberg lo nominava al posto di Bernardino Bandettini dimissionario. Sedette in quel consiglio circa un anno entrando nella Deputazione di Giustizia e delle Finanze: impieghi tutti gravi ed infruttuosi, ma che egli esercitò con zelo, per il bene pubblico. Ebbe anche cariche rimunerative. Nel luglio 1814 viene nominato censore del Collegio e liceo nazionale e insieme gli è concesso, a sua richiesta, di poter supplire il bibliotecario Vecchi in caso di malattia, o altro impedimento. Anzi il governo riconoscendo il suo zelo per il pubblico bene, non solo accoglieva la domanda, ma gli progettava anche di dare due lezioni per settimana di lingua inglese ad istruzione della gioventù.

Intanto col ventiquattro maggio si cambiava di nuovo il governo di Lucca; il conte di Starhemberg fino dal marzo era stato richiamato a Vienna ed in suo luogo era entrato il tenente colonnello Werklein, il quale abbattendo ogni libera istituzione, compreso il Senato, sì arrogò nella riforma del maggio 1815 ogni autorità condividendola con alcune persone da lui scelte. Un tale governo non era il più adatto per provvedere alle condizioni speciali degli anni 1815 e 1816 che portarono in Lucca come in altre parti d'Italia, una carestia seguita dalla peste. I privati furono da più del governo nel soccorrere i miseri e prestar aiuto ai sofferenti e il Papi, per quanto le sue sostanze glielo permettevano fu tra i più zelanti. Come refrigerio a tanti mali l'Italia vide i suoi stati vilmente mercanteggiati nel congresso di Vienna e soffocato ogni desiderio e diritto; il Papi conobbe lo stato della patria e se n'accorò: non restava che la penna per far valere le giuste aspirazioni dei popoli. Libero dalle cure di stato per la riforma del Werklein, attese alla correzione del suo Milton del quale andava da tempo postillando un esemplare, secondo l'osservazioni e critiche proprie, o quelle degli amici, per farne una seconda edizione. La dedicò ad Angelo Guinigi, che stimava assai, perché sempre s'era adoprato per il bene dei suoi concittadini. E il Guinigi ci dà una prova del conto in cui il Papi era tenuto pregandolo a mutare il nome di Signore, usato in principio della dedica, in quello di amico e aggiungendo: "Il nome di amico del Papi mi onora; questo è quello ch'io desidero e che farò ogni sforzo per conservare". Usciva la sua ristampa nel giugno 1817, pare con qualche difficoltà sollevata dalla censura ecclesiastica, perché il Giordani gli scriveva "Mi consolo della sua ristampa del Paradiso. Non mi meraviglio ch'ella conosca i preti: ben mi duole che siano tuttavia terribili>>, le quali parole ci mostrano quanto il Papi, pur religioso, fosse lontano dal cieco fanatismo.

 

II GOVERNO BORBONICO RIDESTA LE SUE SPERANZE.

MEDITA E SCRIVE I COMMENTARI DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE.

Gli stati d'Italia avevano ormai accolto i loro principi, compresa la Toscana che ritornò a Ferdinando III, il principe mite e saggio che permettendo la fondazione dell'Antologia, fece di Firenze un vero focolare di dottrine liberali: a lui volle il Papi che fosse presentato un esemplare del suo Milton. Lucca era governata tuttora dal Werklein, ma ormai si sapeva che la città era destinata a Maria Luisa di Borbone, per passare alla Toscana quando, mancata l'arciduchessa Maria Luisa a Parma, Luisa di Borbone si recasse al governo di quel ducato. Giunse Maria Luisa in Lucca il sette dicembre 1817 aspettata ed accolta con gran giubilo. Ella veniva quasi diva mandata dal cielo a ristorare le piaghe di Lucca, a portare la pace e la felicità a far rifiorire gli studi e le arti, scacciando per sempre la rea discordia e l’odio civile: così cantava in un inno il Papi nell'occasione dell'ingresso della regina con i figli nella sala dell’accademia lucchese e gli stessi auguri ripeteva in un altro sonetto.

Il governo di Maria Luisa fu per quei tempi di una mitezza straordinaria, sebbene assoluto, ed arricchì Lucca d'opere ammirevoli. L'acquedotto dell'acqua potabile che, alla distanza di parecchi chilometri giunge fino a Lucca, è opera che desta ammirazione; una nuova strada da Lucca a Modena fu da lei costruita, furono fatti ripari a Viareggio, ed altre cose utili. Tutte queste benefiche opere lodava il Papi in nove distici latini, e in varie altre occasioni non si risparmiò di inneggiare alla famiglia regnante. Ora, come mai fu così devoto del nome dei Borboni egli avverso ai governi assoluti ed uomo liberale? Forse anche perché Maria Luisa esercitò il suo dominio su Lucca beneficamente e vi riportò la pace dopo tanti mutamenti e contrasti, ma un'altra ragione c’era e ben diversa: il principe ereditario Carlo Lodovico aveva allora fama di principe liberale non meno di Carlo Alberto in Piemonte; non dimentichiamo che Carlo Lodovico accoglieva benevolmente nel suo stato i fuorusciti d'altri paesi, che mostrava anzi di accordarsi con le idee loro e che essi per qualche tempo lo riguardano come loro capo al punto da usare sui bottoni una piccola immagine di lui. Sperò anche il Papi? Purtroppo le cose non andarono secondo le previsioni e l'Italia ebbe bisogno di ben altra preparazione per cambiare le sue sorti; ma torniamo al 1818.

La quiete era tornata in Lucca ed anche gli studi vi avevano reso un corso regolare. L'accademia che si chiama Lucchese invece di Napoleone, s'era pure ricostituita sotto l'alta presidenza del principe ereditario; e per la nuova costituzione del luglio ne fecero parte i migliori ingegni: il Papi fu riconfermato nel numero dei soci ordinari, mentre pochi mesi innanzi era stato nominato socio corrispondente dall’accademia livornese. Queste erano le distrazioni sue e non certo l'amore, come dubitava il Giordani. Appartengono a questi anni le edizioni della Congiura dei Baroni del Porzio e della vita del Giacomini del Nardi ch'egli curò si stampassero come una aggiunta all'edizione dei classici di Milano: dovevano essere prime opere di una serie assai numerosa, ma per buona fortuna nell'agosto 1819 avendone deposto ogni pensiero veniva concretando nella sua mente un altro più insigne lavoro a cui da tempo pensava e che in quell’anno aveva incominciato: i Commentari Sulla Rivoluzione Francese. Il venticinque ottobre ne scriveva quasi timidamente al Giordani dicendogli di star dietro ad un'opera d'altissima importanza, tanto da temere la taccia d'orgoglioso e temerario nell'averla intrapresa. Ma, io dico, saggiamente gli rispondeva l'amico, che il sentire le difficoltà è aver compreso bene il proprio soggetto e questo è già molto per ben condurlo. Incoraggiato così dagli amici e lungi da ogni carica pubblica che fosse incompatibile coi suoi studi, chiuso tutto in sé e quasi presago del poco tempo che gli restava più a vivere, consacra gli ultimi anni totalmente alla sua grande opera. La soppressione della carica di censore dovuta alla riforma che Maria Luisa fece degli studi, fondando il Liceo con carattere di vera università scientifica, gli fruttò maggiore libertà e tempo da occuparsi, mentre n'era compensato per lo stipendio della nomina a pubblico bibliotecario, soprattutto se si pensa che ne aveva fatto fino allora le veci gratuitamente. Nello stesso anno 1819 si creava una commissione di sei membri per la conservazione dei Monumenti di Belle Arti e per l'incoraggiamento delle Arti e manifatture esistenti nel ducato, e primo e presidente ne fu Lazzaro Papi, il quale pochi anni dopo rinunziò per essere più libero attendere al suo lavoro storico. Il Giordani quasi in tutte le lettere gliene parla e spesso l'incoraggia a continuare l'impresa. "Si faccia coraggio, gli scriveva, sul finire del 1820 e tiri innanzi quel suo grande lavoro. Capisco ch'è gran mole! ma non ci vuole quasi di meno per occupare molto l'animo, e sufficientemente distrarlo da tante noie presenti ". Le noie presenti erano specialmente quelle che i principi procuravano agli amatissimi sudditi in previsione delle loro idee di libertà, soprattutto erano le noie dell'Austria che si convertirono l’anno appresso in imprigionamenti e condanne di morte e carcere duro. Il miglior frutto per allora ne furono le Mie Prigioni, la cui lettura conturbava profondamente il Papi negli ultimi anni di sua vita.

Pratico già della Biblioteca quando ne fu eletto a capo, si adoprò in ogni modo per il restauro di essa dopo che l'incendio del trenta Gennaio 1822 l'ebbe distrutta più di mezza; andava in cerca di libri, sapeva cogliere l'occasione d'averli a buon mercato, ed in tutto aveva un tatto finissimo. Incoraggiava il suo zelo Maria Luisa con l'accogliere da varie parti una quantità d'opere, e col toglierne altre dall'archivio di stato per rifornirne la biblioteca: sicché in breve poté il Papi vedere ripiene di nuovo quelle stanze, assettate e in ordine e con gran piacere scrivere al direttore: " Abbiamo lavorato come facchini, ma la libreria ha preso almeno una assai bella apparenza". Circa questo tempo gli veniva offerta la cattedra d'eloquenza al liceo in sostituzione del Professor Zappelli; ma egli, a quanto ci viene riferito, l'avrebbe rifiutata e perché non amava qualunque siasi legame e molto meno la fatica in quello che non era in lui spontaneo: in realtà tutta la sua vita fu un’obbligazione continua e la seconda ragione è troppo generica perché le dobbiamo dare più peso che alla prima; dunque se pure non pensava col Lucchesini che quella cattedra fosse più di lusso che necessaria, dobbiamo anche questo rifiuto attribuirlo alla concentrazione sua intorno al gran lavoro, tanto più che con gli anni sentiva la sua vita indebolirsi. "Io ti prego mille e mille volte ad avere ogni possibile cura della tua salute; perché senza quella non vale niente la vita>>: gli scriveva il Giordani nel dicembre del 1824 e più volte glielo ripeteva nel successivo anno. Ma egli lavorava alacremente, lavorava con passione e poco prestava attenzione alle preghiere degli amici. Nel 1827, già aveva condotto a buon punto la sua opera, e poteva farla vedere al Lucchesini ; non era lavoro finito, era il primo getto quale era uscito "dalla penna mossa da un certo sdegno e abituata a dire la verità.".

Narrare la rivoluzione francese voleva dire parlare delle cause che la produssero; e come discorrere di queste senza parlare del feudalismo, senza dire le colpe dei principi, riconoscere i diritti dei popoli aspiranti ad esser liberi con l'infrangere il potere assoluto? E scrivendo tali cose come poteva ottenere il permesso di stamparle? Più facile riusciva d'evitare i tagli della censura nella narrazione degli avvenimenti dalla morte di Luigi XVI, dove la storia quasi si riduce a descrivere le imprese di Napoleone. Non restava dunque che di stampare la seconda parte in Italia e la prima parte all'estero voltandola, per esempio, in inglese; ma tal progetto che lì per lì era sembrato anche al Giordani ragionevole e quasi necessario portava dei gravi inconvenienti: si sarebbe perduto il profittò che gl’Italiani dovevano trarre da quella narrazione, e il Giordani concludeva dicendogli: <<forse si potrebbe stampare in Aiaccio. Pensaci>>. Il Papi ci pensò e pur restando fermo dell'idea dì stamparle non si occupò più della traduzione, ma di correggere invece e di rivedere il suo manoscritto.

 

SI RITIRA DA OGNI CARICA - SUA MORTE.

La fatica unita alla trascuratezza d'ogni cura influirono molto a peggiorare la salute del Papi, sicché passato alla meglio quell'anno 1828, per consiglio degli amici, fra i quali il Lucchesini, si decise a chiedere il suo riposo da bibliotecario. Il duca Carlo Lodovico, succeduto alla madre morta nel 1824, per non privare la biblioteca d'un uomo di tanto merito, provvide dapprima col dargli come aiutante e sostituto Telesforo Bini: ma a alle replicate istanze ed in seguito anche ad un rapporto del consigliere di Stato Lucchesini, il 16 ottobre 1829 accoglieva la sua rinunzia da bibliotecario rilasciandogli il privilegio di conservarne il titolo e gli onori : di più gli era concessa la pensione di scudi cento trenta e lire cinque annue da ritenersi sull’onorario del nuovo bibliotecario. Tutto questo "come contrassegno, diceva il decreto, della nostra soddisfazione per lo zelo, con cui ha esercitato ed esercita i pubblici impieghi e del conto, in cui teniamo i suoi meriti letterari". Con questa pensione poté il Papi passare onoratamente, se non lautamente gli ultimi anni della vita. Alcun poco gli fruttarono pure, specialmente considerati quei 'tristi tempi, i suoi Commentari, di cui la seconda parte poté essere pubblicata fra il 1830 e il 1831, ma i tempi sempre più burrascosi crescevano, non che diminuire, gli ostacoli alla stampa della prima. Alle speranze liberali suscitate da C. Lodovico erano successe disillusioni amare e dopo i moti del 1831 era scossa la fiducia anche in Carlo Alberto: si temeva, si dubitava anche di lui; pareva che i principi accarezzassero i loro popoli al solo scopo di tradirli; il supplizio di Ciro Menotti non ne era un esempio bastante? Come dunque si poteva permettere di stampare la verità, se la verità era quella che si voleva occultare ai popoli? Pure il Papi sperava o forse era anche lusingato indegnamente, perché ancora fiducioso scriveva nel 1833: " Potrebbe essere che alla venuta del nostro duca io ottenessi la permissione di pubblicare anche la prima parte dell’opera, poiché nulla è in essa che possa impedirne la stampa: solamente gli sono avversi questi tempi turbolenti ed infelici >>. Ma questa ultima ragione bastò perché restasse ancora per qualche tempo inedita e intanto lo cogliesse la morte. In compenso assisté al plauso che gli scrittori italiani e forestieri fecero ai primi volumi, e cedendo all'istanze degli amici si risolse di mandarli al concorso quinquennale della Crusca nel 1835. Non giunse però, a vedere il trionfo neppure di questa parte della sua opera, giudicata con voti unanimi la prima fra sessantasette che ne furono presentate. Il giudizio onora l'accademia; l'autore ormai era già stato giudicato. Per la reputazione di cui godeva in tutta Italia basti dire che almeno otto accademie nel 1834 lo registravano fra i loro soci per la reputazione speciale, che aveva in Lucca basti dire che l'accademia dei Filomati, l’accolse per acclamazione fra i soci Emeriti, sospendendo il consueto scrutinio con i voti segreti, e che Carlo Lodovico lo nominò professore di lingua e letteratura italiana del principe Ferdinando suo figlio. Quest’ultimo incarico affidatogli nel settembre 1833, mentre gli era di lieve fatica, gli portava invece assai frutto, venticinque scudi al mese, e la soddisfazione di indirizzare al bene un futuro sovrano. Sfortuna volle che per poco tempo potesse il Papi dedicargli le sue cure, perché anche la sua salute andò peggiorando; vane riuscirono l'insistenze degli amici che si lasciasse curare; si curava da se o per dir meglio s'indeboliva con la dieta. Sicché tormentato da antica malattia del fegato, indebolito da questo metodo di cura, quando nel dicembre 1834 fu sorpreso da un forte catarro prodotto da infiammazione di petto la cosa si fece subito molto grave. Assistito dalla figlia Albertina e dal genero, nella religione in cui fermamente credeva, morì la mattina del 25 dicembre 1834 in età di 7 1 anno.

La sua morte giunse improvvisa ed improvvisa veramente avvenne. "Non ha due mesi, scriveva il Ranalli, lui vidi attempato, ma verde ancora e promettente di molti anni, che violenza, di morbo troncò in meno di otto giorni>> e il Giordani: "Appena intesi del nostro caro ed adorabile Papi fui stordito da questo colpo che al tutto mi giunse improvviso". E veramente quanti lo conobbero si afflissero profondamente della sua morte; la sua perdita lasciava un vuoto non facile a riempire. Onori straordinari ebbe dai suoi amici; alle solenni esequie che gli furono fatte nella Chiesa di S. Frediano e all'orazione detta in tale occasione da Luigi Fornaciari assistevano oltre le accademie di Lucca, quasi tutta la gioventù studiosa e numeroso popolo: ebbe gli onori militari dovutigli come colonnello e gli amici dettero tosto l'incarico allo scultore Luigi Pampaloni di innalzargli un degno monumento che si trova oggi nella basilica di S. Frediano ed accoglie le ceneri del Papi, che dal camposanto furono trasportate religiosamente in quel luogo fino dal 1839.

Sarebbe impossibile riferire tutti gli elogi, poesie e commemorazioni che nell’anno della morte e nei seguenti furono fatti di L. Papi in varie occasioni, basterà qui dire che l’Accademia Lucchese e quella dei Filomati tennero ambedue un’adunanza speciale e affidarono ad uno dei loro membri l’incarico di recitarne l’elogio, che una commemorazione speciale volle farne la gioventù studiosa di Lucca nel trentesimo giorno della sua morte, che infine un'orazione tenne il Mazzarosa quando fu innalzato il monumento. Fra le iscrizioni che si fecero in memoria del Papi, di cui alcune bruttissime, ricorderò, quella che il nipote Luigi Niccolai volle porre in Pontito a ricordo dell'illustre parente e compaesano.

L'iscrizione è del Mazzarosa:

 

MDCCCXXXVII - IN MEMORIA – DI LAZZARO PAPI DI PONTITO - UOMO DI FAMA ITALIANA - PER LE LETTERE SULL'INDIE - LA VERSIONE DI MILTON - LA STORIA DELLA RIVOLUZIONI FRANCESE - IL NIPOTE LUIGI NICOLAI - MISE QUESTA PIETRA - A CONFORTO E STIMOLO - DEI SUOI TERRAZZANI - P. L. N. P.

 

Dopo questo tenue ricordo consistente in una piccola lapide posta, non si sa perché, nella Chiesa parrocchiale, Pontito non aveva più ricordato in nessun modo il suo figlio illustre. Solo in questi ultimi anni sorse l'idea di riparare a questo colpevole indecoroso silenzio ed il 5 settembre 1905 quel ridente paesello fu allietato da una solenne e grandiosa affermazione in onore del Papi: la piazza principale del luogo vide sorgere un degno monumento alla memoria del grande e pensoso uomo. L'iscrizione è del Sardi:

A Lazzaro Papi - la terra di Pontito - con orgoglio di madre - pose questo ricordo il 5 settembre 1905.

 

Nello stesso giorno si consacrava pure alla storia la casa ove lo scrittore nacque con questa iscrizione pure del Sardi:

In questa casa - il 23 ottobre 1763 - ebbe umili ed oscuri natali - Lazzaro Papi - per le opere feconde dell'ingegno -decoro della terra nativa e della patria comune.

I suoi compaesani compirono così un'opera doverosa e buona, perché è un dovere onorare i grandi, è un bene innalzarne le virtù, e il Papi fu grande e virtuoso: di quella grandezza e virtù un po' disdegnosa, che non si esterna, ma che più grande appare quanto più si scruta e si esamina. Molti parlarono di Lui, ma a me nessun ritratto è apparso più bello e più conforme al vero di quello che egli stesso ci ha lasciato in questi versi:

 

Non pianger sol di me quel che allo sguardo

Appare ancor del volgo ignaro e stolto;

Ma ciò ch'io sento, e il fuoco onde tutt'ardo,

Fa che spirino gli occhi e il fermo volto;

 

Pingi di Roma prisca un benché tardo

Figlio, che in lei sempre ha il pensier rivolto;

Non già d'Italia misera un codardo

Figlio, in letargo stupido sepolto.

 

Fra morti vivi, in secolo non mio,

Nacqui infelice; e nudro invan nel petto

Di gloria e libertà caldo disio.

 

A ogni alto oprar s'oppon nemica sorte;

E non sol libertade è a noi disdetto

Sperar, ma chiara ancor ed util morte.

 

Dopo ciò dire ancora di Lazzaro Papi mi sembrerebbe cosa vana: il desiderio ardente, vivissimo di libertà, il carattere fermo, sdegnoso di ogni codardia, la mente sempre rivolta al bello e al sublime e lo sconforto di non poter raggiungere l'idealità sue, tutto è significato in questo sonetto. Ma la gloria no, non la desiderò invano: se alcune opere sue possono essere dimenticate, gl'Italiani non possono certo scordarlo ne come traduttore di Milton, ne come autore dei Commentari; queste opere hanno tali pregi, che assicurano all'autore quella gloria che andava cercando che non invano desiderò.-

LUCCA – Pio Pardini – 1906

Basilica  di  San  Frediano   -  Lucca   

 Monumento Funebre a Lazzaro Papi  

 

 

 

 Home Page