L'Arte
Finalità, condizionamenti e tendenze
Il problema dell' «arte etrusca»
Per molti aspetti la civiltà degli Etruschi, pur appartenendo ad un'età pienamente storica, deve essere considerata e studiata alla stregua di una civiltà preistorica, vale a dire essenzialmente nelle sue testimonianze esteriori e materiali. Manca infatti la luce diretta di una grande tradizione letteraria originale che ci consenta di penetrare profondamente nel pensiero, nei sentimenti e nelle concezioni di vita di questo popolo, come invece è possibile per altre genti del mondo classico. Le notizie indirette, collaterali o tardive, che scrittori greci e romani ci hanno lasciato sull'Etruria antica e gli stessi documenti scritti etruschi (che consistono per lo più di brevi iscrizioni, non tutte facilmente interpretabili) offrono senza dubbio preziosi elementi di informazione: lo si è visto a proposito dell'organizzazione politico-sociale e della religione. Ma essi non possono in nessun modo compensarci della mancanza di una letteratura nazionale con opere poetiche, storiche, filosofiche, quali ci sono state conservate per la Grecia e per Roma.
Ciò per altro non significa che gli Etruschi non abbiano avuto una loro propria letteratura. Il fatto che essa non sia giunta fino a noi non è un argomento valido per escluderla. Noi possediamo la letteratura greca e quella latina quasi esclusivamente perche esse ci furono tramandate attraverso una tradizione ininterrotta, di copista in copista, durante i secoli del medioevo (i testi antichi su papiri dissotterrati dagli archeologi e i documenti epigrafici hanno una importanza relativamente secondaria). Ma se le opere degli scrittori classici furono copiate e trasmesse fino ai tempi moderni, ciò si deve al fatto che esse erano scritte in lingue universalmente note e vive (a parte ogni altra considerazione sull'importanza essenziale di queste opere per la costruzione stessa della cultura del mondo occidentale). Viceversa gli scritti originali dei popoli dell'ltalia preromana, tra cui gli Etruschi, avevano perduto ogni interesse sin dall'età romana imperiale, essendo redatti in lingue non più parlate e presumibilmente incomprensibili a tutti, fatta forse eccezione per qualche erudito. È chiaro che a nessuno poteva venire in mente di ricopiarli e conservarli per le generazioni future.
Una certa forma di attività letteraria degli
Etruschi è, in vero, testimoniata positivamente, per quanto in modo indiretto,
dal ricordo che ne sopravvive nelle fonti greco-latine. Si tratta di notizie
frammentarie che riguardano soprattutto I' esistenza di libri a contenuto
religioso, conosciuti attraverso traduzioni o compendi negli ambienti
sacerdotali ed eruditi romani. Sappiamo che essi erano classificati in tre
fondamentali raggruppamenti, sotto il nome di Libri Haruspicini, Libri
Fulgurales e Libri Rituales. I primi trattavano della divinazione
mediante l'esame delle viscere degli animali; i secondi contenevano la dottrina
dei fulmini. Quanto ai Libri Rituali, sembra che essi abbracciassero una materia
assai più vasta e complessa, riguardante le norme del culto, le modalità per
la consacrazione dei santuari, per la fondazione delle città, per la divisione
dei campi, gli ordinamenti civili e militari, ecc.; comprendevano inoltre
scritti speciali sulla divisione del tempo e sui limiti della vita degli uomini
e dei popoli (Libri Fatales), sul mondo dell'oltretomba e sui riti di
salvazione (Libri Acherontici) e infine sulla interpretazione dei prodigi
(Ostentaria).
La tradizione etrusco-romana tende ad attribuire a queste opere una origine antichissima e veneranda: tanto che una parte di esse era addirittura riferita agli insegnamenti del genietto Tagete (Libri Tagetici: corrispondenti, per quanto sappiamo, ai Libri Aruspicini e agli Acherontici) o a quelli della ninfa Vego(n)ia o Begoe, cui si assegnavano i Libri Fulgurali e gli scritti di agrimensura contenuti nei Libri Rituali. In sostanza si credeva in una loro ispirazione divina, facendone risalire l'origine ad una specie di primordiale "rivelazione" che si identificava con le origini stesse della civiltà etrusca. E non è da escludere che la raccolta dei libri sacri, quale si conosceva neg.i ultimi secoli della vita del popolo etrusco e quale fu, almeno parzialmente, tradotta in latino, comprendesse elementi di formazione assai antica. Ma nel complesso il carattere essenzialmente normativo degli scritti sembra riflettere piuttosto una fase evoluta e forse finale dello sviluppo spirituale e religioso della società etrusca. Si può immaginare che la loro elaborazione definitiva e, per così dire, "canonica" abbia avuto luogo nell'ambito di ristrette cerchie sacerdotali, come l'ordine dei sessanta aruspici fiorente ancora a Tarquinia in età romana: un mondo al quale senza dubbio appartenne quel Tarquitius Priscus (o Tuscus ?), al quale la tradizione romana attribuiva la composizione, la volgarizzazione e la traduzione in latino di diversi libri sacri. Con questo siamo portati a considerare la natura stessa della letteratura religiosa etrusca. Essa aveva probabilmente un aspetto vario ed eterogeneo, con parti poetiche o almeno redatte metricamente (carmina) ed altre minuziosamente rituali e prescrittive: delle quali ultime è possibile formarsi direttamente un'idea considerando testi originali etruschi superstiti, quali il manoscritto della mummia di Zagabria o la tegola di Capua.
Si è già, anzi, accennato ad un' eventuale
connessione fra il rituale funerario di Capua e i Libri Acherontici.
Nel suo complesso il corpo dei libri sacri doveva avere una ispirazione
fondamentale religiosa, ma nello stesso tempo anche un certo carattere
giuridico. Era un trattato di dottrine sacrali e insieme una costituzione ed una
collezione di leggi, anche profane (ius Etruriae). Carattere del tutto
particolare, profetico e insieme etico-giuridico, ha il frammento di testo
tramandato dai gromatici latini con l'insegnamento della ninfa Vegoia (cioè la
Lasa Vecui) ad Arunte Veltimno (che sarà stato in etrusco un Arnth Veltimna,
presumibilmente di Chiusi o di Perugia), in cui si parla di punizioni per
appropriazioni di terre altrui mediante lo spostamento dei segnali di confine,
da parte di servi o anche con l'acquiescenza dei loro padroni: punizioni
consistenti nell'insorgere di morbi e in catastrofi naturali, minacciate verso
la fine dell'VIII secolo (naturalmente etrusco, che secondo attendibili computi
di altre fonti sarebbe da collocare nell'anno 88 a.C.). Il passo termina con
l'esortazione: Disciplinam pone in corde tuo (metti nel tuo cuore la
disciplina). Si suppone che lo scritto sia stato ispirato in età sillana da
ambienti conservatori etruschi di fronte al pericolo di riforme agrarie e di
sovvertimenti sociali.
Resta il problema se gli Etruschi abbiano avuto altre forme di attività letteraria e sino a qual punto tali manifestazioni si siano svolte in modo autonomo rispetto alla letteratura sacra. L'esistenza di documenti annalistici o storici sembra accertata dal ricordo di Tuscae historiae citate da Varrone (Censorino, de die nat., 17, 6). Mancano invece del tutto riferimenti ad una narrativa epica o mitologica: pur non escludendosi la possibilità che questo genere sia stato coltivato in Etruria, giova rilevare che la mentalità degli Etruschi non sembra portata alla feconda inventiva mitografica propria dei Greci. Salvo rare eccezioni, l'arte figurata imita e rielabora soltanto le saghe divine ed eroiche accolte dal mondo greco. Che i carmi conviviali e le satire fescennine (la cui origine si riportava alla città falisca di Fescennio) avessero paralleli in Etruria è possibile, ma non documentabile con certezza. Di elogi cantati in onore di personalità defunte s'intravvedono invece riflessi in alcune iscrizioni funerarie più lunghe e forse a struttura metrica o ritmica. La poesia drammatica, cui si riporta il ricordo di una certo Volnio autore di tragedie etrusche, nasce probabilmente soltanto in epoca tarda come imitazione del teatro greco.
Si è più volte rilevata, nei testi etruschi, la presenza di raggruppamenti regolari di parole e di sillabe, ripetizioni, allitterazioni, rime, ecc. , che denunciano una forte disposizione alla forma ritmica. Non abbiamo invece finora dati sicuri per la individuazione di una metrica quantitativa, come nei versi greci e latini. Ma è in ogni caso assai probabile che le iscrizioni dedicatorie, specialmente arcaiche, ed alcune iscrizioni funerarie fossero verseggiate, come era uso frequente presso i Greci e i Romani.
danzatrice
etrusca |
Ovviamente metrici e cantati erano i carmi sacri, inni o preghiere, e forse anche quelli di contenuto profano. La musica accompagnata dal canto, ma specialmente quella senza canto, deve aver avuto grandissima importanza nelle cerimonie e nella vita pubblica e privata degli Etruschi, a giudicare dalla testimonianza concorde delle fonti letterarie e dei monumenti figurati. |
Gli
strumenti (e di conseguenza anche il ritmo, l'armonia, le disposizioni
melodiche) sono manifestamente gli stessi che troviamo nel mondo musicale dei
Greci: una identità che non sorprende, se si tien conto degli stretti rapporti
di dipendenza che legano le città etrusche alla civiltà ellenica per tanti
altri aspetti.
Fra gli
strumenti a corda, rappresentati o ricordati, sono la cetra, la lira, il barbiton;
fra gli strumenti a fiato, il doppio flauto (tibiae) e la tromba
diritta (salpinx, tuba) o ricurva (cornu); fra quelli a
percussione, i crotali delle danzatrici. Il duo del suonatore di cetra (o lira,
o barbiton) e del suonatore di doppio flauto costituisce, come in Grecia,
un accoppiamento normale: lo vediamo rappresentato con particolare frequenza
nelle scene di banchetto o di danza delle pitture funerarie. Eppure, nell'ambito
di una comune civiltà musicale l'Etruria deve aver avuto, così nei generi come
nella pratica, certe sue particolari tendenze e tradizioni. Non può trascurarsi
l'insistenza con la quale gli scrittori antichi parlano dell'impiego del doppio
flauto presso gli Etruschi, quasi di uno strumento nazionale derivato dalla
Lidia e poi trasmesso dagli Etruschi ai Romani: il flautista o auleta si
chiamava a Roma, con nome derivato dall'etrusco, subulo. In verità l'auletica
è un genere largamente diffuso in Grecia, ma attribuito originariamente ai
Frigi ed ai Lidi: esso risponde ad un gusto musicale per il patetico e per l'
orgiastico.
Anche in questo caso, come in altre manifestazioni della civiltà artistica, gli Etruschi avrebbero accolto dalla complessa esperienza ellenica certi elementi più vicini alla loro sensibilità, orientandosi specialmente verso le forme elaborate nelle città greco-orientali dell'Asia Minore. Logicamente dobbiamo supporre che la musica etrusca preferisse quei «modi» che i teorici greci definivano lidio, ipolidio, frigio e ipofrigio, con i relativi sistemi tonali, in contrapposizione con la grave e solenne musica dorica. D'altro canto la tradizione greca, antica e concorde (Eschilo, Eumen., 567 sgg.; Sofocle, Aiace, 17; Euripide, Fen., 1377 sgg., ecc.), attribuisce agli Etruschi la tromba: salpinx. Pur non significando che questo antico strumento sia stato inventato realmente in Etruria, ciò vuol dire che esso era caratteristico delle costumanze militari e forse anche religiose etrusche, ed eventualmente fabbricato ed esportato da botteghe di bronzisti etruschi (ma i monumenti figurati rappresentano di preferenza la tromba ricurva, il corno, o diritta con la sua estremità ricurva come il lituo). In ogni caso il favore accordato agli strumenti a fiato corrisponde ad un notevole sviluppo delle pratiche musicali distaccate dal canto.
La musica non soltanto si collega con la danza e con la mimica nelle grandi celebrazioni religiose e nelle manifestazioni sceniche, ma sovente accompagna singoli momenti del rito ed azioni della vita pubblica e privata, come le gare sportive, la caccia, la preparazione dei banchetti e persino la fustigazione degli schiavi. Questo rapporto della musica piuttosto con il gesto che con la parola trova il suo parallelo nelle forme peculiari degli spettacoli scenici etruschi, che avevano, per quanto sappiamo (Livio, VII, 2, 4 sgg.), carattere di mimo ed erano rappresentati da attori-danzatori mascherati (histriones o ludiones), talvolta anche con allusioni buffonesche e satiriche. Ciò non esclude la possibilità di vere azioni drammatiche dialogate, certamente favorite, a partire dal IV secolo, dall'influsso delle forme del teatro greco (come attestano i frequenti modellini di maschere comiche trovati nelle tombe etrusche).
La danza ci è nota soprattutto dalle figurazioni funerarie del VI e del V secolo. Sembra di regola eseguita da ballerini professionali: danzatrici singole accompagnate da un suonatore di doppio flauto; danzatori a coppia; ma soprattutto cori di uomini e donne procedenti in fila distaccati e con movimenti individuali, guidati da musici (suonatori di cetra o lira e flautisti) forse in funzione di corifei. I musici partecipano ai passi della danza. Qualche volta si colgono nell'atto di ballare anche personaggi della classe gentilizia alla quale apparteneva la famiglia del defunto. I movimenti saltellanti delle gambe e i gesti accentuati e presumibilmente rapidi delle braccia e della testa rivelano un genere di danza fortemente scandito, agitato se non addirittura orgiastico, che si ispira presumibilmente alla greca sikinnis di origine dionisiaca. Ma i documenti limitati nel tempo e nell'ambito dell'arte funeraria non sono sufficienti a provare che questo genere sia stato il solo coltivato in Etruria. Esso, comunque, si accorda con i «modi» musicali che abbiamo supposto dominanti nel mondo etrusco.
Primi e assai caratteristici documenti della plastica etrusca sono, già a partire dal VII sec., i canopi, ossia vasi cinerari di bronzo e di argilla dal corpo panciuto, con il coperchio interamente a foggia di testa umana. Talvolta al vaso erano applicate due braccia, in luogo delle anse, ed il tutto era collocato su di una sorta di tronetto circolare. Abbiamo poi i grandi sarcofaghi fittili, in forma di letto conviviale, sul quale si trovano una o due persone recumbenti, in atto di partecipare al proprio banchetto funebre. Nel Sarcofago degli Sposi sono visibili alcuni elementi di derivazione ionica: l'acconciatura dei capelli, la finezza dei volti, la levigatezza delle superfici. Ma tutto è interpretato in maniera anticlassica.
La posizione stessa della coppia sposta il peso verso destra, rompendo l'equilibrio della composizione. Tutto è spigoloso: i volti triangolari, i menti aguzzi, gli occhi a mandorla. Il sorriso, invece dell'impertubabile serenità greca, esprime piuttosto qualcosa di ironico. Anche l'Apollo di Veio mostra rapporti con la scultura ionica, non solo nell'acconciatura dei capelli e nel sorriso, ma anche nella veste pieghettata.
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Ma le somiglianze sono solo esteriori. La veste, a pieghe larghe e pesanti aderisce al corpo, sembra frenare il passo veloce del dio, il quale nel volgersi, compie, con la gamba sinistra uno sforzo muscolare tale che il polpaccio si avvolge come una molla pronta a scattare. La linea ionica, persa la sua eleganza raffinata, diventa mezzo per esprimere violenza. Lo stesso sorriso, per lo spessore delle labbra taglienti, si trasforma in un ghigno beffardo. Una delle opere di più alto valore della scultura bronzea etrusca è la Lupa Capitolina. In essa, l'animale, ferocemente ringhiante, è rappresentato saldamente poggiato sulle quattro zampe, con la testa rivolta verso lo spettatore. Sono poche le somiglianze con una lupa autentica, non soltanto per la forma anatomica, ma perfino per l'assenza quasi totale del manto peloso, che permette di far risaltare la potente struttura ossea, lo smagrimento del ventre, la vena gonfia sul muso, le mammelle. Il pelo, limitato a una striscia che riveste il collo possente, non è morbido, ma bensì squamoso e duro ed esalta perciò l'asprezza che emana da tutta la statua.
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Bruto
Capitolino |
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Un'altra scultura bronzea di grande importanza è la Chimera di Arezzo, il mitico mostro con il corpo di leone, la coda anguiforme e, sporgente dal dorso, una testa di capra ferita. La bestia è rappresentata con il muso minaccioso rivolto in alto, verso l'avversario. Tutti i muscoli sono tesi, le costole sporgono dal torace, le unghie, allungate come artigli, fuoriescono dalle dita. I peli, anche qui limitati a rivestire solo alcune zone del corpo, si drizzano come aculei. Tra la ritrattistica scultorea abbiamo il Bruto Capitolino, che per alcuni è etrusco, per altri romano.,Il ritratto è fortemente tipizzato ed esprime la severità morale del personaggio. Il movimento delle ciocche ineguali dei capelli e della barba non curata, i piani facciali irregolari e chiaroscurati per le forti sporgenze e rientranze e, soprattutto la terribile intensità degli occhi fissi, rendono la complessa psicologia dell'uomo. Accanto al Bruto Capitolino, di cui ci è pervenuto solo il busto, l'unico esempio intero di ritratto bronzeo etrusco è il cosiddetto Arringatore del Trasimeno. Egli non è il giovane armonicamente strutturato dei greci. Le rughe che solcano il volto sulla fronte e alle estremità degli occhi, indicano un uomo di mezza età. Il viso, relativamente piccolo e sostenuto dal collo robusto e lungo, è sobrio, concentrato nel pensiero e nell'esposizione verbale. Il braccio alzato e la mano proporzionalmente più grande del naturale sottolineano l'importanza di un passo del discorso: l'oratore parla a un vasto uditorio che, attraverso il suo gesto, deve intuire i concetti, prima ancora che comprenderli con la ragione.
La pittura etrusca è il completamento dell'architettura delle tombe. La tecnica usata è una specie di affresco, con colori disciolti nell'acqua che vengono assorbiti dallo strato sottile dell'intonaco. La pittura è planimetrica: pochi colori, privi di chiaroscuro, distesi in superficie, staccati dal fondo, con la conseguente prevalenza della linea che li campisce, quasi come se fosse una decorazione vascolare. Quanto ai temi, poiché lo scopo delle figurazioni è quello di circondare il morto con le immagini della vita, prevalgono le scene di costume, con musicanti, danzatori, ginnasti, partite di caccia e di pesca. Non mancano tuttavia le figurazioni mitologiche, derivate dalla pittura vascolare greca o dovute ad artisti greci immigrati. Tra queste i più antichi affreschi sono quelli della Tomba dei Tori a Tarquinia, con l'agguato teso da Achille al giovane troiano Troilo presso la fontana sacra ad Apollo; tra le figure, definite linearisticamente e campite con chiari colori, compaiono fiori stilizzati, ed altri elementi paesistici, quali alberelli e cespugli spinosi. Nella tomba della caccia e della pesca a Tarquinia le figure dei pescatori, rappresentate con grafia semplificata e leggera, assumono un carattere squisitamente decorativo al pari degli uccelli e dei pesci che popolano sparsamente gli ampi spazi celesti e marini. Il fascino di queste ed altre consimili figurazioni consiste in buona parte nella disposizione irrealistica dei colori: secondo una convenzione derivata dalla pittura vascolare le figure sono tinteggiate in rosso se maschili, in bianco se femminili: nè mancano talvolta audaci invenzioni e arbitrii cromatici, come cavalli rossi ed azzurri.
Altre pitture interessanti sono quelle della Tomba
del Barone.
Sulle pareti della piccola camera funeraria sono cavalli e figure umane,
intervallate da arboscelli. I colori (nero, rosso, grigio, verde,
bruno-violaceo) sono stesi su un sottile velo di preparazione. Il rapporto fra i
pieni e i vuoti è perfettamente bilanciato, così come sono calcolati gli
equilibri fra le immagini di un lato e quelle dell'altro, le proporzioni delle
figure fra loro e delle singole parti con tutto il complesso. Il disegno è
sottile, raffinato, adeguato all'eleganza delle figure. Nel IV sec. si stringono
nuovi contatti con la civiltà greca.
Lo confermano le pitture della Tomba dell'Orco a Tarquinia fra le quali emerge la testa di una fanciulla della famiglia Velcha, partecipante a un banchetto funebre. Il fondo verde scuro, dai contorni irregolari, rappresenta forse una nuvola nera, richiamo all'oltretomba. Questo piano di fondo dal colore compatto fa risaltare il profilo puro della giovane e permette di evitare la tradizionale linea di contorno. Manca però il chiaroscuro. Il valore dell'immagine si affida al rapporto fra i due colori fondamentali: quello del fondo e il bianco-rosa del bel volto di profilo, le labbra lievemente dischiuse, il grande occhio aperto a contemplare la scena infernale, i capelli inghirlanditi, il collo ornato da una doppia collana. La visione dell'oltretomba si va facendo drammatica. A contrasto con la fanciulla Velcha sta l'immagine paurosa del demone Charu (Caronte), dal colorito verdastro, il naso adunco, la barbetta irsuta, i capelli anguiformi, le grandi ali, il bastone. L'aldilà non è più il luogo dove prosegue tranquilla la vita, ma bensì il luogo di tormenti per tutti gli uomini.
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L’arte
etrusca nacque dalla vita quotidiana e rimase sempre sostanzialmente vincolata
al soddisfacimento delle esigenze da quella proposte. Essa fu pertanto
strettamente legata, da un lato, alla struttura sociale, dall’altro, alla
sfera delle concezioni religiose e dell’ideologia funeraria. Non a caso, cioè
non soltanto per le fortuite circostanze della loro conservazione e della loro
riscoperta, le testimonianze che essa ha lasciato provengono nella stragrande
maggioranza dalle aree dei santuari e da quelle cimiteriali. Questo significa
che, tranne poche eccezioni, si trattò di un’arte dalle caratteristiche di
tipo artigianale (o di artigianato artistico), con tutto quello che ciò
comporta e pur tenendo presente che la distinzione tra arte e artigianato non
sempre trova valida rispondenza nel mondo antico. In ogni caso, non si può
parlare per l’arte etrusca di un fenomeno autonomo né di finalità estetiche,
e solo raramente ci si trova di fronte a manifestazioni che si potrebbero dire
di “grande arte”, frutto meditato del lavoro di particolari individualità e
opera personale di artisti consapevoli o di scuole ben definite e caratterizzate
come tali.
Si
aggiunga il condizionamento dell’arte greca che fu sempre presente nella
maggior parte dei temi, dei tipi, degli schemi compositivi e dei canoni
stilistici. Al punto che, una volta superata la fase dei primordi ancora legata
alle tradizioni d’origine preistorica o alle suggestioni ornamentalistiche del
periodo orientalizzante, le successive fasi di sviluppo, a partire dal primo
arcaismo e fino alla tarda età ellenistica, cioè dalla fine del VII secolo a
quasi tutto il I secolo a.C., ripeterono praticamente quelle dell’arte greca.
Il condizionamento fu tuttavia di natura prevalentemente formale ed esteriore.
Essenzialmente decorativa, attenta al particolare e generalmente di sapore
incolto e popolaresco; tesa alla spontaneità e all’immediatezza, disorganica
ed espressiva, portata all’enfatizzazione e alla tensione drammatica;
conservatrice ma anche incostante, discontinua e incoerente: proprio per queste
sue naturali tendenze (oltre che per la necessità di selezionare i modelli onde
adattarli ai propri scopi), l’arte etrusca seppe trovare una sua via di fronte
all’insegnamento dei Greci. Sicché il confronto, più che soffermarsi sulla
qualità, riguarda la diversità degli atteggiamenti e delle realizzazioni, cioè
il modo di reagire degli artisti etruschi alle sollecitazioni e ai modelli che
giungevano dal mondo greco. A seconda delle necessità e delle epoche, e quindi
in relazione alle caratteristiche delle varie fasi dell’arte greca. Così, dei
modelli via via disponibili, gli Etruschi alcuni li ignorarono altri li
assunsero facendoli propri e talvolta rielaborandoli, magari insistendo su
motivi che nella stessa Grecia ebbero scarso rilievo o furono presto superati.
Quanto ai canoni stilistici, ci furono momenti di consonanza e di
partecipazione, come nel periodo arcaico (e specialmente nei confronti
dell’arte ionica) del VI secolo a.C.: momenti di ripulsa e di rigetto o, più
semplicemente, d’incomprensione, come nel periodo classico, tra il V e il IV
secolo a.C.; momenti di sudditanza e di pedissequa imitazione, come nel periodo
ellenistico, dal III al I secolo a.C.
Non mancarono tuttavia atteggiamenti estranei, se non antitetici, alle concezioni figurative greche, soprattutto quando queste non erano congeniali alle tendenze espressive etrusche e quindi non sentite e incomprese. E furono proprio quelle tendenze, insieme alle finalità pratiche del quotidiano, che indussero gli Etruschi a trascurare, o a relegare in secondo piano, certe forme d’espressione artistica, come l’architettura e la statuaria, e a privilegiarne altre, come la coroplastica, ossia l’arte della creta, la bronzistica, a quella connessa, e le cosiddette arti minori, come la piccola plastica, la ceramica, l’oreficeria, la toreutica. Con risultati spesso di notevole perfezione tecnica e non dirado d’elevato valore formale.
E' proprio nelle arti "minori", nella vastissima produzione di suppellettili, piccoli bronzi fusi e piccole terracotte con funzioni ornamentali, gemme incise e avori intagliati, che si espresse al meglio l'originalità e la creatività degli artisti etruschi. Particolare attenzione meritano gli specchi, trovati a centinaia nelle necropoli. Il modello più comune era quello tondo con il manico. Il retro della suprficie di bronzo era inciso, solitamente con soggetti mitologici provenienti dall'arte greca, oppure coperto di iscrizioni. Ricchissima e meritatamente famosa anche la produzione di monili ed oggetti in oro, nella quale gli etruschi dimostrarono un elevato grado di elaborazione tecnica, capace di sfruttare le possibilità espressive del metallo. Il periodo di massima fioritura fu tra la metà del VII e la fine del VI secolo a.C., a Vetulonia e Vulci. Nella tomba Regolini- Galassi, scoperta a Cere nel 1832, gli archeologi si trovarono davanti ad un gran numero di gioielli; grandi bracciali lavorati, fibule incise, un pettorale in oro sbalzato di 42 cm. conservato ai musei Vaticani.
Specchio
riproducente la cerimonia del chiodo |
Anche nell'orificeria trionfò il gusto per il sovraccarico e gli effetti enfatici, sia con l'incontro di motivi ornamentali vegetali, figurati e geometrici, sia con l'impiego delle diverse tecniche di lavorazione, spesso combinate insieme. Tali
tecniche comprendevano l'incisione, lo sbalzo, la fusione la filigrana
e, soprattutto, la granulazione, consistente nell'applicare sulla
superficie del metallo piccoli granelli d'oro saldati tra loro,
moltiplicando così l'effetto dell'incidenza della luce. |
Gioielli
(V-VI sec) |
Collare
con teste di Sileno, VI-V sec. |
Ben altra ricchezza di testimonianze dirette ci si offre per l'architettura e per le arti figurative: si tratta infatti degli stessi monumenti superstiti e dei resti materiali recuperati attraverso le scoperte archeologiche. Nonostante la distruzione di tante opere e manufatti antichi, questi documenti sono tali da offrirci una visione sufficientemente ampia dell'attività artistica degli antichi Etruschi nelle sue tendenze e nei suoi sviluppi.
L'edilizia monumentale non può naturalmente valutarsi sul metro di quella dei Greci o dei Romani. L'impiego esclusivo di strutture murarie a blocchi di pietra s'incontra soltanto nelle opere militari e nelle tombe: per il resto, e cioè per gli edifici sacri e civili, esso appare limitato alle fondazioni, mentre per le parti elevate si adoperavano materiali più leggeri, quali il legno, il pietrame, i mattoni crudi, la terracotta. Ciò significa che di questi edifici non possediamo più che le piante e qualche elemento di decorazione; ma nonostante tutto è possibile raffigurarcene l'aspetto originario, sulla base dei modelli offerti dai sepolcri rupestri e dalle urne che ne imitano le forme o da piccole riproduzioni di destinazione votiva. Le strutture murarie offrono, a seconda dei tempi, dei luoghi e della qualità dei monumenti, una notevole diversità di materiale e di tecnica. Le pietre di più largo impiego sono i calcari, il travertino, le arenarie, il tufo, tutte di estrazione locale: l'assenza del marmo che ha tanta importanza nell'architettura greca, si deve al fatto che lo sfruttamento delle cave di Carrara non avrà inizio se non con l'età romana. Il genere delle murature varia dalla tecnica dei grandi blocchi semilavorati ed irregolari, quale si mostra, ad esempio, nella cinta di Vetulonia, a quella dei fini paramenti con piccoli blocchi squadrati che si riscontra nelle mura urbane delle Città dell'Etruria meridionale ed in altre costruzioni, specialmente funerarie. Ma non c'è in generale un'evoluzione delle strutture più rozze e primitive alle più raffinate: la muratura quadrata regolare si conosce e si impiega sin dalle fasi iniziali della civiltà etrusca; e le differenze paiono dovute piuttosto a particolari condizioni di materiale, di capacità delle maestranze, di fretta nella costruzione, ecc. Contrariamente a certe opinioni già diffuse tra gli archeologi, la tecnica poligonale vera e propria deve considerarsi estranea agli usi costruttivi degli Etruschi e tardivamente introdotta, dai primi coloni militari romani, nelle piazzeforti di Pyrgi, di Cosa, di Saturnia.
L 'uso, almeno parziale, dei mattoni crudi non soltanto nell'edilizia domestica ma anche nell'architettura militare sembra attestato a Roselle sin dalla fine del VII secolo; ciò rientra nel quadro di una tradizione struttiva che si va sempre più rivelando diffusa nel mondo mediterraneo sotto l'influenza greca; ed è probabile che a questa tecnica si riferiscano anche le notizie sulla cinta di mattoni della città di Arezzo.
Notevole diffusione ha in Etruria il sistema delle coperture a falsa volta ed a falsa cupola con filari di blocchi sovrapposti in aggetto, di universale diffusione mediterranea; al quale si sovrappone, nelle fasi più recenti, la tecnica della volta reale a spinte, che appare in porte di città (Volterra, Perugia) ed in monumenti sepolcrali, preludendo alle strutture dominanti dell'architettura romana. In questa predilezione per la copertura a volta l'architettura etrusca continua, perfeziona e trasferisce in sede monumentale motivi di antica origine orientale che l'architettura greca classica tende invece generalmente a respingere come elementi estranei alla sua rigorosa concezione rettilinea, basata sulla struttura ad architravi. Fra i monumenti più notevoli dell'architettura militare ricordiamo le cinte di Tarquinia (e tratti superstiti di quelle, simili, di Veio, Caere, Vulci, ecc.), Volsinii, Roselle, Vetulonia, Volterra, Chiusi, Cortona, Perugia, Fiesole, Arezzo. Queste opere si datano generalmente tra il VI ed il III secolo, con ampliamenti e rifacimenti posteriori, dato che in generale rimasero efficienti durante i tempi romani e in qualche caso anche più tardi. Nonostante la diversità delle strutture, hanno in comune il carattere di muraglie continue, originariamente non intrammezzate da torri: avancorpi e rientranze si osservano soltanto in corrispondenza delle porte.
Queste erano forse da principio architravate; ma nei grandiosi esempi superstiti della Porta dell' Arco di Volterra e della Porta Marzia e della Porta "di Augusto" di Perugia appaiono coperte a volta e presentano in facciata elementi di decorazione architettonica o figurata a rilievo. L'aspetto antico di cinte urbane merlate e con porte ad arco ci è testimoniato anche da figurazioni di urne e sarcofagi. L'architettura funeraria si presenta con manifestazioni piuttosto eterogenee, per il fatto che essa rappresenta l'occasionale complemento o sviluppo costruttivo di tipi di sepolcri di origine od ispirazione diversa. La maggior parte delle tombe, anche a carattere monumentale, risulta infatti lavorata direttamente nella roccia sia che si tratti di vani scavati (che vanno dalle più modeste forme dei pozzetti e delle fosse primitive sino ai grandiosi e complessi ipogei con molti ambienti dell'età più matura), sia che si tratti di adattamenti esterni aventi l'aspetto di tumuli rotondi o corpi quadrangolari con terra sovrapposta o di facciate scolpite nella fronte di declivi rupestri. Tali opere, pur non avendo un carattere architettonico, si ricollegano strettamente all'architettura in quanto imitano spesso fedelmente le forme di edifici reali nel loro aspetto esteriore ed interiore, negli elementi decorativi e talvolta persino nelle rifiniture d'arredo e nelle suppellettili.
Frequente è però anche la presenza di opere murarie, talvolta aggiunte ad integrazione delle pareti e delle coperture di roccia, altre volte costituenti per intero il monumento. Le camere sepolcrali costruite della fase più antica presentano coperture a falsa volta ed eccezionalmente a falsa cupola (come nella tomba di Casal Marittimo nel territorio di Volterra, o in quella recentemente scavata presso Quinto Fiorentino). In età più recente si hanno tombe con volta a botte di bella struttura (per es. la tomba del Granduca a Chiusi e l'Ipogeo di San Mannopresso Perugia). Il tipo monumentale del tumulo rotondo (con tamburo generalmente ricavato nella roccia come a Cerveteri e costruito come a Populonia) diviene a partire dal V secolo assai meno frequente, ma evolve, forse anche in contatto con l'architettura funeraria ellenistica, verso lo schema dei grandi mausolei circolari romani di età imperiale quali l'Augusteo e il Mausoleo di Adriano (per es. la così detta "Tanella di Pitagora" di Cortona). Non mancano sepolcri quadrangolari informa di tempietti, per esempio a Populonia. E va ricordato infine anche il tipo di tomba con basamento a zoccolo sormontato da grandi cippi troncoconici o da obelischi, noto soprattutto attraverso le figurazioni dei rilievi delle urne sepolcrali, ma attestato direttamente fuori d'Etruria, nel così detto sepolcro degli Orazi e Curiazi presso Albano Laziale. Un grandioso monumento di questo tipo con più obelischi adorni di campane è ricordato dalle fonti antiche come esistente a Chiusi, e identificato con la tomba del re Porsenna. I cippi funerari imitano in piccolo queste forme.
L'architettura domestica e quella religiosa hanno origini e caratteristiche comuni. Delle forme assunte dalla casa si tratterà più avanti parlando della vita etrusca. Il tempio che da principio si identifica, come nel mondo paleo-ellenico, con la casa rettangolare con tetto a spioventi e senza portico (documentata da modellini votivi e dai resti di un edificio scoperto sull'acropoli di Veio) assume poi forme più complesse parzialmente parallele a quelle del tempio greco. Il tipo che Vitruvio (de archit. IV, 7) attribuisce agli Etruschi è caratterizzato da una pianta di larghezza poco inferiore alla lunghezza, con la metà anteriore occupata dal portico colonnato e la metà posteriore costituita da tre celle, per tre diverse divinità, o da una sola cella fiancheggiata da due alae o ambulacri aperti. Resti di monumenti scavati a Veio, a Pyrgi, ad Orvieto, a Fiesole, a Marzabotto dimostrano che questo schema ebbe effettivamente una vasta e durevole diffusione in Etruria dall'età arcaica sino a quella ellenistica: esso appare anche a Roma nel tempio di Giove Capitolino, la cui prima edificazione risale ai tempi della dinastia etrusca dei Tarquini.
Ma senza dubbio si costruivano anche edifici sacri più vicini, nel loro schema, al tempio greco, e cioè con pianta rettangolare allungata e colonne in facciata (prostilo) o addirittura con colonnato continuo su tutti i quattro lati (periptero): esempi cospicui ne sono il tempio più antico di Pyrgi e quello dell'Ara della Regina a Tarquinia. L' originalità dei templi etruschi non consiste comunque tanto nella loro concezione planimetrica quanto piuttosto nel materiale, nelle proporzioni e nelle forme dell'alzato, nel genere della decorazione.
Si è già detto che, all'infuori delle fondazioni, essi dovevano essere costruiti di materiali leggeri, con impiego del legno per le ossature portanti e per la travatura. Ciò comporta uno sviluppo relativamente limitato in altezza (quale appunto risulta dalle misure del tempio "tuscanico" secondo Vitruvio), larghi intercolumni, tetto ampio con notevole sporgenza laterale delle gronde. La travatura lignea esige una protezione con elementi compatti ma leggeri: donde l'uso universale di rivestimenti di terracotta policroma, che si sviluppano in vivaci sistemi decorativi geometrici e figurati con placche di copertura longitudinale o terminale delle travi, cornici, ornati della estremità dei coppi (antefisse) e delle sovrastrutture del tetto (acroteri). Il frontone era in origine aperto, lasciando visibili in facciata le strutture della gabbia del tetto; solo più tardi si adottò il tipo del frontone chiuso, decorato con una composizione figurata come nei templi greci. Queste varie caratteristiche del tempio etrusco trovano indubbi riscontri nella primitiva architettura greca e, come si è detto, parziali paralleli nel tempio greco arcaico e classico.
La differenza sta nel fatto che il tempio greco sin dal VII secolo a;C. tende a trasformarsi in un edificio monumentale pressoche interamente costruito di pietra, con una sua propria ed inconfondibile evoluzione delle forme architettoniche; mentre il tempio etrusco resta sostanzialmente fedele alle tradizioni dell'architettura lignea sino alla piena età ellenistica, accentuando, se mai, l'esuberanza decorativa dei rivestimenti di terracotta. I quali offrono, specialmente nel VI e V secolo, varietà di concezioni e sviluppi: per esempio nel tipo delle lastre di copertura longitudiriale dei travi che possono formare fregi figurati continui a rilievo di ispirazione greco-orientale (così detta “prima fase” o “fase ionica”) o possono invece presentare una semplice ornamentazione dipinta con forte sviluppo della sovrastante cornice in aggetto, come nei sistemi decorativi fittili della Grecia propria e delle colonie dell'Italia Meridionale e della Sicilia ("seconda fase" o "fase arcaica"). Quest'ultimo tipo si afferma a partire dalla fine del VI secolo, in coincidenza con il momento di maggiore splendore dello sviluppo dei templi etruschi, caratterizzato anche dalle antefisse a conchiglia, dalle decorazioni frontonali a rilievo distribuite sulle placche di rivestimento delle testate dei travi lunghi, dai grandi acroteri figurati: esempi caratteristici il tempio di Veio e i templi di Pyrgi. Lo schema decorativo così formato sarà poi seguito con poche modificazioni nei secoli successivi.
La sola novità rilevante è l'introduzione del frontone chiuso decorato con una composizione figurata unica alla maniera greca, di terracotta e in altorilievo; esso appare già forse nel V secolo, ma ci è noto soprattutto a partire dal IV secolo a Tarquinia, a Talamone, a Luni ("terza fase" o "fase ellenistica"). Parlando delle forme e dei rivestimenti del tempio etrusco, non si può trascurare il fatto fondamentale che i medesimi caratteri e sviluppi si riscontrano nei templi del territorio falisco e laziale e, sia pure con qualche differenza, in Campania: può parlarsi di una comune civiltà architettonica dell'Italia tirrenica a settentrione dell'area direttamente toccata dalla colonizzazione greca. L'affermarsi del tipo del tempio di pietra, in sostituzione delle tradizionali strutture lignee (sotto l'influsso greco, ma pur sempre con forme peculiari), avrà luogo progressivamente, sotto l'influsso dei modelli greci, nel corso del IV secolo e dell'età ellenistica.
Il predominio di elementi di ispirazione arcaica anche in opere di età molto recente si osserva del resto in tutti i motivi della decorazione architettonica etrusca, quali appaiono nelle costruzioni di pietra ed in quelle di legno e terracotta, e nelle loro innumerevoli riproduzioni ed imitazioni dell'arte funeraria e votiva. Vitruvio parla di un "ordine tuscanico" distinto dagli ordini dorici, ionici e corinzio dell'architettura greca. Esso era caratterizzato da un tipo di colonna che si vede effettivamente impiegato nei monumenti romani e rappresenta una variante della colonna dorica, con la stessa forma di capitello ma con il fusto liscio e con un basamento. La sua origine etrusca è provata da testimonianze che risalgono all'età arcaica: di questa forma era, verisimilmente, la maggior parte delle colonne lignee dei templi e degli edifici civili. Si tratta in realtà di una sopravvivenza ed elaborazione del tipo detto "protodorico" (fornito di plinto sagomato, con fusto senza scanalature e sensibilmente rigonfio, con capitello a cuscino bombato), che nel mondo greco primitivo era stato prestissimo sostituito dalla colonna dorica vera e propria. Ma accanto a questo tipo vediamo diffuso in Etruria anche un genere di colonne e di pilastri con capitello a volute floreali, semplici e composite, che trova la sua ispirazione nei capitelli orientali siro-ciprioti e nei capitelli così detti "eolici" della Grecia orientale: genere, anch'esso, precocemente scomparso nel mondo greco, con l'affermarsi del capitello ionico.
Modanature di impronta arcaica, con dadi, cordoni, “campane”, “gole”, appaiono dominanti nella sagoma di basamenti e coronamenti di edifici, altari, cippi, ecc. ; mentre la incorniciatura di porte e di finestre sottolinea gli stipiti sui lati del vano rastremato verso l'alto e il sovrapposto architrave sporgente che, in epoca più evoluta, si piega alle estremità nelle caratteristiche “orecchiette”. L'ornamentazione non figurata delle cornici, dei coronamenti e degli altri elementi delle sovrastrutture degli edifici appare domi!lata da motivi a foglie stilizzate, trecce, palmette e fiori di loto, spirali, meandri, ecc., di prevalente ispirazione ionica. Il sistema del fregio dorico con metope alternate a triglifi sembra diffondersi soltanto dopo il IV secolo; ma spesso, in luogo dei triglifi, s'incontrano veri e propri pilastrini.
Considerate le diverse categorie di monumenti artistici, resta da affrontare il problema più grosso, il «problema» per eccellenza: quello del loro significato estetico e storico. Gran parte delle opere che possediamo non ha, ovviamente, il carattere di creazione originale: rientra nel solco di tradizioni artigianali e riflette soltanto alla lontana le grandi linee di sviluppo della storia dell'arte. Ma esistono alcuni monumenti e gruppi di monumenti, nei quali si può ritenere presente l'impronta di una certa personalità artistica, più o meno spiccata. Si tratta di stabilire fino a che punto questa possibilità risponda a realtà, e cioè se veramente ci si trovi, in questi casi, di fronte a piccole o grandi creazioni; o invece si abbia pur sempre a fare con semplici imitazioni di modelli; ed in quale ambiente debbano eventualmente ricercarsi questi modelli.
Il fatto più evidente è che la stragrande maggioranza dei temi, dei tipi, degli schemi compositivi della produzione artistica etrusca trova i suoi precedenti e la sua ispirazione nel mondo greco; e che tale dipendenza si estende normalmente anche alle forme stilistiche; cosicche lo sviluppo dell'arte in Etruria, dal primo arcaismo sino alla tarda età ellenistica, ripete sostanzialmente le fasi di sviluppo dell'arte greca. Però si notano anche differenze: nel senso che l'Etruria ignora certi motivi della produzione ellenica ed elabora invece diffusamente altri che in Grecia hanno scarso rilievo o appartengono a fasi stilistiche già superate; ne mancano indizi di atteggiamenti estranei, se non addirittura antitetici, alle concezioni figurative greche.
C'è da chiedersi se e fino a che punto gli
artisti etruschi abbiano inteso reagire e di fatto abbiano reagito, con
soluzioni originali, alle dominanti formule greche. C'è da chiedersi poi se,
realizzando una loro propria visione artistica, essi abbiano creato le premesse
al formarsi di tradizioni locali distinte dall'arte greca; e su quale ampiezza e
per quale durata queste tradizioni abbiano avuto la possibilità di imporsi. In
altre parole, posta l'esistenza di spunti autonomi nella produzione-etrusca, ci
domandiamo se tali spunti siano fatti effimeri e slegati o se esista tra loro
una connessione; e se un'ipotetica «costante»
nelle tendenze del gusto in Etruria attraverso i secoli debba attribuirsi a
continuità storica o piuttosto ubbidisca ad una profonda predisposizione del
popolo etrusco verso orientamenti espres- sivi differenti da quelli del popolo
greco. Questi diversi interrogativi si riassumono, tutto sommato, in uno solo:
fino a che punto ed in che senso possiamo parlare della esistenza di un' , 'arte
etrusca"?.
La posizione della critica nel secolo XIX fu, in proposito, negativa. La produzione etrusca era da considerare come un fenomeno provinciale dell'arte greca, con opere rozze e senza valore; mentre ogni trovamento di un qualche pregio artistico fatto in Etruria si attribuiva senz'altro a mano greca. Ma i nuovi orientamenti della critica e della storia dell'arte, affermatisi col principio del nostro secolo specie a seguito degli studi di A. Riegl, riconoscendo piena validità di espressione ad esperienze artistiche diverse da quella classica, aprirono la strada ad una comprensione di fenomeni stilistici del mondo antico per l'innanzi sottovalutati, quale appunto l'etrusco. Dall'analisi di singole opere d'arte di recente scoperta (come l'Apollo di Veio, come il "Bruto Capitolino") si arrivò, più o meno cautamente, ad affermare l'originalità e l'autonomia dell'arte etrusca rispetto alla greca, per una sua diversa ed inconfondibile visione della forma. che trasoarirebbe evidente anche nell'imitazione degli schemi e dei tipi ellenici. Si parlò, in vero, addirittura di una peculiare disposizione dei popoli italici (non soltanto, quindi, degli Etruschi, ma più tardi anche dei Romani) a concepire la realtà secondo una immagine «illusionistica», «inorganica», immediata e fortemente individualizzata, di contro alla visione «naturalistica», «organica», «tipica» dell'arte greca. A questi punti di vista non sono mancate obiezioni critiche di un certo peso. Più di recente si è tornati anzi ad affermare che non esistono in Etruria vere opere d'arte se non sotto la diretta influenza delle forme greche; e che la «originalità» etrusco-italica si riduce a manifestazioni effimere di colorita abilità artigiana e popolaresca, incapaci di dar vita ad una tradizione (R. Bianchi Bandinelli).
Il problema, dunque, resta ancora sostanzialmente aperto. Ma forse esso fu male impostato così dai negatori come dai sostenitori della originalità dell'arte etrusca. Si considerò infatti generalmente questo fenomeno in blocco, senza tener conto che esso abbraccia manifestazioni quanto mai varie, per la durata di almeno sette secoli, e che le trasformazioni avvenute nel corso di un così lungo periodo non riguardano soltanto l'Etruria e la Grecia, ma hanno una portata decisiva per tutto lo sviluppo dell'arte antica. È evidente che le prospettive mutano a seconda dei tempi; e parrebbe quindi logico esaminare il problema dell'«arte etrusca» riportandoci alla situazione di ciascun periodo, piuttosto che cercarne astrattamente una soluzione complessiva.
Risulterà così che alle origini, più o meno tra il IX e il VII secolo, l'attività artistica dei centri etruschi si svolge parallela a quella di altri paesi mediterranei, compresa la Grecia, in un fluido e complicato accavallarsi di motivi di tradizione preistorica (specialmente evidenti nel vivace realismo della piccola plastica) e di influenze orientali che caratterizzano quella fase del gusto decorativo che chiamiamo appunto orientalizzante. È chiaro che per questi periodi non è ancora il caso di parlare di subordinazione all'arte greca. Diremo piuttosto che l'Etruria partecipa, nella sua posizione periferica verso occidente, alla estrema elaborazione di un'antica esperienza artistica mediterranea, pa!allelamente alla Grecia. Ma fatta eccezione per qualche spunto di originalità nella plastica funeraria (per esempio nelle espressive teste dei canopi di Chiusi), non vi è nessun accenno al formarsi di una valida tradizione artistica locale, o nazionale. Qui appunto sta la differenza decisiva, gravida di sviluppi futuri, rispetto alla Grecia che, precisamente in questa età cruciale, andava superando con vigoroso impeto creativo le formule del vecchio mondo ed aprendo una nuova pagina nella storia dell'arte universale.
Non sorretta da una propria tradizione, fatalmente l'Etruria era destinata a cadere nell' orbita della esperienza artistica greca, la cui capacità di attrazione, oltreche nel fascino innovatore e nella intrinseca superiorità di valori estetici, consisteva anche nella sua amplissima diffusione territoriale dalla madrepatria alle colonie d'Italia e di Sicilia. Ciò avvenne effettivamente almeno dagli inizi del VI secolo; e dobbiamo ritenere che le influenze dell'arcaismo greco sull'Etruria nel campo artistico non consistessero soltanto nella importazione di oggetti e di modelli, ma anche nella diretta attività di artefici greci nelle città etrusche. Eppure proprio in questo periodo, nel VI e nei primi decenni del V secolo, la produzione d'arte in Etruria si manifesta con un rigoglio meraviglioso e, per certi aspetti, insuperato, nell'architettura templare, nella plastica, nella bronzistica, nella pittura, negli oggetti «minori» decorati: con opere numerosissime, di tecnica raffinata e di alto livello stilistico, non prive di un certo «carattere» peculiare che le rende sovente riconoscibili come prodotti etruschi o di ambiente etrusco. Il dilemma originario (dipendenza o autonomia ?) si propone qui ora con aspetti tanto più delicati, quanto più i fatti sembrano condurre verso un giudizio apparentemente contraddittorio, che giustifica le incertezze dei critici moderni: nel senso che queste opere pur essendo «etrusche» non cessano per ciò stesso di esser «greche». Affermazione che potrebbe sembrare paradossale; ma non lo è, purche ci si sforzi di sbarazzarci dello schema mentale di «arte nazionale», che nel caso particolare non è applicabile.
Dobbiamo in verità tener presente che l'arte greca arcaica non rappresenta un fenomeno rigidamente unitario e stilisticamente conseguente; bensì piuttosto il risultato della elaborazione locale di centri quanto mai vari, numerosi e dispersi nello spazio, con correnti vivaci, multiformi, mutevoli che si diffondono, si trasmettono, s'intersecano. In questo quadro, essenzialmente regionalistico, trovano posto anche territori parzialmente ellenizzati o non greci ma sotto l'influenza della civiltà greca: quali, ad esempio, in oriente Cipro, la Licia, la Caria, la Lidia, la Frigia, a settentrione la Macedonia e la Tracia, in occidente l'Etruria. Questi paesi non sono soltanto «province» recettive che subiscono passivamente l'impronta delle creazioni del genio greco; ma partecipano essi stessi, come «regioni» di una vasta comunità civile, alla elaborazione dell'arte arcaica, secondo le circostanze, le particolari esigenze, le capacità: e pertanto con proprie caratteristiche nell'ambito della più vasta unità periellenica. Nel caso dell'Etruria le peculiarità «regionali» della produzione d'arte arcaica potrebbero indicarsi nei seguenti motivi principali:
1) esigenze religiose e funerarie che predispongono l'attività figurativa ad una rappresentazione concreta, immediata, veristica della realtà;
2) sensibili persistenze di schemi, tecniche e tradizioni formali della precedente fase «mediterranea» ed orientalizzante;
3) relazioni dirette e fortissime con le esperienze artistiche del mondo greco-orientale, e cioè dei centri eolici e ionici delle coste e delle isole dell' Asia Minore occidentale: tali da determinare per molti decenni (fra la metà del VI e il principio del V secolo) quella impronta, sostanzialmente unitaria, della cultura figurativa in Etruria che suoI definirsi appunto come arte ionico-etrusca;
4) manifestarsi, nell'ambito dell'attività artistica locale, di rilevanti personalità, di artisti greci e locali e di scuole di alto livello (bronzisti di Vulci e di Perugia, pittori come il maestro della Tomba del Barone a Tarquinia, modellatori in terracotta di Veio come l'artefice dell'«Apollo» e i suoi seguaci, ecc.), cui difficilmente potremmo negare una autentica, origi- nale ed a volte vigorosissima genialità creativa.
La prospettiva storica muta completamente nella prima metà del V secolo. La Grecia passa dall'arte arcaica all'arte classica con un processo di fondamentale importanza per la storia della civiltà umana. Ma l'attività dei grandi maestri greci tende a farsi stilisticamente più serrata, acquista un carattere più «nazionale», si concentra specialmente attorno ad Atene e alle città del Peloponneso. Anche per motivi d'ordine politico-economico le regioni periferiche declinano. L'Etruria resta isolata. Lo spirito della classicità, in quanto realtà di un momento creativo irripetibile ed inimitabile, non trova rispondenza del mondo etrusco, dove, tra l'altro, le felici condizioni storiche che avevano favorito la fioritura artistica dell'arcaismo sono venute a cessare, con l'inizio di un lungo periodo di depressione e di decadenza. Vediamo così per tutta la durata del Ve fino all'inoltrato IV secolo perdurare motivi e formule di tradizione arcaica o ispirate all'arte greca di "stile severo", cioè della fase di passaggio dall'arcaismo alle forme classiche. Il fenomeno dell'attardamento proprio dei paesi marginali (come, ad esempio, nella contemporanea arte «subarcaica» di Cipro) si manifesta con una certa evidenza. La penetrazione delle influenze classiche è parziale e stentata. In questo ambiente privo di una tradizione unitaria ed accreditata, come già nella fase delle origini, la vitalità artistica si palesa soltanto in qualche effimero spunto di originalità espressiva; mentre nel campo della tecnica artigiana continua, particolarmente attiva, la produzione dei bronzisti.
Una intensa ripresa di contatti artistici fra Grecia ed Etruria ha luogo a partire dal IV secolo e si continua per tutta l'età ellenistica, confondendosi alla fine con il fenomeno, altrimenti ben noto, del trionfo dell'ellenismo nell'Italia romana della fine della repubblica e del principio dell'impero. Ma l'atteggiamento dei figuratori etruschi rispetto all'arte greca non sembra più quello dei tempi arcaici. Non si può più parlare della elaborazione, in qualche modo originale di un patrimonio comune: si tratta piuttosto della imitazione, più o meno fedele e riuscita, di modelli «stranieri». Non si accolgono soltanto forme e singoli motivi tipologici, ma si riproducono intere composizioni, specialmente da prototipi della grande pittura, ad ornamento di edifici e di oggetti. Per quest'ultima fase di produzione potrebbe giustificarsi il concetto dell'Etruria come «provincia» del mondo greco (ciò che equivale alla negazione di una sua originalità artistica).
Occorre però tener conto di un altro aspetto, completamente diverso e di gran lunga più importante, dell'attività figurativa etrusca di età ellenistica. In singoli monumenti o in gruppi di opere, specialmente dell'arte funeraria, vediamo aparire motivi e soluzioni stilistiche decisamente contrastanti con il gusto classico: strutture compatte e geometrizzanti, forme «.incompiute», sproporzioni, esasperazioni di particolari espressivi, ecc. Ci si può chiedere se e fino a che punto queste manifestazioni siano da spiegare come sopravvivenze artigianali di remote formule arcaiche, favorite dall'immobilismo rituale del mondo religioso etrusco, o come improvvisazioni popolaresche senza conseguenze, o addirittura come casuali effetti di una tecnica manuale scadente. Ma si può anche pensare a riflessi seppure indiretti dell'attività di artisti che, accogliendo antichissime assuefazioni locali e reagendo ai modelli greci secondo il proprio temperamento, abbiano tentato nuove forme di espressione. Questa ipotesi diventa certezza nel campo della ritrattistica, che ci si rivela con au- tentiche ed originali opere d'arte (grandi bronzi, pitture, ecc.) e con innumerevoli prodotti secondari (coperchi di sarcofagi, terrecotte), i quali mostrano a loro volta il formarsi di una salda tradizione locale attorno all'attività dei maestri maggiori.
In contrasto con il ritratto greco, al quale pure originariamente si ispira (nel IV secolo) e talvolta si richiama (nel corso dell'età ellenistica), il ritratto etrusco tende a realizzare il massimo della concretezza espressiva per ciò che concerne le fattezze e, in un certo senso, anche il «carattere» individuale, prescindendo dalla coerenza organica delle forme naturali, ma accentuando gli elementi essenziali attraverso l'impiego semplice, rude, discontinuo e a volte violento delle linee o delle masse.
Con questo possiamo dire che è nato un nuovo stile, una nuova tradizione artistica, effettivamente definita ed autonoma rispetto al mondo greco: una tradizione che è «etrusca», ma anche, più genericamente «italica», perchè il suo sviluppo si continua, di là dal tramonto dell'Etruria come nazione, nell'arte dell'ltalia romana e del mondo occidentale sotto l'impero. Tale visione «espressionistica» della realtà, specialmente nel ritratto, ma anche in altri temi d'arte, perdurerà vitale nelle correnti di produzione popolare dei primi secoli dell'impero, si diffonderà nell'arte provinciale europea, riaffiorerà impetuosamente nella grande arte romana aulica della fine del II e del III secolo d.C., costituirà una delle componenti più significative della civiltà artistica della tarda antichità e del medioevo.
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