Publio Cornelio SCIPIONE (Africano)
Uomo politico e generale romano (236-235 - Literno 183 a.C.). Figlio di Publio Cornelio Scipione, console nel 218 a.C., marito di Emilia Terza, sorella di Paolo Emilio Macedonico, e padre di Cornelia, madre dei Gracchi, fu l'eccezionale protagonista di un'epoca cruciale della storia di Roma.
A diciassette anni, nella sfortunata battaglia del Ticino (218 a.C.), salvò la vita al padre; tribuno militare a Canne (216 a.C.), fu tra quelli che a Canusium (Canosa di Puglia) riordinarono i resti dell'esercito disfatto.
A ventiquattro anni, dopo essere stato edile (213), per unanime consenso del senato e del popolo e contro la consuetudine (era infatti un semplice privato e, per di più, molto giovane) fu investito dell'imperium proconsulare e inviato in Spagna a ristabilire la critica situazione lasciata dalla morte del padre e dello zio. Ivi, mediante nuovi accorgimenti tattici e una strategia costantemente offensiva, traendo profitto dalle discordie dei capi cartaginesi e dalle simpatie degli indigeni, conseguì un completo successo. Dapprima conquistò Carthago Nova (Cartagena) [209 a.C.]; poi sconfisse a Becula (208 a.C.) Asdrubale Barca, che muoveva verso l'Italia in aiuto del fratello Annibale, senza però riuscire a fermarlo; distrusse quindi due armate cartaginesi a Ilipa e da ultimo ottenne l'alleanza di Cadice (206 a.C.).
Tornato quindi a Roma, Scipione, forte del favore popolare, ottenne il consolato per il 205 e come provincia la Sicilia, che nei suoi disegni avrebbe dovuto servirgli come base per portare la guerra in Africa, così da costringere Annibale a uscire dall'ltalia e da poter risolvere definitivamente il lungo conflitto. Il suo audace piano incontrò l'opposizione di Fabio Massimo e dei suoi fautori, cosicché il senato gli negò i mezzi e le truppe necessari. Ma, nonostante difficoltà e sospetti, Scipione con l'aiuto spontaneo ed entusiastico delle città italiche e italiote, allestì una flotta e un esercito agguerrito, se non molto numeroso, con il quale sbarcò in Africa presso Utica (204 a.C.).
Trovatosi di fronte a forze superiori al previsto, alternò azioni di guerra a proposte di pace, riportando, con l'aiuto del re numida Massinissa, una grande vittoria ai Campi Magni (203); poi, al ritorno di Annibale dall'ltalia, per stroncare le rinascenti velleità bellicose dei Cartaginesi, attaccò battaglia presso Naraggara (Zama) infliggendo loro la sconfitta decisiva (202) cie pose fine alla seconda guerra punica. Accolto a Roma con uno splendido trionfo (201 a.C.), a ricordo della vittoria ricevette il soprannome di Africano.
Censore nel 199, più di una volta princeps senatus e di nuovo console nel 194, propugnò, in contrasto con Catone il Vecchio e il partito conservatore, una politica d'espansione in Oriente, cosicché, quando scoppiò la guerra con Antioco III di Siria, fece pressione perché il comando della spedizione toccasse a suo fratello Lucio e a lui fosse concesso di accompagnarlo in qualità di legato. Di fatto ne fu il capo, sia nella preparazione diplomatica sia nel predisporre il piano delle operazioni belliche Il successo gli arrise a Magnesia al Sipilo anche se una malattia lo tenne lontano dal campo di battaglia. Ma dalla vittoria, che con la pace di Apamea (188 a.C.) procurò a Roma il dominio in Oriente e un enorme bottino, trasse alla fine più motivo di amarezza che di compiacimento.
Al ritorno a Roma Scipione trovò gli avversari politici allarmati del crescente prestigio suo e della sua famiglia, più accaniti che mai contro di lui e desiderosi di rovinarlo, Il procedimento fu quello comune di una campagna di accuse di corruzione nei riguardi suoi e, soprattutto, del fratello Lucio, per cui avrebbero privatamente ricevuto danaro da Antioco III e non avrebbero reso conto di 500 talenti dell'indennità di guerra versata dal re. Come conseguenza si ebbero tentativi di incriminazione se non veri processi (cosiddetti « processi degli Scipioni »), sui quali la tradizione storica presenta molte lacune e punti oscuri .
E' accertato, peraltro, che negli ultimi anni della vita, sdegnato con i concittadini, egli abbandonò Roma (pronunciando, secondo Valerio Massimo, la frase « Ingrata patria non avrai le mie ossa ») per ritirarsi nella sua villa di Literno dove, cagionevole di salute, morì a circa cinquant'anni.
Grandissimo generale, a giudizio dello stesso Annibale, che lo avrebbe incontrato alla corte di Antioco III, nel campo politico, con il suo programma filoellenico ed espansionistico, non ebbe la fortuna che forse si aspettava.
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