Brutalità italiane

Informazioni: proibizione assoluta di telegrafare in Italia le notizie degli attacchi su Addis Abeba, gli italiani non devono sapere nulla.

Giustizia:  ai processi presso il tribunale italiano per gli indigeni non c'è un magistrato che conosca la lingua locale e nessuno si dà neppure la pena di mettersi ad impararla, i processi si svolgono tutti a mezzo dell'interprete. una procedura per essi incomprensibile, che li porta a condanne atroci senza che vengano neppure a sapere perché sono stati condannati.
I funzionari vengono in Etiopia non per spirito d'avventura o patriottico, ma perché il servizio in colonia conta il doppio; e così, poiché son tutti vecchi, fanno più presto ad andare in pensione

 Pionerismo da burla: arrivavano operai che dovevano essere  manovali, muratori, carpentieri, la maggiorparte erano parrucchieri, commessi di negozio, lustrascarpe. L'alta paga li ha indotti a frodare nascondendo la loro vera professione. Un caposquadra guadagnava settanta lire al giorno mentre in Italia col proprio lavoro guadagnava dodici lire al giorno. Protestano, evadono dai cantieri a cercarsi un lavoro più comodo, non vogliono sopportare fatiche.

Vendetta: subito dopo l'attentato al viceré Graziani: Tutti i civili che si trovano in Addis Abeba, in mancanza di una organizzazione militare o poliziesca, hanno assunto il compito della vendetta, girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppano quanti indigeni si trovano ancora in strada.

L'uso dei gas: Per stanare i guerriglieri occorreva penetrare in stretti cunicoli dove poteva passare un uomo alla volta, facile bersaglio dei difensori. Si decide di inondarli di gas velenoso. I risultati furono definitivi e terrificanti.
 Siamo in Etiopia, nel 1935 e la testimonianza è quella di un soldato italiano, Manlio La Sorsa, impegnato nella guerra scatenata dall'Italia fascista contro il regno del Negus: «sono stato a visitare i campi di battaglia che si trovano nei pressi di Selaclacà... ciò che mi ha fatto maggiore impressione è stata la vista di un gruppo di abissini morti in una specie di caverna, ben nascosta, che sembrava un infido nido difficilmente scovabile. Sono in tutto nove giovani vite, e sono abbracciati, o meglio afferrati uno all'altro in una stretta disperata: il loro atteggiamento, le loro posizioni, e quel loro aggrapparsi alla terra o al compagno, mostrano evidente che morirono nel momento stesso che tentavano di fuggire disperatamente alla morte certa; ...».

La persecuzione degli ebrei libici: siamo nel 1938 e Journò è un giovane ebreo italiano che vive a Tripoli. Il Governatore della colonia, Italo Balbo, ordina agli ebrei di tener aperti i loro negozi anche il sabato. Ovviamente i negozi restarono chiusi. A quel punto i fascisti prendono dieci ebrei libici e decidono per una loro pubblica fustigazione: «in mezzo alla piazza alcuni genieri dell'esercito avevano eretto un palco abbastanza alto proprio per dare la possibilità a tutto il popolino di godere dello spettacolo... non so dire quante frustate ogni condannato ricevette, tenni gli occhi chiusi e sentivo solo i lamenti e i battiti delle mani della gente che gridava piena di odio».