La Lingua
L'etrusco è una lingua costruita in un alfabeto di origine greca e affine all'alfabeto latino. Le incognite che ancora oggi la lingua etrusca presenta sono da attribuire alla sua estraneità rispetto ai gruppi linguistici noti. A detta degli antichi, tra cui lo storico Dionigi di Alicarnasso, la lingua parlata dagli Etruschi era diversa da tutte le lingue conosciute. Dopo la conquista romana, essa fu a poco a poco sostituita dal latino, fino ad uscire completamente dall'uso.
Il materiale: entità e caratteristiche delle testimonianze superstiti
Contrariamente a quanto molti ancora suppongono, i documenti della lingua etrusca sono tutt’altro che ‘indecifrati’ o ‘indecifrabili’: scritti con un alfabeto di derivazione greca, di tipo euboico (‘rosso’, cioè occidentale, secondo la divisione stabilita da A. Kirchhoff delle scritture dei Greci), fin dal secolo scorso si leggono senza nessuna particolare difficoltà; ma anche in precedenza, salvo qualche dubbio relativo a singoli segni, l’epigrafia aveva rappresentato il capitolo forse più solido nell’intero panorama dell’etruscologia.
Sappiamo dunque che già nel tardo VIII secolo a.C. gli Etruschi erano certamente in possesso d’un alfabeto, introdotto in Italia centrale da coloni euboici dell’isola d’Ischia e comprendente ventisei lettere, come si desume da una tavoletta d’avorio, dalla finalità evidentemente scolastica, ritrovata a Marsiliana d’Albegna (Grosseto). Ma quattro lettere non sono effettivamente impiegate (la b, la d, la s sonora e la o, che si confondeva col suono u), mentre per il suono f dal VI secolo a.C. è introdotto un segno apposito. La scrittura procede normalmente da destra verso sinistra; assai più raramente, da sinistra a destra ovvero con andamento bustrofèdico, cioè alternato riga per riga. In epigrafi meno antiche si possono incontrare puntini di separazione tra le parole. In realtà il problema è un altro ed è un problema d’interpretazione linguistica, non di decifrazione epigrafica: quello d’intendere il significato dei testi, redatti in una lingua che non sembra imparentata con nessun altra delle antiche o moderne proposte alla comparazione, e di elaborare, possibilmente, una descrizione grammaticale, morfologica e sintattica, di questa lingua, che è poi la condizione stessa della sua conoscenza effettiva. E, da tale punto di vista, bisogna ammettere che, nonostante lo sforzo grandioso di molte generazioni di studiosi, i risultati sicuri permangono pochi e settoriali; e ciò non per insufficienza d’impegno o per inadeguatezza dei metodi adottati, ma per la qualità medesima dei documenti disponibili. Infatti le iscrizioni etrusche, anche se numerose (circa 10.000), vengono in grandissima parte da necropoli; sono perciò di carattere funerario e generalmente molto brevi. Esse ci danno perciò soprattutto, se non soltanto, nomi di persona e indicazioni anagrafiche elementari, pur essendo in gran parte abbastanza facilmente (ma talvolta approssimativamente) traducibili.
I pochissimi testi etruschi più complessi - un rituale scritto su un rotolo di tela poi utilizzato per avvolgere una mummia, ora al Museo di Zagabria; una tegola iscritta, proveniente da Capua, a Berlino; il Cippo di Perugia - suscitano invece gravi difficoltà nell’interpretazione, anche perché non si conoscono per il momento ampi documenti bilingui a carattere di traduzione letterale (del tipo della Stele di Rosetta). Ciononostante la pazienza degli indagatori conduce pian piano a singole acquisizioni che, pur nei limiti quasi invalicabili imposti dalla quantità e dalla qualità dei documenti (ai testi epigrafici bisogna aggiungere le parole etrusche riportate dagli scrittori antichi), possono organizzarsi in un disegno generale abbastanza ben definito. Dopo l’esperienza dei metodi ‘etimologico’ (che presupponeva la parentela dell’etrusco con altre lingue conosciute) e ‘combinatorio’ (rivolto ad analizzare solo per via interna la ‘combinazione’ degli elementi costitutivi del testo), in anni recenti hanno trovato sviluppo due nuovi modi d’accostare il problema linguistico: il cosiddetto ‘bilinguismo’, promosso specialmente da Massimo Pallottino, che integra l’analisi combinatoria con l’uso di fonti interpretative esterne (per esempio, il confronto con formule di dedica latine e greche); e lo ‘strutturalismo’ di Helmut Rix, che reputa sufficiente una descrizione della ‘struttura’ dei testi a chiarirne anche il significato. Della grammatica dell’etrusco non è qui il caso di parlare diffusamente, perché c’introdurrebbe in un terreno di ardua e complicata spiegazione. Preferiamo dare al lettore l’esempio di una declinazione di sostantivo ormai sufficientemente accertata (secondo gli schemi di lingue più note, come il greco e il latino e quello di un ‘epigrafe funeraria abbastanza traducibile.
Ecco il modello di declinazione del sostantivo methlum (che significa ‘nome’): methlumes (‘del nome’); methlumth (‘nel mome’, con valore locativo); methlumeri (‘al nome’). Ed ecco invece l’esempio di epigrafe funeraria (si tratta dell’iscrizione incisa su un sarcofago da Norchia e riportata sia nel Corpus Inscriptionum Italicarum di A. Fabretti, N. 2070, sia nel nuovo Corpus Inscriptionum Etruscarum, N. 5874): Arnth Churcles [Arnth Churcle], Larthal [di Larth] clan [figlio] Ramthas Nevtnial [(e) di Ramtha Nevtni], zilc parchis [pretore] amce [fu] marunuch [appartenente al collegio dei ‘maroni’] spurana [urbano] cepen [sacerdote] tenu [ha esercitato], avils [di anni] machs [cinque] semphalchls [(e) settanta] lupu [è morto].
Si è già detto che uno dei fondamentali fattori negativi per la conoscenza della lingua etrusca (e potremmo aggiungere più generalmente della civiltà etrusca) è costituito dalla ristrettezza della documentazione. Tuttavia questa documentazione è tutt'altro che trascurabile: si tratta infatti del più ingente complesso di testimonianze scritte di una lingua antica parlata in Italia, e nell'intero Mediterraneo centro-occidentale, a parte il greco, il fenicio-punico e il latino; in età arcaica gareggia per entità con i resti epigrafici di queste stesse lingue; ed è in continuo aumento. Proprio il flusso delle nuove scoperte ravviva la speranza che il futuro, anche prossimo, possa riservarci ulteriori sorprese. È più che probabile che il sottosuolo etrusco nasconda ancora un ricco patrimonio di iscrizioni. Non si può escludere che un' attenta indagine nelle aree dei maggiori centri urbani porti al ritrovamento di testi epigrafici di carattere pubblico, storico-commemorativo o giuridico eventualmente redatti in etrusco e in latino (ciò che è ben possibile per le fasi più recenti dell'Etruria sottomessa o federata a Roma).
Rimarrà naturalmente comunque l'incolmabile lacuna dell'assenza di testi letterari, per cui ci è preclusa la possibilità di conoscere l'etrusco alla stessa stregua delle altre lingue del mondo classico. In teoria documenti letterari etruschi potrebbero scoprirsi nel futuro in papiri dell'Egitto o di Ercolano (se si tien conto del già avvenuto miracolo - che di un vero miracolo dobbiamo parlare - del rinvenimento di un testo etrusco sulle bende di tela di una mummia egiziana); ma si tratta purtroppo di possibilità tanto tenui e remote da potersi definire chimeriche.
Le
testimonianze che attualmente possediamo aifini della conoscenza della lingua
etrusca si distinguono in dirette e indirette. Testimonianze dirette sono i
testi: in gran parte editi nel C.I.E.. in altre raccolte e rassegne
specifiche, ed in varie pubblicazioni monografiche e periodiche; alcuni pochi
ineditì (soprattutto quelli che continuamente vengono in luce, nella fase che
segue immediatamente la loro scoperta). Si tratta di materiale tutto di
carattere epigrafico, cioè di iscrìzioni sopra monumenti od oggetti di scavo,
salvo i frammenti del libro della mummia di Zagabria, che ha tuttavia anch'esso
una provenienza archeologica.
Quest'ultimo
documento è di importanza eccezionale non soltanto per la civìltà etrusca, ma
anche più generalmente per le antichità classiche, trattandosi dell'unico
libro sacrale su tela (liber linteus) che ci sia stato conservato per il
mondo greco ed italico-romano. Aveva originariamente la forma di un panno
rettangolare ripiegato, quale è riconoscibile in alcuni monumenti funerari
etruschi. Fu poi tagliato in strisce ed impiegato per avvolgere la mummia di una
donna egiziana, di età tolemaica o romana, scoperta probabilmente nel medio
Egitto (ma il luogo di ritrovamento è incerto). Questa utilizzazione, nella
quale andarono perduti importanti frammenti del testo originario, è senza
dubbio secondaria; ignoriamo quali precedenti circostanze abbiano determinato la
presenza di un libro religioso etrusco in Egitto. La mummia fu portata in Europa
da un viaggiatore croato e poi dònata al Museo Nazionale di Zagabria,
dove J. Krall riconobbe la scrittura delle fasce come etrusca. Riaccostando tra
loro queste bende, si è potuto ricostruire un testo scritto entro i limiti di
almeno dodici colonne verticali: esso consta attualmente di circa 1200 parole più
o meno chiaramente e completamente leggibili, alle quali si può aggiungere
almeno un centinaio di altre parole che si ricostruiscono dal contesto. Data la
frequenza delle ripetizioni, il numero delle parole sicure diverse fra loro si
riduce a poco più di 500. Comunque il libro di Zagabria è senza paragone il più
lungo ed il più importante di tutti i documenti etruschi finora in nostro
possesso.
Le
iscrizioni, scoperte soprattutto nell'Etruria tirrenica, campana e padana - in
minor numero o eccezionalmente nel Lazio, in territorio umbro e fuori d'Italia
(Africa, Francia meridionale) -, sono incise o dipinte sopra elementi
architettonici, pareti di tombe, cippi, sarcofagi, urne, tegole, statue, arredi,
laminette metalliche, vasi, ecc. Esse ammontano ad oltre diecimila; ma solo
pochissime sono di entità rilevante. Tra queste alcune hanno il carattere di
documenti autonomi non legati alla natura dell'oggetto, nel senso cioè che il
loro supporto mobile ha la funzione di una specifica superficie scrittoria (non
diversa da quelle di materiale deperibile come i volumi di tessuto o di pelle,
le tabelle e i dittici lignei, ecc., che vediamo frequentemente riprodotti nei
monumenti figurati etruschi, ma che nella realtà sono andati perduti a causa
del nostro clima, mentre il clima secco dell'Egitto ha salvato illiber
linteus di Zagabria). La più lunga è inscritta sopra una lastra di
terracotta in forma di tegola proveniente da Capua e successivamente passata ai
Musei di Berlino: esso consta di 62 righe conservate, divise in dieci sezioni,
con quasi 300 parole leggibili; la seconda parte del testo è molto rovinata; la
scrittura è tracciata a righe alternativamente rovesciate in modo da imitare il
procedimento detto bustrofedico. Un testo graffito su ambedue le facce di un
lungo nastro di lamina di piombo, purtroppo trovato in frammenti, è venuto
recentemente alla luce in un piccolo santuario presso Santa Marinella (C. I. E.
6310): vi si leggono tracce di almeno 80 parole, di cui solo una quarantina
leggibili integralmente; ed è inciso con lettere di proporzioni miniaturistiche.
Una laminetta lenticolare anch'essa di piombo rinvenuta a Magliano e conservata
nel Museo Archeologico di Firenze (C. I. E. 5237) è caratterizzata da una
iscrizione incisa, sui due lati, a spirale con movimento dal margine esterno
verso il centro: vi si contano almeno 70 parole (talvolta non è facile
distinguere se un gruppo di lettere contiene una o due parole).
Un
carattere del tutto particolare, per la loro materia e la loro importanza
linguistica e storica, hanno infine le lamine d'oro scoperte nel santuario di
Pyrgi, già più volte citate, di cui due scritte in etrusco una in fenicio (C.I.E.
6314-6316); l'etrusca più lunga, di 15 righe e 36 o 37 parole, corrisponde
a quella fenicia (nel senso di una bilingue, come già sappiamo); mentre la più
breve è di 9 righe e 15 parole). Non mancano altri documenti di un certo
sviluppo su lamine metalliche, come le tabellae defixionis (cioè
consacrazioni a divinità infere di persone che si vogliono maledire:
specialmente quelle di Monte Pitti C.I.E. 5211 e di Volterra C.I.E. 52)
e alcune di contenuto non precisabile.
Fra i titoli propriamente epigrafici eccelle il cippo di pietra, pro- babilmente confinario, del Museo di Perugia (C.I.E. 4538), che pre- senta su due facciate una lunga e bella iscrizione scolpita di 46 righe e 136 parole. Tra le iscrizioni funerarie alcune sono estese come quella del sarcofago di Laris Pulenas del Museo di Tarquinia (C. I. E. 5430), tracciata sul rotolo aperto esibito dal defunto scolpito sul coperchio, con 9 righe e 59 parole; ma ne esistono anche altre non meno lunghe e rilevanti, benche più rovinate, dipinte sulle pareti delle tombe di Tarquinia. Esistono inoltre diverse epigrafi di sepolcri, sarcofagi, cippi che presentano alcune righe di testo ed una certa varietà di parole; ma la grandissima maggioranza consta di poche parole ed è redatta secondo formule fisse; non mancano alcune brevi bilingui etrusco-latine. Le iscrizioni dedicatorie su oggetti mobili si distinguono in un gruppo arcaico, con proprie formule ed il nome del dedicante, e in un gruppo più tardo in cui è più frequente il nome della divinità; ma, tolte le leggende piuttosto estese di alcuni vasi arcaici, sono anch'esse generalmente brevi e stereotipe. Dobbiamo ricordare infine le innumerevoli leggende esplicative delle figurazioni tombali, dei vasi dipinti, degli specchi, ecc., le iscrizioni su monete, proiettili di piombo e altri oggetti minimi, le marche di fabbrica, in gran parte con nomi propri. Si aggiungano, per la loro singolarità, i famosi dadi da giuoco di avorio detti provenire da Tuscania e conservati nella Bibliothèque Nationale di Parigi, con parolette (certamente numerali) su ciascuna delle sei facce.
Fonti indirette per la conoscenza dell'etrusco sono: 1) le glosse, ed altre informazioni offerte dagli scrittori classici e postclassici; 2) gli elementi etruschi passati nel latino e gli elementi comuni etrusco-italici; 3) gli elementi etruschi sopravvissuti nella toponomastica; 4) i supposti frammenti di versioni latine da testi originari etruschi.
Le glosse sono parole etrusche delle quali è data la traduzione latina o greca: citate occasionalmente in testi di autori classici o inserite in veri e propri dizionari. Se ne contano una sessantina; ma il loro valore come elementi traduttori esterni, ai fini dell'interpretazione dell'etrusco, è piuttosto limitato: proprio come nel caso delle bilingui etrusco-latine. Glosse di carattere vario ci provengono da Varrone (de lingua latina), da Verrio Flacco (de verborum significatione), da Isidoro (Etymologicum) e specialmente nel Lessico di Esichio. A speciali categorie di vocaboli appartengono le glosse etrusche con nomi di piante medicinali e con nomi di mesi (Papia, Liber Glossarum di Leida) che pare si ritrovino anche nei testi etruschi: es. Aclus = giugno, cfr. nel testo di Zagabria. Osservazioni di carattere fonetico e grammaticale sull'etrusco, di scarsissimo valore, risalgono a Varrone, all' Ars de orthographia di M. Cappella. Per alcune parole l'origine etrusca è esplicitamente testimoniata dagli scrittori classici (mantisa. histrio. /ucumo. atrium. ecc.); per altre è ipotetica e si può anche pensare ad una formazione analogica, cioè a parole latine che imitino nella terminazione i derivati etruschi, come pure a relitti del generale substrato preindoeuropeo d'Italia, piuttosto che ad imprestiti dall'etrusco nella sua fase storica. Preferibilmente si riterranno o sospetteranno etrusche quelle parole latine di etimologia oscura e di terminazione etruscheggiante che si riferiscono al linguaggio tecnico del culto, delle istituzioni civili e militari, della tecnica, ecc. : teniamo presente il fortissimo influsso culturale esercitato dall'Etruria su Roma primitiva in questi settori. Ne mancano esempi di vocaboli per i quali l'etrusco è stato probabilmente intermediario tra il greco e il latino: per es. groma (nome di uno strumento di orientazione e misurazione dei campi). Non è da escludere neanche qualche limitato influsso dell'etrusco sulla fonetica e sulla morfologia del latino. Il problema in tutto il suo complesso meriterebbe un nuovo più attento esame, anche ai fini dell'ermeneutica etrusca. Ancora meno chiara è la questione di eventuali dirette sopravvivenzelessicali etrusche in volgari italiani; mentre l'ipotesi di una derivazione etrusca dell'aspirazione toscana è accettata da diversi linguisti.
La difficoltà fondamentale consiste soprattutto nel distinguere tra i diversi strati e le diverse aree di diffusione dei toponimi preindoeuropei: ad esempio tra voci toponomastiche di tipo «mediterraneo» o «paleoeuropeo» generale, diffuse anche nell'Italia centrale (come i derivati dalle basi carra-, pala-, gav-, ecc.), e voci toponomastiche che invece derivano dall'etrusco di età storica direttamente o attraverso una forma latina come alcuni nomi di città (per es. Bolsena da Volsinii, etr. Velsna-). Vanno infine menzionati gl'ipotetici esempi di versioni in latino dall'etrusco. Già sappiamo che il corpo dei libri sacri etruschi fu tradotto o compendiato in latino. Nelle congerie di riferimenti indiretti, riassunti, rifacimenti di scritti etruschi, dei quali qualche eco è giunta fino a noi, si notano alcuni brani che ci interessano non soltanto per la conoscenza della letteratura e della civiltà etrusca, ma anche per le forme di espressione che potrebbero riflettere una particolare struttura di linguaggio: per esempio il frammento tratto dai Libri Vegoici e riportato dai Gromatici con insegnamenti della Lasa Vegoia sulla divisione dei campi.
È evidente che il nostro interesse si concentra soprattutto sulla documentazione diretta, cioè sui testi etruschi, mentre le fonti indirette potranno se mai considerarsi come dati accessori e ausiliari. Il problema che intendiamo affrontare in modo specifico a questo punto è dunque essenzialmente quello dell'interpretazione dei testi (o «ermeneutica» in senso proprio, volendo usare il termine tradizionalmente diffuso negli studi etruscologici), cioè della comprensione del significato dei documenti, indipendentemente dall'obiettivo della conoscenza della struttura della lingua dei cui risultati si darà conto nel capitolo successivo.
Il punto di partenza è la constatazione ormai pacificamente e incontrovertibilmente acquisita in sede scientifica (contro ogni residua disinformazione in materia) che esiste da tempo una generale e basilare capacità di leggere e capire, individuandone la qualità e il senso o il contenuto certo o approssimativo, ogni testimonianza scritta etrusca che costituisca l'illustrazione di monumenti figurati (nomi di divinità e di eroi, di persone, ecc.), o ricordi i defunti menzionandone la genealogia, l'età, la qualità o le azioni, o indichi l'appartenenza e la destinazione di singoli oggetti con particolare riguardo alle dediche votive, e così via; mentre per alcuni testi più lunghi di carattere rituale (è il caso specialmente del manoscritto della mummia di Zagabria, della tegola di Capua, della laminetta di piombo di Magliano si pensi al Cippo di Perugina) possiamo accostarci alla comprensione complessiva del valore del documento, talvolta alla sua articolazione in settori, paragrafi o frasi, e perfino alla interpretazione di singoli brani.
Il fondamentale ostacolo a maggiori approfondimenti eprecisazioni è rappresentato dalla incertezza dei valori semantici di una parte notevole del lessico etrusco, cioè del significato di molte parole e radici, talvolta anche ricorrenti con frequenza e perciò sicuramente riferibili a concetti importanti (per esempio la serie di voci diffusissime ar, ara, aras, arce, art?, ecc. , di cui, nonostante tante autorevoli e motivate ipotesi, non crediamo ancora possibile considerare accertato il senso); ed in questi casi occorrerà onestamente confessare la nostra ignoranza. Di molte parole si sa la rispondenza a concetti generici senza possibilità di precise oggettivazioni: così nei testi rituali ricorrono termini con funzione verbale dalle basi hec-, sac-, acas-, ecc. , indicanti azioni di culto, più o meno nel senso di offrire, porgere, sacrificare, consacrare, forse invocare; mentre termini come fase, cleva, tartiria, acazr, debbono corrispondere a singoli tipi di cerimonie e di offerte a cose concretamente offerte, sacrificate o donate, per altro non distinguibili. Si sa d'altra parte che la nozione generale di offrire, donare, dare (nell'ambito sacro, eventualmente votivo, ma anche presumibilmente in quello profano) è espressa con assoluta certezza dai «verbi» mul-. tur-. al-: il cui reciproco rapporto, di diversa sfumatura o di diverso impiego preferenziale nel tempo o di pura sinonimia, resta tuttavia incerto. Il fatto è che per «tradurre» esattamente non poche parole etrusche occorre, od occorrerebbe, conoscere la realtà dei concetti che ad essi si sottendono sul piano religioso, istituzionale, sociale, tecnico: problema, dunque, non tanto linguistico quanto piuttosto storico-culturale.
Ma i nostri sforzi per intaccare questo grosso nucleo di oscurità del lessico etrusco, per precisare il significato di parole e di frasi vagamente intelligibili, e conseguentemente per interpretare sempre più puntualmente e sempre in maggior numero i testi, sono in continuo, seppur lento e limitato, progresso, soprattutto a seguito dell'ininter- rotto acquisto di nuovo materiale di studio, divenuto particolarmen- te sostanzioso nel corso degli ultimi anni, come già si è rilevato nel capitolo precedente. Si può citare come esempio tra i più istruttivi il caso della scoperta della già menzionata iscrizione ceretana «dei Claudii», che con l'espressione apa-c ati-c, manifestamente significante «e il padre e la madre» ( = latino paterque materque), conoscendosi già con certezza il valore ati = «madre» e l'uso della copulativa enclitica -c, ha consentito di accertare definitivamente il senso della parola apa = «padre», in precedenza vagamente sospettato e per così dire avvicinato e circuito, ma rimasto nella nebulosità dell'ipotesiI6. Analoga considerazione, come ben s'intende, vale per quanto si è detto a proposito della prova del valore ci = «tre», fornita dalla corrispondenza bilingue delle lamine di Pyrgi. I risultati finora conseguiti si estendono naturalmente dal signi- ficato delle parole alle loro funzioni e correlazioni, che danno senso ai contesti. A questo proposito esistono alcune certezze elementari, come il rapporto di appartenenza o discendenza indicato da un suffisso di «genitivo» nelle usuali formule onomastiche: Larces clan «di Larce figlio».
Diremo che esistono due soli principi di evidenza in assoluto: 1) riconoscere comechessia il significato e la funzione di singole parole; 2) constatare la natura del documento e, conseguentemente, desumerne il contenuto complessivo. Si tratta di approcci fondamentalmente diversi e, nei loro sviluppi, addirittura opposti. Il primo è basato su dati analitici, dai quali, attraverso un'indagine linguistica strutturale e combinatoria, si tende alla ricomposizione e ricostruzione del senso generale del testo (o del contesto). Il secondo, al contrario, considera i testi sinteticamente per quanto essi possano voler dire, partendo dalle loro caratteristiche archeologiche e affinità culturali, per poi discendere ai particolari della valutazione linguistica dei singoli elementi che li compongono.
Le prime parole riconosciute e riconoscibili dell'etrusco sono i nomi propri. Essi costituiscono di fatto l'enorme maggioranza delle parole presenti nelle iscrizioni etrusche ed hanno rappresentato il fondamento iniziale di ogni loro tentativo d'interpretazione. Per quanto riguarda l'onomastica personale appariva ed appare immediata l'identità formale con elementi onomastici latini, prenomi (Marce: lat. Marcus) e nomi gentilizi (Vipi: lat. Vibius); si è constatata altresì un'analoga costruzione con formula bimembre (prenome e gentilizio) o trimembre (prenome, gentilizio, cognomen) e presenza del patronimico. Con altrettanta facilità si riconoscono nomi divini comuni al latino e all'etrusco (Menerva: lat. Minerva. Selvans: lat. Silva- nus) e nomi greci di divinità e personaggi mitologici (Alexsantre, Elina, Elinai). Aggiungiamo i toponimi ravvisabili dalla loro forma latina (Pupluna: lat. Populonia) e loro derivati con valore di etnici (rumax «romano» da Ruma- «Roma»).
Diverso è il caso per quel che riguarda tutto il resto del patrimonio lessicale etrusco, estraneo all'onomastica, cioè le parole comuni o appellativi. È qui che s'incontrano le difficoltà di fondo. Non possiamo contare su strumenti diretti di traduzione se non per le scarse e malsicure nozioni fornite dalle glosse. Si vorrebbe perciò ricorrere al confronto con radici e formazioni di parole di altre lingue, supponendo una loro origine comune, nel senso del vecchio metodo etimologico.
Passiamo ora all'esame dell'altra possibilità di cogliere l'espressione di un testo, o di parte di esso, nella sua globalità partendo da indizi esterni. Il tipo del monumento o dell'oggetto inscritto è stato sempre, fin dall'inizio, una guida sicura per delimitarne il senso: tanto ovvia e istintiva da restare per lungo tempo sottintesa (se ne è avuta coscienza critica soltanto con la teorizzazione del metodo bilinguistico). È evidente che l'epigrafe di un sarcofago o di un loculo tombale non può che riferirsi ad un defunto, formulandosi presumibilmente nello stesso schema dei testi funerari latini: ciò che era stato avvertito già a partire dalle osservazioni degli eruditi del Settecento, con tutte le conseguenze relative (onomastica personale, rapporti e termini di parentela come clan = figlio, sex = figlia, e così via). Altrettanto evidente è che sugli oggetti mobili (vasi, statuette di bronzo, ecc.) debbono necessariamente comparire annotazioni di proprietà o di destinazione o, soprattuto se il luogo di provenienza è un santuario, dediche a divinità, implicanti la presenza del nome dell'offerente, dei termini esprimenti l'azione dell'offerta, eventualmente del nome divino, come nelle analoghe iscrizioni greche o latine. Ancora più evidente è che le parole scritte accanto a figure di divinità o di eroi, per esempio in scene di specchi o in pitture, sono didascalie che notificano il personaggio (cosiddette «bilingui figurate»). Le parolette incise su ciascuna delle sei facce dei dadi da giuoco «di Tuscania» rappresentano senza il minimo dubbio le prime sei unità numerali. Ogni scarto da questi elementi di certezza non può che condurre ad interpretazioni aberranti.
L'evidenza «obiettiva» desunta dall'accostamento di testi etruschi a testi di altra lingua in ambienti culturalmente vicini e per casi di dimostrabile o presumibile af- finità di contenuto può estendersi, sia pure con cautela, anche a documenti per i quali sono meno significativi gl'indizi offerti dalla natura archeologica dell'oggetto o del luogo, quale è soprattutto il libro su tela di Zagabria, le cui formule rituali sono state studiate tentando di stabilire paralleli con formule rituali umbre delle Tavole Iguvine, o latine degli Atti dei Fratelli Arvali, del de agricultura di Catone, e altre.
Richiami culturali e storici valgono talvolta a
legittimare confronti anche più lontani, come quello fra il titolo di
magistratura etrusca zilafh mexl rasnal (ricorrente con lievi varianti
formali in iscrizioni del IV-III secolo a.C.) e il titolo onorifico latino di età
romana imperiale praetor Etruriae o praetor (Etruriae) quindecim
populorum, di cui si è già parlato: esempio significativo di una
rispondenza generale che dà l'impressione di un vero e proprio «calco
linguistico», ma che è più difficile analizzare nel senso e nel rapporto
delle singole parole dei populi etruschi. Lo stesso «principio dei testi
paralleli» come fonte primaria d'interpretazione globale vale ovviamente, per
le vere e proprie bilingui. Le quali tuttavia, salvo il caso speciale di Pyrgi,
sono poche e brevissime. Si tratta di iscrizioni funerarie redatte in etrusco e
in latino, che presentano corrispondenze di nomi personali e solo
eccezionalmente dati utili per la conoscenza del lessico e della grammatica.
Assai più ampio e complesso è naturalmente il contributo che hanno offerto e
possono offrire le lamine d'oro di Pyrgi inscritte in fenicio e in etrusco (A),
per le quali potrebbe essere discutibile la definizione come «bilingue» in
senso tecnico, trattandosi di oggetti distinti (comunque uguali e trovati
insieme); ma che a parte alcune indiscutibili divergenze tra i due testi, hanno
in sostanza lo stesso contenuto: cosicche la versione etrusca risulta più o
meno efficacemente illuminata da quella fenicia, con risultati di grande
importanza ermeneutica già in parte rilevati e di cui si tratterà ulterior-
mente più avanti in uno specifico esame di queste iscrizioni.
Partendo dalle certezze di base sin qui descritte (valore di singole parole con particolare riguardo all'onomastica e significato d'insieme dei testi), il processo interpretativo si sviluppa ulteriormente, a livello di ipotesi, attraverso più approfonditi tentativi di analisi contestuale e strutturale, nei quali consiste l'essenza di ciò che, più o meno vagamente, suole intendersi come metodo combinatorio: com- plesso di operazioni che non ha, dunque, capacità di rivelazioni ermeneutiche primarie, ma svolge una funzione secondaria di verifica, precisazione ed estensione dei dati acquisiti. Si tratta di controllare la ricorrenza delle singole parole, valutarne la posizione e i rapporti, studiarne le forme, prospettarne le funzioni, distinguere frasi e partizioni dei testi, e così via. Molte volte i risultati di queste indagini ricostruttive sono ovvii o altamente probabili: quasi un semplice prolungamento delle nozioni di partenza, con conseguente ampliarsi delle zone di traducibilità praticamente sicura. Altre volte invece si tende a costruire ipotesi ingegnose, ma non dimostrabili, spesso contrastanti tra loro, o a costruire ipotesi sopra ipotesi, e a sostenerle puntigliosamente, sino a dare l'impressione di una gigantesca macchina girante a vuoto: ciò che costituisce appunto il limite degenerativo di tanta parte dei tentativi «combinatorii» degli ultimi decenni, cui va reagito con un maggiore senso di misura e di prudenza.
Occorre infine riconoscere e sottolineare con chiarezza che non soltanto tutte le conquiste sino ad oggi realizzate nel processo d'interpretazione dei testi etruschi, ma anche l'intero patrimonio di conoscenze sulle caratteristiche e sulla struttura della lingua etrusca di cui si darà conto nel capitolo successivo derivano in ultima analisi da quei dati di evidenza primaria sui quali si è ritenuto opportuno insistere nelle pagine che precedono. Lo studio linguistico è nettamente conseguente all'originaria certezza dei significati, e non viceversa.
Si riporta brevemente l’alfabeto etrusco, visto nelle diverse fasi del periodo etrusco:
Nella seguente tabella si confrontano gli alfabeti delle principali lingue del mondo classico:
Inoltre, si confrontano gli alfabeti delle principali lingue italiche:
Etrusco
Osco
Umbro
Volsco
In questo vocabolario, uso le due lettere sh per rappresentare la lettera M Etrusca, scritto normalmente con s'.
ais,
plurale
aisar,
dio.
am,
esser.
an,
egli, ella.
apa,
padre.
ati,
mader.
avil,
anno.
clan,
figlio.
eca,
questo.
fler,
offerta, sacrificio.
hinthial,
anima.
in,
esso.
lauchum,
re.
lautun,
famiglia.
mi,
mini, Io, me.
mul-,
offrire, dedicare.
neftsh,
nipote.
puia,
moglie.
rasenna
or rasna, Etrusco.
ruva,
fratello.
spur-
or shpur-, città.
sren
or shran, figura.
shuthi,
tomba.
tin-,
giorno.
tular,
confini.
tur-,
dare.
zich-,
scrivere.
zilach,
un tipo di magistrato.
Numerali:
|
1.
thu 2.
zal. 3.
ci. 4.
sha. 5.
mach |
6.
huth. 7.
semph. 8.
cezp. 9.
nurph. 10. shar. |
Le trascrizioni delle lettere etrusche qui adottate sono conformi agli usi più comuni tra gli etruscologi. Ciò a comportato la composizione di segni-immagini appositamente create , , , etc. che potessero essere viste con qualsiasi sistema operativo. La soluzione non è molto elegante sul piano tipografico, ma non crea confusioni di lettura rispetto ai simboli tradizionali.
Per la trascrizione delle spiranti si sono impiegati i simboli tradizionali (quelli del Thesaurus Linguae Etruscae e del Corpus Inscriptionum Etruscarum), sebbene vari autori si siano adeguati al sistema del Prof. Helmut Rix, sistema che dà luogo a qualche arbitrarietà, poiché presuppone una precedente ipotesi sulla provenienza dell’iscrizione. I valori delle lettere dell’alfabeto etrusco sono noti da parecchio tempo anche nelle varietà locali. L’unico problema riguarda il suono marcato dal san o tsade nell’area meridionale che equivale al suono marcato dal sigma comune a tre tratti al Nord e al sigma a quattro tratti usato a Caere. Il prof. H. Rix ha riportato in auge una vecchia ipotesi di A. Pauli, secondo cui l’etrusco ha una spirante postdentale [s] e una spirante palatale [ ] (quella di it. sci, ingl. shape, franc. chou etc.). Questa tesi va acriticamente prendendo piede presso altri etruscologi, sebbene non possa basarsi su alcuna prova epigrafica e linguistica. Secondo un’altra ipotesi, sostenuta da M. Durante (in Studi in onore di V. Pisani, I, Brescia 1969, pp. 295-306) e caldeggiata da M. Cristofani (Introduzione allo studio dell’etrusco, Firenze 1991), i grafemi suddetti marcano /ss/: lo dimostrerebbe il fatto che il suffisso patronimico e gamonimico -sa (al Nord) o - a (al Sud) è trascritto in caratteri latini come -ssa.
L’ipotesi che il san meridionale e il sigma settentrionale esprimano [ss] potrebbe essere accettata senza grosse obiezioni quando tale grafema non è all’inizio della parola; ma per i numerosi termini “meridionali” che iniziano col san e “settentrionali” che iniziano col sigma occorrerebbe supporre una “tensione dei muscoli orali” (per usare le parole del Cristofani) che contrasta con le regole dell’economia fonetica. È probabile che nell’etrusco recente questo potesse essere uno degli esiti del suffisso suddetto. Occorre però notare che a volte il suffisso è scritto -za sia in caratteri latini che etruschi e che anche altri dati epigrafici (ad es. la serie ut(u)s e / u uze / utu e / utuse) mostrano come i grafemi in questione marcassero un’affricata postdentale o un suono confondibile con essa. A nostro avviso il san meridionale (Volsinii, Vulci, Tarquinia, Campania), il sigma al Nord (Chiusi, Perugia, Cortona, Siena, Volterra, Vetulonia, Populonia, Emilia, Adria) e il sigma a quattro tratti di Caere marcano appunto un suono affricato postdentale, che spesso è l’esito di un incontro s+t o di un originario gruppo st- . Come afferma ad es. André Martinet, in latino i gruppi -ts- originari si risolsero in -ss-. Quindi anche nel tardo etrusco la particolare affricata posdentale marcata dai simboli suddetti, forse più prolungata di /z/, si sarebbe risolta ora in -ss- ora in -zz- (sorda) quand’era in posizione intervocalica.
In alcune iscrizioni della zona di Cortona, e in particolare nella Tabula
Cortonensis, è usata una e rovesciata
che
qui viene riprodotta con lo stesso simbolo.
Dall’esame della Tabula Cortonensis si deduce che essa marca tre
diversi suoni:
1) una e con indebolimento verso i, come nei derivati di *pet- (p tkeal, p tr-), in t csinal, s tmnal etc.
2) una tendenza all’atonìa a favore della liquida o nasale successiva (p rkna, t rsna, c n, t n a) o una colorazione verso o (ad esempio i casi in cui si ha lat. ol, rispetto a etr. el : nel gruppo vel- di V l, V lara, V l inal, V l ur, V lusina, V l e e poi in F l ni, liunt , t l; in C latina e anche in pru che pare avere la base di lat. oper-.
3) una
e lunga e chiusa in Sc
va
< Skaiva,
Sc
v
<
Scevai
,
An
< Anei
, sparz
te < *sparzaite che corrisponde all’uso del digrafo
ei nell’umbro scritto in caratteri latini.
In alcune iscrizioni dell’area senese e nel Fegato di Piacenza è usata una particolare forma a U o V rovesciato ( ) per marcare /m/. Ad esempio le iscrizioni
|
si
leggono 1
= l
. hepni . hermes 2avial
2
= herme . hereni 2 lar
al. Nell’iscrizione 2 sono notevoli le forme di m e di h ; in 1 sono notevoli le legature di lettere che realizzano ep e me. |
Si riportano brevemente esempi di alfabeti rinvenuti su reperti archeologici
1.
a b c d e v z h
i
k l m n s
o
p ś q r s t u
2.
a b c d v e z h
i
k l m n
o
r ś q s t u
1 Alfabeto modello inciso su una tavoletta di avorio, da Marsiliana (agro di Vulci; VII sec. a. C.). Si notino le spiranti , M, , X.
2 Alfabeto inciso sull’anforetta di Formello (presso Veio; VII sec. a. C.) con le spiranti , M, , X.
3 Parte di alfabeto scritto su un bucchero del VI secolo a. C., trovato a Ferentum.
a c e v z
i k l |
|
4. Alfabeto inciso sul letto
funerario di una tomba di Magliano (Toscana), VI
sec. a. C.
a e v z h
i
k l m n p
r s t u
f |
|
5. Alfabeto inciso su un vaso perugino della seconda meta’ del VI secolo a. C.
a
e v z h
i k l m n p
r s t u
Dopo l’alfabeto sono scritte 4 lettere, in senso opposto: tafa (altri leggono abat o afat). |
|
6. Alfabeto su ciotola proveniente dagli scavi presso Roncoferraro (Mantova). L’alfabetario, che risale al IV sec. a. C., rispecchia fedelmente le norme ortografiche dell’Etruria padana, da Spina a Bologna.
a
e v z h
i k l m n p
r s t u
f |
|
7. Alfabeto scritto su
un fondo di vaso trovato a Poggio Moscini (Bolsena) e datato al II secolo
a. C. ] c e v z h
i l m n p
r s t u
[ |
|
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