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"Assuero, un'identità da recuperare"
di Francesco Massinelli
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questo racconto appartiene agli autori secondo la legge 22 aprile 1941
n.633 : tutti i diritti riservati.
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1
Il mio nome è Assuero. Al fiume andavo con la motozappa trainante un carretto a caricare la rena, passata la piena. Immaginavo un ritorno a casa in eleganza da vestaglia da camera abbinata con ciabatte e pigiama. La carcassa delle mie proteste, i consigli di tutti i miei zii spirituali putativi, stavano lassù, sulla sommità della mia nuca. Non avevo più una chioma, avevo già le tempie empie e immaginavo una società pronta a indolorarmi per poi fregarmi. Ai miei tempi ero stato l’ultimo a prendere il latte dalla madre di un altro bambino poiché mia madre ne aveva poco. Questo mi bastava per non opprimermi. Ero partito senza molti traumi da troppa confidenza con i miei perché il Ministero della Difesa mi voleva. Durante la mia assenza c’era stato un mondo vacuo, cambiatore di bioritmi, che, grazie all’inquinamento giustificabile con lo sviluppo industriale, aveva fatto apologia del senso comune. Tutto era stato abbruttito nell’ottica del merito. Casa mia, da lido in riva al fiume, balneabile e pescabile, divenne come un loculo distinto sotto un arcosolio, una vetusta memoria di passatempo e vanagloria; riva di cartacce, proprietà organolettiche sempre più rarefatte. Da bravo ragazzo qual’ero se con le amicizie tiravo fuori la misurazione di reciprocità per motivare la chiusura di un rapporto, nei rapporti in famiglia non ripensavo altro che alle discese a patti con i parenti, tutti identificatisi coi loro avi. E così ero contento, non litigavo con nessuno, anche se l’educazione che mi veniva data non sempre mi sembrava adeguata. Tanti incontri decisivi avevo sentito, visto che per ben divenire attendevo alle fonti della vita vicine, vicine a casa mia, che non mi facevano senso. Sapevo del non dover scherzare col dire che la disoccupazione dei paesi industrializzati non fa crescere i vermi nella pancia dei bambini italiani. Lo sapevo ed in certi discorsi nemmeno provavo ad entrare. Come illuminato da monofore a strombo, aperte sulle absidi rivolte a levante, proprio nel momento in cui la società riconosce la maturità, scovai un mio declino diventato un inchino verso un idolatrico rapporto con me stesso e il mondo vicino. Lo scovai il giorno del mio diciottesimo compleanno, quando mi accorsi che l’età anagrafica non coincideva con quella che mi sentivo.
2
Quel giorno ero tornato a casa dopo un lungo periodo di assenza. Pensando di essere grande ero scappato da casa giovanissimo, interrompendo gli studi, sbrigandomi a fare il servizio civile per poi lavorare. In realtà questo non era stato. Dopo l’aver pensato di esser partito di casa ogni rapporto che avevo costruito con la gente mi avrebbe portato a sentire la sconfinata dilatazione della coscienza di un perdente. Le inclinazioni mistiche in me preesistenti non mi avrebbero mai potuto pienare che certi vuoti di memoria incipienti. Quando non ero vigile, l’energia che mi scorreva dentro, come ad un meridiano canale, emissaria od immissaria a seconda degli imperativi dell'esserci più fastidiosi, si sarebbe potuta polarizzare solo sul mio rinchiudermi. Verso uno spaccio di riti secchi, molte relazioni che prima erano buone, sarebbero diventate per me nient’altro che cose altamente fastidiose. Fastidiose al punto da farmi ricevere, con gli schiaffi sul mio orgoglio, la giunta degli effetti di panico. Una giunta a cui erano sottintese una quantità di altre botte da non credere. Dall’allontanarmi da casa alla mia solitudine, una impalpabile riflessione incorporea, mezza trasparente, si era troppo mollemente calata su me, purtroppo, anestetizzandomi principalmente le più belle emozioni. Ed io non potevo che subirla. Non potevo che mostrarmi al mondo con il mio sguardo pacato dietro un occhio velato. Prima di attrezzarmi una riequilibrata, tra i pieni e i vuoti energetici, fui messo felicemente a regime come gli alvei del fiume, che rigonfia e tracima, da alcuni fatti episodici della mia vita, dalla presenza di una persona capace che iniziai a frequentare. Io trasbordavo una stranezza tale che al vedermi nel successo mi stupivo sempre più di me stesso. Dopo l’aver pensato di essere andato via di casa, dopo l’aver pensato il servizio civile, dopo l’aver pensato di lavorare vicino al mare prima di decidermi finalmente a farmi curare, arrivò la festa del mio compleanno. La scissione del mio corpo, dalle zone di casa alle zone dove svolsi il servizio civile ed il lavoro, non la portai più di tanto in processione. La vivevo così, li per lì.
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Cinque presunti anni fa, il mio fare rabdomante nell’obiezione di coscienza, fare che trovava l’acqua che faceva da tutte le parti, contrastava con un grande bruciore interiore, non dante pace alle smanie ansiose che mi alzavano i battiti del cuore. Anche se ero un adulatore della perizia tecnica, affascinato dagli scoppi, dalle accelerazioni dei velivoli, ero uno che più del volo spaziale umano gradiva per un po’ nascondersi nella sicurezza del lavoro mal retribuito o del volontariato mal organizzato. Alla giusta distanza da ogni fureria, con lo sguardo fisso sulle carte del cielo, sapevo di non essere capibile né con premi né con punizioni. Pertanto le sollecitazioni di pace che dovevo far subire al mio organismo non dovevano peggiorare il mio stato di identità violenta. Pur alloggiato all’alloggio degli obiettori sapevo infatti di saper mantenere la mia identità di servo civile vero e proprio. Pensavo di comportarmi come un piantone in caserma. Le figure da cui scappavo, talvolta facendo anche il passo del leopardo, erano maggiormente operatori societari, deleteri per l’ansia che avevano di tranquillizzare il prossimo. Ogni volta che mi rialzavo da quel passo per camminare da uomo mi sembrava un azzardo essere lì, l’incompreso, il solo. Tutte le altre persone sembravano sperdute, prive di coscienza relativa al susseguirsi degli eventi. Erano l’incuranza nel favorire i pericoli di un servizio civico mal pagato fatta figura. Ed io ero peggio di loro. Anche al top del mio non pavido impegno pacifista sapevo che il combattimento, come segno d’elezione, s’incontrava con il mio livello di opposizione asservito al solidificarsi per imparare a combattere. Ero bravissimo a fare gli sbalzi per mettermi velocemente a terra, per assaltare gli attivisti che mandavano comunicati ai parlamentari. Ero un convinto assertore della necessità dei contrappelli serali, perché la mattina erano tutti passivi e la notte tutti attivi. Calcolavo i rischi di un servizio civile involontario europeo svolto da obiettori di coscienza con lo status dei volontari in ferma prolungata. Avevo energia sufficiente a togliere il disturbo in tempo dato.
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Per bisogno di concretezza, visto che non avevo agognato il congedo facendo i conti con la stecca, pensai di accettare, dal responsabile dei servizi sociali del Comune che con convenzione ottenne le mie prestazioni, un compito che nessuno voleva. Mi ritrovai messo al servizio d’un ruvido e vernacolare attore ligneo, dalle membra articolabili, col busto cavo, in un mondo fantastico. Viveva in un magazzino tutto particolare ma entrando come nella sua casa, la cosa che catturava l’attenzione, era un tetto con tutta una serie di feltri, appesi ad asciugare, con sottili strati di cellulosa aderita a coloratissimi fiori secchi, da tirare giù, staccare e stirare, al fine di fargli prendere una piega data, dopo un compiuto salto tempestivo/temporale, che li avrebbe portati a diventare fogli. Ogni mattina andavo nel magazzino in cui era stato ritrovato, lo aiutavo ad alzarsi, a vestirsi e a lavarsi. Disbrigavo per lui alcune pratiche dopo avergli preparato la colazione. Poi pensavo di andargli a fargli la spesa, tornavo per cucinargli il pranzo e per svolgere quei lavori domestici, pesanti o leggeri, che lui non poteva fare. Il controllo per l’assunzione dei farmaci non lo facevo io, se istruito glieli somministravo all’ora di cena. Da macchina scenica semovente qual era non aveva rapporti né con i familiari né con il mondo esterno in cui io potessi sostenerlo in alcun modo. Quando lo piantai in mezzo ad un campo simile a quello vicino a casa mia e al fiume, a rassicurare passeri, erano forse passati così tanti assessori che nessuno si accorse di nulla. I tempi di vita delle organizzazioni sono diversi da chi vive il tempo degli incarichi, dei ruoli. Pur dubbiosa ma non disillusa, la mente mia si rendeva conto, che l’accoglienza dell’amore permette il suo accadimento, pur laconico e arido.
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Non ero più diretto da uno con il berretto da poveretto, che più di tanto non capiva, quando mi considerai congedato con un amico piantato, libero di starsene dove desideravo, quattro anni prima della festa per il mio diciottesimo compleanno. Un passone di vigna con bassorilievo in marmo lo riparava da intemperie nordiche e proteggeva me da commenti indiscreti. Quel campo da cui però spaventava i passeri era unico, si distingueva da orti e giardini dei vicini perché non era visibile che da un ponte vicinissimo a quella che sembrava casa mia, ma posto più in basso di tutti i tremolii d’aria calda che mai mi era capitato di vedere da lì. A causa dell’inquinamento, con il paesaggio fuori il campo deturpato da industrie sviluppate attorno ad esso, c’era un contrasto impressionante tra modernità e uguaglianza a cinquanta o più anni fa: verderame sui fili di ferro dei filari delle viti, fiocchetti consunti ad essi annodati, attrezzi agricoli primitivi; veicoli con motori a idrogeno, tetti brillanti di pannelli solari, vecchi diesel ad olio di colza sempre pronti al clacson suonante. E questo a me piaceva e bastava; l’attore lì dava bella mostra di sé. Pur non avendo niente di antico e d’inestimabile sapeva evocare emozioni struggenti. Meglio di come riescono quelli che, affondando il corpo in un fitto prato di soffice trifoglio vanno piangendo poiché poi dopo debbono passarci il diserbo, lui presenziava il beltempo come il maltempo. Dopo tutto quello che avevo fatto per lui avrei voluto posizionarlo degnamente, ancor meglio; mi prendeva male il vederlo, col fisico asciutto ma non ossesso. Ed il non riuscirci mi dispiaceva, sinceramene e proditoriamente. Forse un tempo era stato uno di quei guerrieri che attacca l’ospizio dei vecchi poiché il palazzo del governo richiede eccessiva tribolazione, ma adesso, così ridotto, non dovendo più affermarsi per avere un essere, mi faceva una sensazione grande.
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A casa io avevo un carattere aperto, gioviale, generoso, buono: generalmente per molto tempo, qualche volta per poco. Con lui no. Andavo sempre coniugandomi con un cercare di dare sorrisi, disponibilità ed amore quando non lo piansi dove l’avevo piantato. Lo piantai con ritrosia, perché mi sentivo invadente. Per tanto tempo l’avevo guardato e rimirato fino in fondo ai suoi occhi dipinti, imitandone l’intensità, come in uno specchio, nello spicchio d’anima che mi pareva sincera. Per lui avevo provato una così speciale sintonia che piantarlo era l’unica valida ragione per non continuare a servirlo. In diverse situazioni mi era capitato d’incontrare persone dal cui sguardo capivo che avevano capito un loro errore, qualcosa del loro passato, un fatto contingente. In quegli occhi dipinti però, sempre pronti a sostenere il mio sguardo, riuscivo a lasciarmi addietro il mio carattere e il suo ematoma, anche se mi sembrava purtroppo di instaurare come una relazione non buona. Mi perdevo nella normalità di credere la creatura preziosa, così come facevo con le persone bisognose di attenzioni sociali, che non avvicinavo: persone bloccate e sfasate, per un dolore. E questo mi portava ad una terribile confusione. Trattavo lo sguardo dipinto come uno reale. L’effetto alone del mio guardare sulle più scomode posizioni viste trattava il dipinto su legno secco come l’anima su carne viva; e questo mi portava desolazione e bruciore. Dopo essere entrato in tanti occhi con lo sguardo, piantarlo voleva dire per me scaricare via i tempi di attesa oziosa, evitare di coinvolgermi in una odiosa relazione ancor più scomoda. Mi ero voluto convincere che esiliandomi a svolgere qualche altra cosa avrei trovato un riposo fattibile in un altro luogo, lontano da lui.
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Non allora lontano m’allarmavo. A tre anni di distanza dalla festa del diciottesimo. Dopo quello che mi era sembrato il mio ultimo servizio per la patria, in ambito di attivista del servizio civile involontario, avevo capito che, come nell’antichità erano le saline una fonte di potere e di ricchezza, nel moderno non sono i rifiuti dati ai poveri a mantenere ai ricchi l’esaltazione del superfluo. Come quando nei secoli passati la chirurgia era meno progredita e si ricorreva alle intercessioni di alcuni individui per ottenere guarigioni, sentivo che la generosità dei poveri verso i ricchi si sarebbe un giorno palesata. Stava a me trovare un modo per passare da aiuto-povero ad aiuto-ricco per aver maggior lucro da reinvestire in attività per chi stava, senza guadagno, trafitto dalla miseria. Il giorno che, dopo il passaggio di tronchi sul fiume, con il loro comparire per dopo sparire, mi decisi a dare una svolta alla mia carriera lavorativa, era il momento giusto. D'altronde si sa, tutti i fiumi portano al mare. La mia risorsa strategica, tale da permettermi di uscire dall’astrazione illusoria compensante i desideri irrealizzati, fu cambiare giro di persone incontrate. Lavorando sodo avevo capito quanto i progressi nell’ambito della scienza spaziale derivano dall’applicazione e dal perfezionamento di tecnologie belliche, lavorando solo avevo capito che il finanziamento pubblico che arriva sul sociale serve, anche se si disperde sempre in élite d’équipe composite. Iniziai ad interessarmi dell’estrazione del cloruro di sodio, dei cicli evaporativi delle acque. La gaiezza di pensare al lavoro fu grande, iniziai a prendere consapevolezza che, anche se non io solo potevo darmi tutto l’amore di cui avevo bisogno, comunque (e nonostante tutto) qualcosa potevo fare. Decisi che l’unico mio modo di vivere, prima di riconciliarmi con me stesso, sarebbe stato quello di non pensare che per un po’ agli affari, così come avevo fatto per gli altri svolgendo quel mio particolarissimo servizio civile. Forse di voce in voce si diffuse il mio nome nelle bocche della gente acquirente; sicuro è che finì addirittura in un manifesto mostrato soventemente, di cui conservo ancora una copia scritta col pennarello. Mi feci estroverso al cento per cento, traendo dentro me che prima tendo ad ignorarla, la gente. Ma poi lego.
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Passare dall’acqua dolce a quella salata non mi fece nessun effetto particolare. Come un bimbo che non si stupisce alla vista del mare perché ha visto un lago, io, tutto preso com’ero stato portato, andai a cercare quel qualcuno che mi aveva aiutato. Andai anche se non lo trovai. Anche se dovetti accontentarmi della sua esperienza trascritta in un manuale bagnato. Tra efferati attacchi d’idee commerciali e intuizioni dei percorsi con anse sempre un po’ inattese, mi diressi verso quella che mi avevano detto chiamarsi salina, forse una zona con persistente irraggiamento solare ad alta temperatura, con venti dominanti idonei, con un’area vasta di superficie piana non ombreggiata. In quella salina la composizione del terreno era impermeabile, capace di evitare dispersioni. C’era grande disponibilità di acqua di mare minerale, limpida, non inquinata, lontana da fonti di acqua dolce del pozzo, imbottigliata. L’intera area della salina era ubicata in una zona di bassa piovosità, c’erano delle vaschette ben dimensionate, accessibili, regolari con buoni argini. L’unica cosa che mancava era la disponibilità di manodopera qualificata capace di unire le conoscenze, sia tecniche che legate all’esperienza, ad una forte propensione al lavoro. Solo come quando facevo dei piccoli favori alla gente bisognosa di attenzioni socializzanti, in posizione d’attenti o di riposo, iniziai quello che poteva apparire a tutti un mio lavoro banale di controllo delle acque, costrette a defluire in bacini posti in rigoroso ordine decrescente. Iniziai così tanto per fare, aspettando quel qualcuno che mi aveva aiutato e che non sarebbe mai arrivato. Rispetto al servizio civile mi distaccai dal mio stato di uomo coinvolto con l’indigente, ma non come un paralizzante osservatorio. Lo feci come una persona attiva, ancora disponibile all’occorrenza a prendersi la servitù di portar via la spazzatura, di tagliare a qualcuno le unghie per fargli risparmiare quanto di spendibile in un centro estetico. Quel qualcuno che cercavo, che in passato mi aveva aiutato, era stato sepolto dallo smuoversi di un mucchio di sale. Era salito a far la revisione della sua situazione esistenziale. In un libro ostruito dal sale bagnato m’aveva comunque istruito in un modo che io non apprezzavo. Il libro si intitolava «il salariato». Il mio modo di trattare il sale era infatti particolarissimo, diverso dal suo. Io, grazie al sale, realizzavo dei potenti giochi pirici che portavano al ricovero in infermeria di tante persone solo per eccesso di fumo inalato e bagliore. Mai dolore al timpano o ustione. Lui no. Lui il sale lo inscatolava. Io osservavo la realtà, formulavo un’ipotesi, la confrontavo con altri fenomeni. Creavo una fiamma e la guardavo. Se mi emozionava davvero progettavo un successo, altrimenti no. Mi lasciavo trasportare dalle mie creazioni come ruscelli e fiumiciattoli su mondi interiori. Erano come acque cinegeniche le mie esplosioni.
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I giochi pirici col sale erano qualcosa d’impressionante. Tutti i miei artifici cambiavano il paesaggio circostante. L’impatto ambientale lo riuscivo a controllare facendo delle fontane alte, con il sale ricadente sempre dove si poteva poi aspirare o lasciare stare. I miei giochi pirici piacevano perché erano estensioni di forme immaginate estinte, addensavano in forme vagamente alienanti certe impressioni della retina quando si stringono forte le palpebre dopo aver fissato una luce. Anche se non ero mai riuscito ad abbassare la frequenza delle vibrazioni fino a solidificare la luce, il cambiare della densità fisica del sale, da grosso a fino e poi invertito, dava un effetto dissolvenza ai fuochi artificiali perché faceva sentire il vibrare più sottile della densità fisica. Accadde un giorno, in mezzo ad una cerimonia assolutamente normale, in cui tutto il mio ingegno non interessava a chi il sale lo vedeva buono per sciogliere il ghiaccio e mangiare, che mi feci un nuovo esame di coscienza generale con le cosce accavallate. Dopo il congedo e il furto ben gestito dell’amico ligneo, dedicandomi progressivamente al lavoro, avevo visto passare un discreto lasso di tempo. Avevo lessato le mie intemperanze giovanili piazzandomi benissimo in un mercatino e trovavo tra le mie mani il foglio del distretto militare del mio capoluogo.
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Mi volevano per tre giorni, per farmi delle visite, per vedere se ero abile al servizio militare. Dopo il pensiero di aver lasciato casa in balia dell’inquinamento, io che ero sfuggito all’alloggio con gli obiettori, che mi ero reso conto che la maturità giusta per intuire dove raffermarmi non potevo trovarla con i soldi, corsi a cercare il congedo. Lo trovai ed era bellino, scritto a macchina su una pagina staccata dal quaderno, senza la firma del sindaco e la data. Alla faccia delle paracadutiste allieve volontarie professioniste con sempre minor innocenza in casa, per ragioni di detenzione del potere, fui portato da due miei clienti in una grandissima caserma dell’esercito italiano. Per tre giorni stetti coi militari. Fui trattato come un ragazzo e fui insospettito dai loro commenti su me. I pensieri del lavoro però, in cui esercitavo maltrattamenti fisici e soprattutto psicologici a carico dei membri deboli che incontravo, per garantirmi gli appalti migliori, ebbero il sopravvento sulle problematiche che avrei incontrato riconoscendomi sedicenne o diciassettenne come i medici militari del distretto avrebbero voluto. Avevo svariate prove, disconfermate dai documenti d’identità, che io avevo ragione e loro no. Una prova era il lavoro, la vastità delle mie intimidazioni che portavano verso alcuni miei concorrenti infelicità, insicurezza, stress; fino a farli sfociare in stadi di vera e propria malattia conclamata.
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Curando personalmente gli affari capii, due anni prima della festa di compleanno, che la mia ricchezza aveva in fondo uno scoppio e un’esistenza di bagliore. Il mio essere uomo, privo di pregiudizi, sinceramente solidale, capacissimo di danneggiare, la doveva però controllare. Da maschio in quell’uomo che ero dovevo provvedere sempre in qualche modo. Stare attento. Dopo l’esperienza di svilimento socio-assistenziale nell’ambito del servizio civile irriconoscibile dal distretto, con il guadagno da manager della pirotecnica, ero passato dal coordinato e consapevole dell’inutilità del mio servizio allo stato di benestante quasi sistemato, troppo presto. Non mi ero ancora dotato di codice fiscale, partita iva, carta d’identità e patente di guida, perché, lavorando in nero, l’informalità era bastata a far da motore alla crescita di quel valore aggiunto, aggiungibile a tutto, con cui annientavo la concorrenza. Rimasto nelle mie occupazioni per lunghi periodi di tempo, con il successo e con quell’amico strano da andare ogni tanto a trovare là dove l’avevo piantato, ero rimasto come fuori. Quando a causa del lavoro lasciavo la salina e mi recavo in riva al fiume a fare sperimentazioni, l’immagine che lui, lì piantato, mi dava, era sempre meno adeguata a me. Ma dovevo meglio convincermene. Arso dal vento sul campo era un costante richiamo ligneo a non fare come lui, a non isolare il mio sguardo, a non intrattenermi in aride conversazioni. Riconoscendomi l’incapacità di aggiustare da solo i danni commessi e di scorgere quelle umiliazioni che portano alla verità, pur lavorando sodo, dovevo sforzarmi di non provare invidia per lui. C’era una grande differenza tra lui che non doveva più affermarsi per avere un essere e me. Lo dovevo capire.
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C’era qualcosa che nella mia vita non quadrava se avevo lui per amico e quel tipo di lavoro vicino. L’immagine della mia identità, sempre più suscitata dal raccordo con l’immagine altrui, non poteva ostinarsi a stare spezzata tra il carnale e il ligneo, in mezzo alle esplosioni controllate di sale, coi suoi sentori. Mantenendo i contatti con il paese dove avevo svolto il servizio civile avevo altre relazioni in cui specchiarmi. Nel risvegliarmi dal sogno prima di riaddormentarmi avevo sentito più volte la possibile distanza dei parenti amati lacerarmi prima del suo avvenire, quasi a prepararmi a futuri distacchi. Ma per lui, per il mio amico, no. Mi vennero dei sospetti brutti riguardo al fatto che il mio amico fosse stato affetto da una sindrome psichica intessuta di dettagli pittoreschi, mutati dal folklore della mia immaginazione, o, peggio, che mai fosse stato in vita. Pensando che mantenere la realtà temporale dopo averla abbandonata è arduo, iniziai a guardare le scelte di vita di alcuni miei coetanei meglio sistemati e m’accorsi di essere rimasto indietro, non di testa ma coi fatti, di alcuni anni. Comportandomi come mi riusciva meglio, approfondendo i rapporti con quanti mi dimostravano più affetto, lasciandoli parlare per capire la loro idea di me, iniziai così a frequentare, con lo stile del militare alle prime marce, che indossa il fez a pandoro, che segna il passo al momento del fianc arm, una persona capace. Iniziai a frequentarla un anno prima della festa per i miei 18 anni. Pur non riuscendo a stringere con lei una profonda amicizia, coltivavo verso il suo essere vera, una persona sincera, una profonda ammirazione. Sapeva cogliere l’aspetto educativo di ogni domanda anche posta male, e quindi da odiare, che le rivolgevo. Nell’intensificare i rapporti con lei mi sentivo tranquillizzare. La incontravo proprio nei contesti di pace disagevole e mi consolava dicendo che il peggioramento del mio stato di identità mi aveva trovato accorto, che questo dato non era da dare per scontato. Mi diceva che la mia sensazione di essere rimasto indietro più coi fatti che con la testa avrebbe potuto riservarmi ancor più brutte sorprese ma che non dovevo prendermela. Secondo lei si coniugava con un credermi più avanti degli altri in svariati fatti. Questa persona era anche il mio cliente principale. Ricomprava da me tante esplosioni di sale. Per amore all’affare entrambi ci comportavamo in modo professionale. Spesso, visto che era lei a dover saldare con me il conto, per non prenderle denaro accettavo qualche sigaretta, una liquirizia, le caramelle. Io avevo molti dubbi sulla mia vita, di cui uno grande e tremendo. Lei invece soleva ripetere che la sua esperienza del dubbio era stato un qualcosa da conquistare e che quindi io potevo stare contento: lo avevo già come un punto di partenza. Se nel normale svolgersi d’una relazione bruciavo un appuntamento, rovinavo un incontro tra persone, secondo lei non dovevo farmi ardere per ore un pensiero interiore. Assumendo anche pose da tronco lavorato, da pianale poggia carne da macello, potevo prendere qualcosa per stare meglio. Per quanto ero stato asociale nel sociale diceva che era legittimo il sentirsi insipido in mezzo al sale. Grazie all’apertura che si creò in me dal frequentare lei, persona capace, vissi anche una breve storia d’amore. Talvolta foriere erano le mie gesta.
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L’immagine del mio ritorno a casa, in eleganza da vestaglia da camera abbinata con ciabatte e pigiama, stava in consonanza con quanto di più vicino alla malattia di mente (che si potrebbe vedere degnamente in me procedere) io ammettevo. La carcassa delle mie proteste e tutto il resto sulla sommità della mia nuca erano figura d’un brutto episodio della mia infanzia. Scoprirlo di botto il giorno del diciottesimo compleanno e capirlo gradualmente nei giorni a seguire ripensando gli anni a ritroso, era stato peggio di perdere la bussola e l’orologio. A raccontare l’episodio non ci vuole nulla quando riacquisti la memoria e ti senti tranquillo di aver già incolpato i parenti per non averti fatto svegliare prima, quando ancora non ti sei sprecato la forza per vendicarti del torto che ti arroghi di aver subito. In un’aia adiacente alla magione dove stavo da piccolo c’era un’altalena in cui ero solito salire. Partecipe come un principino vi salivo e vi andavo sempre più forte come uno che si allena, intonando un grido di paura da brivido. In un giorno di pioggia in quella pieve dove oscillavo lieve, girando a meno di 360°, detti una botta di schiena in un punto molto morbido in cui il mio babbo ricreava l’humus che il nonno aveva eroso prima di vivere lo spavento che io gli avevo provocato svenendo. Con slanci di dedizione, di cui però dovrò sempre esser grato ai miei, ebbi l’assistenza di tutti i parenti nei mesi della riabilitazione che seguirono all’accaduto e mi rimisi in salute senza troppi problemi, fino al compimento del diciottesimo anno, avendo tante attenzioni. In quel giorno di festeggiamento della maggiore età c’era però qualcosa che non mi quadrava, su cui avevo rimuginato da dopo la visita al distretto militare che mi aveva decretato inabile alla leva. Quella visita infatti mi colpì particolarmente in quanto m’accorsi che per anni avevo vissuto con uno stile aderente al punto d’incontro con la terra, come uno dall’indole bizzosa nella solitudine del non avvenuto distacco traumatico di sé dal mondo. Alla festa del diciottesimo, scoprendo di avere diciotto anni invece dei ventitré che credevo di avere, capii che l’evoluzione lineare e progressiva della mia età non si era incontrata con la mia percezione di questo, che davanti al presentimento di morte successivo alla caduta avevo reagito con mezza tacca di personalità. Mi ero dato cinque anni in più di quelli che avevo ed ero entrato in uno stato confusionale come se ne avessi avuti cinque in meno.
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Inutile ridire quanto furono vani certi discorsi del parentado. Nei giorni che seguirono la festa del diciottesimo i miei parenti mi ridissero direttamente, più e più volte, che dal silenzio della mia salute precedente alla caduta ero uscito ammalandomi senza saper indicare il mio dolore fisico. Costretto a letto avevo costretto il loro tempo, facendogli infrangere tutti i progetti in cantiere, restringendoli nello spazio perché non potevano più muoversi liberamente o incontrare chi desideravano. Non avevano voluto interdirmi, non avevano voluto inabilitarmi perché ero minorenne, perché speravano in una mia uscita dalla condizione di figlio da pensione d’invalidità. Tra permessi concessi e revocati, schivando prosaici e malevolenti infermieri primari, i miei mi fecero stare alla larga dai musei anatomici o dai gabinetti di storia naturale dove qualcuno avrebbe voluto espormi allo sguardo del mondo studiante un caso umano sconcertante. Però mi filmarono in super 8, mi trasferirono in VHS, mi registrarono in DVD per avermi sempre a bella posta di qualcuno pronto a non guardarmi in modo ottuso. Se qualcuno avesse per caso scorso in me una sindrome come quella che io vedevo nel mio amico ligneo (intessuta da dettagli pittoreschi mutati dal folklore dell’immaginazione accademica o popolana), per quanti documenti avevo, potevo giustificarmi disinvolto. Non ero un semplice fenomeno di turbe, ero solo il frutto di un evento traumatico, tranquillamente capibile nell’ottica dell’altalena.
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Sottoponendomi ad un intollerante sovraccarico di espressioni emotive, quando mi riguardai la documentazione di tutta la mia attività motoria caotica verso l’incontrollato, mi sbalordii di me stesso, assoggettato ai mutamenti e ferito dal vedermi. Quasi a recuperare tutta la percezione di deformazioni e alterazioni delle mie immagini, nei 5 anni di sfasamento alla mia comprensione arrivato, prendevo e perdevo chili in base al giorno. Se grazie ad una specie di dialogo mi ritrovai a regredire dando sensazione illusoria di recuperare i ricordi, di essere arrendevole ad assumere valori e attese di chi parlava con me, in realtà era come se vivessi fuori di me, ero atterrito, colpito senza riparo sulla prima linea di difesa, dal brusco cambiamento esistenziale. La differenza tra il me a 23 anni e il me a 18 era un’insufficienza di 5, non recuperabile di botto. Catapultato al primordiale del normale più somigliante alla mia vita non ricordata, come un bambino nel mondo magico-animistico primitivo, mi ero comportato come un tredicenne tra lo stupido e l’assorto. Avevo un’idea di me che se da un canto fluttuava, come oggetto ondeggiato in alto, spersonalizzato, avvertito quasi estraneo, localizzabile lontano, dall’altro strideva di dati riscontrabili, evidenzianti me vicino al mio habitat fisico abituale ma lontano, con un che capace di mutare in modo ancor più drammatico e intuitivo la mia presenza nel paese che m’aveva visto crescere. Avevo antipatia di me quando fu così che mi presero delle paure incredibili riguardo ai fatti orribili del mio passato accaduto, ai resti delle azioni commesse, al mio istinto che si era dileguato senza dirmi niente. Dall’ansia in base al momento presi ad evitare strade, luoghi, situazioni, anche con lo sguardo ma senza cattive intenzioni. Il fatto di avere 18 anni invece di 23 mi pose il problema del controllo di me sfuggito a me stesso, da riprendere a tempo debito o da lasciare perso. Il pensiero del giudizio altrui sulla mia non esistenza da tredicenne mi ferì quasi a morte data quella che percepivo come una alterazione, come la bugia dell’assurdo, atipico o utopico, brutto. I fatti da me commessi bene, male, bene o male, erano spogli di ogni significanza reale. Sarebbero certo rimasti, riveduti in base all’altura della mia considerazione o dell’opinione delle altre persone in grado d’influenzarmi. Avrei ripercorso i rapporti con una memoria nuova, affidandomi ai cinque sensi, incontrando al dunque tutti problemi umani, diversi certo, ma tanto vicini ai miei.
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Ogni mia immagine ricorrente nella documentazione filmica ritraeva me nello spazio e nel tempo, a svolgere una vita uguale all’attuale mia, ma lo sfasamento non permetteva coincidenza tra lo starci di corpo e di testa. Io, nell’istante preciso in cui ero in un posto abituale pensavo di essere chissà quanto lontano o chissà dove, comunque in un luogo estraneo a me ed eccezionale. Invece ero quasi sempre lì, sul mio posticino. Quella che consideravo una pseudo casa era la mia casa. Tutte le persone incontrate e che mi erano sembrate nuove erano i vicini che mi avevano visto crescere, i compagni di scuola. Durante la mia assenza io c’ero stato sempre, ma non in coscienza. Mentre pensavo di essermi allontanato da casa per stare a fare affari con esplosioni e sale, oppure col ruvido e vernacolare attore ligneo, ero nel poderoso centro di salute dove inequivocabili dottori non vedevo guardingo. Pensavo di essere un uomo giovanissimo con delle forze in circolo verso il nuovo ed invece niente era diverso dal solito. Nel filmato era tutta la realtà ma nei miei ricordi c’era una estraneità a collegare tutti i fatti che sapevo considerare. Avevo notato l’inquinamento, ma non avevo considerato miei i luoghi in cui avveniva, avevo trovato un lavoro e guadagnato soldi ma senza vedere in faccia la gente, senza capire che ero in un laboratorio protetto. Avevo rispettato la legge a modo mio, immaginandomi una persona attiva e non un bambinone sorridente. Avevo fatto quasi tutto in un quartiere, spostando il sale che gli altri usavano per fare degli oggettini da rivendere all’uscita della messa, stando preferibilmente con un manichino che con gli altri. Il ritorno a casa abbinato con ciabatte e pigiama era figura di tutta la mia esistenza nell’incongruenza, da lasciare alle spalle. Ognuno capisce quando ci arriva che può capitare a tutti di sentirsi a ventitré anni pur essendo diciottenni, a trastullarsi in cose da tredicenni per lunghi momenti.
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Al fiume andavo con la motozappa trainante un carretto a caricare la rena, passata la piena. La rena sarebbe servita per innalzare il campo dietro casa, seppellire alcune cose, cancellare il timore incuneatosi nella mia mente: di essere niente di più di una entità zoo-morfica modellata da altri in base agli altari delle loro paure. Non ero più una persona fuori di tempo, non ero svenuto per il mio spavento. Mi stavo riprendendo da un grande sfasamento dilaniante. Accanto a dove caricavo c’era un pontiletto che oggi non risistemo, che andrebbe ripulito dai resti di altre piene che lo hanno reso inagibile. Attaccato ad esso un tofo, capace d’imprigionare i pesci di fiume. Sentendomi ancora presente in quel tempo del passato, da una bottiglia con tappo a corona, mi scolo un bel bicchiere d’acqua di falda, spruzzando, con la lingua tra i denti, l’acqua a getto in avanti. Con un po’ che me ne scivola giù per il collo, come reflui al lago, adesso che però so chi sono, che conosco chi mi sta vicino, qual è il mio lavoro, sorrido benevolo a quanto mi ha fatto soffrire. La foto della mia patente di guida, scattata poco tempo dopo il giorno di quel diciottesimo compleanno, non evoca rabbia, rancore. Mi suscita l’uscita da una tragedia della mia vita subita.
La vita è tutta un gemere finché non arriva una svolta.
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FRANCESCO
MASSINELLI
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Breve biografia
Mi chiamo Francesco Massinelli, ho 33 anni e vivo a perugia. Ho iniziato a scrivere durante il periodo di studio scolastico privilegiando l'attenzione verso quella demenzialità capace di sdrammatizzare e di far sorridere gli altri. Con il passare del tempo ho preferito sempre più adottare uno stile più criptico per nascondermi meglio dietro le parole e dar rilievo alle storie e ai personaggi, in una forma caricaturale.
Grazie al computer, alla possibilità di archiviare e far fotocopie dello stesso scritto, ho potuto far leggere le mie opere a tante persone.
Recentemente sono stato ancor più incoraggiato dagli amici ad avvicinarmi all'editoria specializzata.
Mia moglie pensa a trovarmi indirizzi, contatti, persone disposte a leggere e curare la pubblicazione di quanto ho sempre regalato.
I lettori rimangono colpiti dagli aspetti linguistici, più dalla forma che dal contenuto dei temi che sviluppo, dalla musicalità che riesce ad uscire anche da un racconto. Se non rimangono divertiti dalla mia genialità puerile sta di fatto che discettano sul mio modo di descrivere, che divide.
Professionalmente mi occupo di relazioni d'aiuto. Sono un assistente sociale e lavoro in una grande cooperativa. Vado al domicilio di persone seguite dal CIM o dai distretti socio-sanitari. Visto l'attuale orientamento umbro a strutturare tanti contratti part-time per distribuire meglio la disoccupazione non guadagno molto.
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