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Piero Strobino
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Per non dimenticare |
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PERSONAGGI – Ricordi di cinquant’anni fa
PRIGIONIERO
DEI TEDESCHI
La lunga odissea di Luigi Buffa di Cardé
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Luigi Buffa, cardettese purosangue
essendo nato nel nostro paese il 20 marzo del 1924, è stato,
suo malgrado, uno dei tanti protagonisti delle tristi e
drammatiche pagine della deportazione e della prigionia nella
Germania nazista. Della sua storia avevamo già fatto cenno in
primavera in un articolo che descriveva l’incontro che egli
aveva avuto con gli alunni della classe Vª elementare di Cardé.
Abbiamo allora pensato di conoscere più
a fondo questa triste avventura toccatagli andando a trovarlo
nella sua ordinatissima casa in via Salesea, dove abita con la
moglie Rita.Pur se piuttosto restio a parlarne, Luigi ha alla
fine ceduto alla nostra richiesta e, con la gentilezza che lo
contraddistingue, ha dato via libera ai ricordi: |
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«Il 25 novembre del 1942 –racconta
Luigi – fui chiamato alla visita di leva dal distretto di Chivasso
in quanto, a quel tempo, la mia famiglia si era trasferita a Robassomero. Dopo circa 6 mesi, precisamente il 14 maggio del 43,
fui destinato come “segnalatore con bandiera” al XVI° Reggimento
Fanteria di Cosenza, dove giunsi il 16 maggio. Proprio il giorno del
mio arrivo, il territorio di Cosenza fu dichiarato “territorio di
guerra” e, dopo 8 giorni, “territorio di operazioni”.
Il primo periodo fu di normale routine
(esercitazioni, marce, ecc…), poi verso la metà di agosto giunse
l’ordine di trasferimento per località ignota. Proprio in quei
giorni, però, mi ammalai di malaria e così, durante questo
trasferimento, un dottore ordinò il mio ricovero nell’ospedale
militare di Catanzaro, dove giunsi il 27 agosto. Avevo appena
lasciato la divisa e indossato il pigiama che sulla città si scatenò
un furioso bombardamento e il muro della sala dove mi trovavo
crollò.
Purtroppo Catanzaro pagò con un alto
tributo di vite umane quello che, in seguito, seppi essere il 1°
bombardamento sulla città calabrese che, ospedale compreso, restò 3
giorni senz’acqua con enormi disagi. Il 31 agosto – prosegue
Buffa – fui trasferito a Bari, prima in pullman poi su tradotte
che non erano altro che carri bestiame adattati alla bisogna. Della
gente di Bari, dove rimasi ricoverato all’ospedale “Balilla” fino al
6 settembre, conservo un bellissimo ricordo; infatti già al nostro
arrivo alla stazione ricevemmo la visita delle donne baresi che ci
donarono ogni genere di vettovaglie. Poi, quando di notte
immancabilmente suonava l’allarme e ci rifugiavamo negli scantinati
dell’ospedale, molti ragazzini si intrufolavano tra le grate che
davano sulla strada e venivano da noi per aiutarci; nel buio del
sottosuolo consegnavamo loro del denaro per l’acquisto di generi
alimentari che poi, puntualmente ci portavano. Ebbene, mai che fosse
mancato qualcosa, oppure che avessero accettato soldi in regalo.
Eppure chissà quanta miseria e quanta fame dovevano sopportare anche
loro!»
Qui Luigi Buffa ha un attimo di commozione, ma
poi riprende a raccontare: «Il 6 settembre ci imbarcarono sulla
nave ospedale “ Gradisca” (che ricordo dotata di ogni confort) e
salpammo alla volta di Venezia dove giungemmo l’8 settembre. Da qui
salimmo su un treno diretto a Salsomaggiore e durante il viaggio
sapemmo dell’armistizio. Nella città termale rimanemmo 4 giorni nel
caos più assoluto, finché decidemmo di scappare; tra mille peripezie
riuscii infine ad arrivare a casa a Robassomero dove, finalmente,
potei curarmi. Verso la fine di marzo del 44 decisi di venire a
passare un po’ di tempo a Cardé in visita alla nonna e agli zii, ma
l’11 agosto, mentre alla Cascina Nuova di proprietà delle famiglie
Buffa e Ardusso ero intento alla trebbiatura del grano, fui
catturato, con altri 4 giovani di Cardé, dalle brigate nere “Ettore
Muti”. Nel rastrellamento di quel giorno, almeno una quindicina di
giovani cardettesi caddero nelle grinfie fasciste ma tutti,
fortunatamente, tornammo a casa dopo la Liberazione. Comunque nel
giro di una settimana ci trasferirono prima a Savigliano, poi a Bra
e infine alle casermette di Torino.
Il 18 agosto ci caricarono su dei vagoni
bestiame e dopo 3 giorni di viaggio allucinante arrivammo a
Mauthausen. Ma qui, per un improvviso contrordine, ci fermammo non
più di 3-4 ore. I tedeschi ci “rifocillarono” con una brodaglia
scura poi ci rimisero sulla tradotta diretta a Linz, dove c’era un
campo di smistamento. Secondo voci che circolavano colà, la nostra
futura destinazione avrebbe dovuto essere un’imprecisata zona della
Russia per preparare fosse anticarro. Ma la travolgente avanzata
dell’esercito russo scombussolò i piani dei tedeschi e così, dopo
circa una settimana, fummo divisi e mandati in campi di lavoro. A me
toccò la fabbrica Kirchner & Co.A.G di Lipsia dove trovai altri
connazionali arrivati lì, subito dopo l’8 settembre».
A questo punto Luigi esibisce un libretto di
lavoro in lingua tedesca che vedete nella foto, conservato in
perfetto stato nel cassetto dei ricordi assieme alla Croce per
meriti di guerra e al “passaporto per l’inferno” come lui lo chiama.
«Con noi – riprende a raccontare Luigi
– oltre a qualche civile tedesco, c’erano prigionieri francesi,
russi e ucraini. Non eravamo trattati troppo male perché quella era
una fabbrica all’avanguardia, ma il vitto era comunque scarso e la
fame tanta. Io ero in un reparto con tre civili tedeschi coi quali,
tutto sommato, andavo d’accordo anche se compresi subito che era
“verboten” parlare di politica. Noi prigionieri vivevamo giorno e
notte all’interno della fabbrica anche se, ogni tanto, disponevamo
di permessi per uscire. Certo la nostra vita correva sempre sul filo
del rasoio sia per i continui bombardamenti (il più terrificante si
verificò il 27 febbraio e durò circa 3 ore), sia per l’effettiva
precarietà del nostro status di prigionieri. Che il giorno della
Liberazione fosse ormai vicino ce lo dicevano le continue incursioni
aeree senza più allarmi e il grosso movimento di profughi da Est
verso Ovest. Il 18 aprile, finalmente, l’incubò finì con l’arrivo
degli americani. Ma ci volle ancora più di un mese, fino al 2
giugno, per poter iniziare il viaggio verso casa. Dieci giorni di
peripezie affrontate, però, con gioia. Ad esempio ricordo che subito
dopo Milano ci fermammo in un cascinale dove i proprietari ci
offrirono latte a volontà (ci eravamo persin dimenticati che gusto
avesse!) e che al posto di ristoro della stazione Dora di Torino
molte donne (mogli o madri) ci chiedevano notizie dei loro cari;
purtroppo a loro non sapemmo dare risposta!»
Tantissimi sono gli episodi che Luigi Buffa,
direttamente o indirettamente ha vissuto durante la sua odissea;
alcuni di solidarietà e altruismo, altri di violenza o addirittura
di atrocità. Ma anche accennando a questi ultimi, mai dalla sua voce
è trasparso rancore o odio. Tanta serenità d’animo, che si può
cogliere scorrendo le righe di questo racconto, gli viene dalla
fede, rafforzata da un episodio accadutogli in quei tristi
giorni, che Luigi ha voluto raccontarci per chiudere la sua storia.
«Proprio in un periodo in cui il morale era
a terra, venni a sapere che lì vicino c’era una chiesa cattolica.
Così alla prima domenica libera ci andai, mi confessai e, pur con
tutte le difficoltà comportate dalla lingua, riuscii a farmi capire
e ad ottenere l’assoluzione. Mentre pregavo alzai gli occhi e vidi
una statua della Madonna. Quell’immagine così dolce che da tempo non
vedevo più, suscitò in me qualcosa di indefinibile, come un senso di
pace interiore; da quel momento mi sentii più sollevato, più sereno
e affrontai tutte le traversie con animo diverso. Fu un aiuto
determinante per resistere fino alla fine!».
La Fede come sollievo alle sofferenze, la Fede
come antidoto alle efferatezze umane.
piero strobino |
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CORRIERE di SALUZZO |
Venerdì 15
settembre 1995 |
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L’odissea di Giovanni Capellino
di Cardé, prigioniero dei tedeschi
che riuscì a fuggire dal campo
di concentramento.
DACHAU: IN
FUGA VERSO LA LIBERTA'
Ci stiamo avvicinando al IV novembre ed anche
quest’anno, come sempre, Cardé commemorerà i suoi caduti di tutte le
guerre. Molti di questi erano partigiani. Indagando fra quei
combattenti per la libertà che sono ancora in vita, raccogliendo le
loro storie riesumate dai meandri della memoria, una ci è parsa
particolarmente significativa, emblematica. É l’odissea vissuta
durante quei tristi giorni di guerra dal Cavaliere della Repubblica
Giovanni Capellino di Cardé, ex partigiano ed ex internato a Dachau.
Prima di raccontarci la sua storia, Giovanni ci mostra con orgoglio
tre pergamene: nella prima, datata 25 aprile 1945 e firmata da sei
comandanti dei Comitati di Liberazione fra cui Ferruccio Parri, sta
scritto: “Corpo volontari della libertà – Brevetto di Partigiano
– Capellino Giovanni – Combatté per la libertà nella guerra
partigiana che arse sui monti, nei piani, nelle città d’Italia
contro i nemici dell’umanità ed alla Patria”; la seconda è il
diploma di deportato politico non collaborazionista; la terza fa
riferimento alla croce al merito di guerra conferitogli nel 1977.
«A quei tempi – inizia a
raccontare Capellino – per noi giovani di leva non c’erano
alternative: o si andava militari, oppure si sceglieva la lotta
partigiana, anche perché chi non voleva partire soldato veniva
ugualmente arrestato e deportato. Quindi, dopo l’8 settembre del
’43, inizio della guerra di liberazione, noi giovani cardettesi,
seguendo il nostro ideale di libertà, sentimmo il dovere di
partecipare a questa lotta ed entrammo nelle formazioni partigiane
nel giugno del ’44. L’undici agosto delle stesso anno, a Cardé ci fu
un grande rastrellamento, in quanto i fascisti della Xª Mas erano
venuti in possesso di documenti nei quali figuravano anche i nostri
nomi. Mia madre, attorno alle 4,30 – 5 del mattino, sentì del
movimento in paese e capì immediatamente di cosa si trattasse.
Allora mi svegliò ed io riuscii a fuggire tra la “gora” che c’era
davanti a casa mia. Avevo fatto appena 50 mt. quando, voltandomi,
scorsi tra i filari che la casa era già tutta circondata. A carponi,
attraversando anche la bealera del mulino, mi portai dietro alla
cascina “Era” e mi acquattati nel campo piantato a mais, mentre dal
paese sentivo provenire l’eco degli spari. Attorno alle 9 sentii la
voce di mia sorella che mi implorava di ritornare perché,
altrimenti, avrebbero fucilato nostro padre. Non avevo scelta; così
mi recai in paese presentandomi al cospetto dei fascisti e qui
trovai due miei compagni: Aldo Chiarofonte e Antonio Mottura. Da
quel momento ebbe inizio il mio calvario. Dopo aver subito percosse,
umiliazioni e paura (ci sparavano, sghignazzando, da un metro coi
mitra facendoci sibilare le pallottole fra i capelli), verso le 11
il rastrellamento finì con la deportazione immediata in Germania di
21 giovani renitenti di leva, mentre noi fummo trasportati in
carcere a Savigliano dove subimmo torture di ogni tipo, di giorno,
di notte, quando capitava, a piacere dei nostri aguzzini (mi ricordo
di un tenente il quale, tutte le volte che passavamo sotto le sue
finestre, ci sputava addosso dileggiandoci).
Dopo alcuni giorni venni a sapere
della fucilazione di Antonio Mottura, avvenuta a San Bernardo di
Monteu Roero. L’8 settembre, giorno della fiera della “Salesea”,
festa di Cardé, alle 6 del mattino si aprì la porta della prigione e
venne fatto il mio nome; pensai fosse giunta la mia ora ed invece mi
caricarono su un autocarro e venni trasferito a Cuneo in mano ai
tedeschi. Mi trattennero tre giorni poi mi portarono a Torino in un
campo di concentramento dove venivano formate le tradotte per la
Germania.
Qui ritrovai Tommaso Vaira, mio
compaesano, ed altri conoscenti. Questo incontro mi risollevò un po’
il morale, perché riavere degli amici vicino mi era di grande
conforto. Purtroppo, dopo qualche giorno, ci raggiunse la notizia
della morte di Aldo Chiarofonte, avvenuta per fucilazione a
Savigliano in piazza Santarosa, dove c’é tutt’ora una lapide.
Verso il 20-25 settembre, partimmo
per la Germania, stipati in vagoni bestiame sporchi, senza servizi
igienici, con addosso i soli vestiti che avevamo al momento della
cattura; ogni tanto facevamo qualche sosta per i bisogni corporali
sotto la minaccia delle armi. Dopo 8-9 giorni (ne erano stati
previsti tre...) di viaggio allucinante tra bombardamenti e
sofferenze inenarrabili, giungemmo a Innsbruch, in Austria, dove
fummo divisi in tre scaglioni. Il nostro scaglione fu mandato a
Dachau in un campo di sterminio KZ, mentre degli altri due non
sapemmo più nulla.
A Dachau capimmo subito che razza di
vita, se tale si poteva chiamare, ci aspettava. Comunque essere
insieme a Tommaso Vaira era già motivo di soddisfazione, in quanto
potevamo parlare e farci vicendevolmente coraggio, perché proprio di
farci coraggio avevamo bisogno più di ogni altra cosa per sopportare
la fame che ci attanagliava lo stomaco, i pidocchi che ci
tormentavano e tutte le brutture che quel luogo di morte
giornalmente ci riservava. Purtroppo, passati 6-7 giorni, ci
divisero e così anche quell’unico sostegno morale venne a mancare.
Bene o male riuscii comunque a sopravvivere al terribile inverno
bavarese e verso la fine di marzo del ’45 fui portato, insieme ad
altri, a Monaco di Baviera per rimuovere le macerie causate dalle
bombe alleate.
L’ennesima incursione aerea (negli
ultimi giorni della guerra erano particolarmente intense) ci colse
per strada intenti a lavorare e, nel trambusto che ne seguì,
riuscimmo a fuggire in undici. Trovammo accoglienza in casa di una
vedova della guerra ’15-’18 che ci donò gli abiti dei suoi sette
figli dei quali, ci raccontò, cinque erano morti e due dispersi. Era
una donna distrutta sia fisicamente che moralmente dalla guerra e
l’unica ragione di vita rimastale era quella di aiutare chi, come
noi, gli ricordava i suoi figli. Indossati i vestiti iniziammo la
nostra fuga verso casa, camminando sia di giorno che di notte,
dormendo nei boschi o in qualche cascinale, sempre con la paura che
qualcuno ci tradisse e venissimo ripresi. Ma per fortuna tutto andò
bene ed il giorno della Liberazione, il 25 aprile, ci colse a
Chiari, un paesino tra Brescia e Milano, dove dormimmo tutta la
notte sotto il porticato di una cappelletta vicino alla strada. Man
mano che ci avvicinavamo a casa, venivamo informati della fine della
guerra. Ringraziando Dio, potevamo dire di averla scampata, pur tra
le terribili vicissitudini descritte.
A Cardé giunsi il 4 maggio, dopo una
sosta a Torino in casa di una zia, dove venne a prendermi mio padre,
col quale feci il viaggio di ritorno in bicicletta.
Il racconto di Giovanni sembra finito, ma lui
ha ancora qualcosa da aggiungere.
«Nonostante tutte le sofferenze
patite – dice con amarezza mista a rabbia – fummo ancora
costretti, come “paga”, a versare i cosiddetti profitti di guerra,
una sorta di tassa che pagavano coloro segnalati come non
danneggiati dalla guerra e che, pertanto, avevano potuto continuare
l’attività! (Giovanni Capellino è proprietario di una
falegnameria, già attiva a quei tempi ndr). In più mi fu negata
la pensione spettante per legge a tutti coloro che erano stati
internati nei campi di sterminio KZ perché non potevo fornire alcun
documento accertativo, essendomene liberato nella fuga per non
essere scoperto. Forse che per averla dovevo restare là e magari
passare per i forni?...».
Con questa amara considerazione di chi
si sente tradito da una Patria per la quale aveva dato tutto se
stesso, si chiude la storia di Giovanni Capellino, una storia come
chissà quante altre in Italia, una storia finita bene, se vogliamo,
ma che deve far riflettere, meditare, servire da esempio per le
nuove generazioni affinché sappiano opporsi con tutte le loro forze
a quelle immani catastrofi che sono le guerre, anche se, guardando
ai nostri giorni, sembra proprio, purtroppo, che la lezione non sia
servita a nulla.
piero strobino |
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CORRIERE di SALUZZO |
Venerdì
25
ottobre 1991 |
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Tomaso Vaira di Cardé ci ha
raccontato la sua odissea,
negli anni che vanno dal 1942
al 1945, tra torture e lager.
" DIO
MI HA REGALATO 50 ANNI "
CARDÉ -
«Per descrivere tutto quanto mi è successo in quei
tre anni, non basterebbero le pagine di un libro». Queste sono
state le prime parole che Tomaso Vaira ci ha detto quando, bussando
alla porta di casa sua alcuni giorni fa, gli chiedemmo di
raccontarci la terribile odissea da lui vissuta tra il 1942 ed il
1945. Tomaso nel 1942 aveva solo 19 anni (è nato a Cardé il 16
gennaio 1923) e fin dalla prima infanzia e poi nell’adolescenza,
d’altro non aveva sentito parlare se non di guerre e di conquiste in
terra straniera. Perciò, quando gli pervenne la cartolina di
precetto, la considerò come la logica conclusione di quanto aveva
sentito. Ora i suoi ricordi sono nitidi e le parole scorrono veloci.
«Il 2 ed il 3 settembre del 42, mentre ero
da garzone alla cascina “dla Renza” a None, ricevetti una lettera di
mia madre dove mi si diceva che il 18 settembre sarei dovuto partire
militare e presentarmi al distretto di Cuneo. Qui fui arruolato
negli Alpini e destinato al Battaglione Saluzzo; rimasi tre mesi a
Cuneo e poi due mesi a Peveragno dove, appena giunti, ci
consegnarono la dotazione per andare in Russia. Gli ordini furono
però revocati perché, nel frattempo, subimmo la disastrosa ritirata
del Don. Ci spedirono allora ai campi invernali a Limone (15
giorni), poi a Beinette da dove partimmo per destinazione ignota che
scoprimmo essere la Jugoslavia quando arrivammo a Piedibucca; subito
dopo fummo trasferiti a Gracosia nelle vicinanze del Monte Nero. Qui
combattemmo per otto mesi in condizioni di perenne “massima
all’erta” (ricordo che i primi tre mesi non ci togliemmo mai di
dosso né scarpe, né abiti!). Con me c’erano altri 4 cardettesi:
Felice Audisio, Natale Peirano, Gervaso Setto e Stefano Bori, il
quale, la prima notte fu subito ferito mentre montava di guardia.
Ricordo anche Mario Pansa di Lagnasco col quale stringo ancora oggi
un’affettuosa amicizia. Ad agosto del 43 giunse il 9° Reggimento
Alpini a darci il cambio e, quando arrivati a Verona pensammo già di
tornare a casa, la tradotta che ci trasportava girò invece verso
nord e ci condusse fino al Brennero, ad Ora sull’Adige. Qui, dopo 22
giorni di esercitazioni, ci colse l’8 settembre. Il nostro
Comandante, il Maggiore Fabbri, subodorando quello che poteva
succedere, non ci lasciò dormire in tenda e mai decisione fu più
accorta; infatti, nella notte, i tedeschi, fino ad allora nostri
alleati, ci attaccarono violentemente ed uccisero otto dei nostri.
Non potevamo difenderci per l’esiguità e la precarietà delle nostre
armi e così cercammo la fuga, ma molti furono fatti prigionieri. Io
fui tra quelli che riuscirono a fuggire: camminammo per tre giorni
passando per la Val di Fiemme e la Val Sugana e, tra mille
peripezie, giungemmo a Bassano del Grappa dove una donna e sua
figlia (altri due figli erano anch’essi militari) ci ospitarono in
casa, ci rifocillarono con polenta e latte e ci fornirono di abiti
borghesi. Il giorno dopo ci rimettemmo in cammino (con me c’erano
anche i cardettesi Michele Borgogno e Giuseppe Audisio, oggi
emigrato in Francia) e dopo dieci giorni arrivammo a Milano
attraversando l’Adige in barca, ospiti di un barcaiolo, essendo
impossibilitati a passare sui ponti, tutti occupati dai tedeschi. A
Milano dormimmo nascosti in un fienile in compagnia di tre inglesi
anch’essi sbandati come noi. All’alba ci alzammo e, dopo aver
compiuto un largo giro per evitare i tedeschi, riuscimmo a salire su
un treno diretto a Cuneo che passava da un paesino nei pressi di
Milano e di cui non ricordo il nome.
Giunti a Bra, sfuggimmo miracolosamente ad
una perquisizione tedesca quando ormai eravamo rassegnati ad essere
catturati. Sempre in treno raggiungemmo Moretta e poi, a piedi, ci
avviammo verso Cardé. Ma i tedeschi erano in agguato e solo per
caso, riuscendo a scorgerli da lontano, non cademmo nelle loro mani.
Comunque a Cardé la vita per noi,
considerati renitenti alla leva, non era certamente tranquilla; i
tedeschi e le brigate nere operavano frequenti rastrellamenti ed in
quei frangenti non mi restava altro che scappare e nascondermi.
Per sbarcare il lunario andavo a lavorare
un po’ ovunque, dove c’era bisogno di braccia forti.
Non ero ancora entrato nella lotta
partigiana ma avevo già avuto dei contatti e forse questo mi fu
fatale. Il 18 agosto del 44, mentre aiutavo a mietere il grano nella
cascina Rosso di Staffarda, fui catturato dalle brigate nere della
Xª Mas di Savigliano, probabilmente mandate da alcune spie
cardettesi di cui, nel rispetto di quell’umanità che loro non
avevano, non faccio il nome.
piero strobino
(1 – continua) |
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CORRIERE di SALUZZO |
Venerdì
29 ottobre 1993 |
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Tomaso Vaira di Cardé ci ha
raccontato la sua odissea,
negli anni che vanno dal 1942
al 1945, tra torture e lager
" DIO
MI HA REGALATO 50 ANNI "
Tomaso Vaira riprende il suo racconto.
«Con me furono presi Natale Peirano,
Alessandro Appendino (poi fucilati) e Giulio Becchero; ci portarono
nel chiostro dell’Abbazia, ci legarono come salami e ci picchiarono
senza pietà (Tomaso porta ancora oggi i segni di quelle
sevizie). Poi mi portarono via da solo fino alla Cascinasse dove
mi furono inflitte altre sevizie; dicevo loro “ se mi sapete
colpevole fucilatemi”; “è troppo bello morire fucilati” era la
risposta dei miei aguzzini. Presi tante botte finché non svenni. Mi
svegliai in prigione a Savigliano, dove incontrai il compaesano
Giovanni Capellino, il quale nemmeno mi riconobbe tanto ero ridotto
male, col viso gonfio, tumefatto e tutto bruciacchiato come anche
altre parti del corpo. Qui rimasi 19 giorni durante i quali mi
veniva metodicamente somministrata una razione di botte; solo
l’intervento del Vicario di Revello, don Lerda, che testimoniò a
nostro favore sul fatto che non eravamo partigiani, pose fine a
quelle terribili torture. Con Becchero venni trasferito a Torino
dove rimasi 8 giorni; poi, alle due di notte, mi caricarono su una
tradotta diretta a Dakau dove giungemmo dopo 12 giorni di viaggio
allucinante, in condizioni di una disumanità inenarrabile. Con me
c’era Giovanni Capellino. A Dakau mangiavamo solo una brodaglia
nauseabonda di rape con un po’ di pane raffermo quando c’era.»
Qui Tomaso Vaira ha come un blocco mentale,
quasi che la sua mente si rifiutasse di ricordare i giorni trascorsi
in quel luogo di morte. Poi, stimolato, riprende il suo racconto.
«Durante la prigionia ci fu offerto varie
volte di entrare a far parte della Repubblica Sociale, ma rifiutammo
compatti (a questo punto Tomaso si interrompe per mostrarci
l’attestato dove gli viene riconosciuto il suo rifiuto). Dopo tre
mesi – continua Tomaso - fui portato al centro di smistamento
dei prigionieri italiani e da qui destinato a Monaco di Baviera a
lavorare nella Fonderia Kustermann. Nel nuovo campo di
concentramento dove passavo le ore fuori dalla Fonderia, non è che
le cose dal punto di vista alimentare fossero migliori; inoltre
persi la compagnia del mio amico Capellino destinato in altra sede.
Mi ricordo che la prima notte, messo in una baracca assieme a tutti
prigionieri russi, la passai piangendo disperatamente in quanto mi
sentivo per la prima volta veramente solo e abbandonato. Poi, dopo
due giorni, saputo che in un’altra baracca c’erano solo italiani,
tra cui l’amico Mario Peone di Bibiana, con l’aiuto di un francese
che faceva da interprete, presi i miei quattro stracci ed il
pagliericcio pieno di pidocchi e mi trasferii con loro; mi sembrò
già di toccare il cielo con un dito! Alla Kustermann lavoravo con
soli russi, francesi e civili tedeschi, tutto il giorno (o la notte,
a seconda dei turni) senza mai scambiare una parola. Quando suonava
l’allarme scappavamo nel rifugio ma, mentre i tedeschi se ne stavano
accovacciati tranquilli, a noi prigionieri toccava girare la ruota
che alimentava il generatore; quindi una fatica supplementare. Devo
però dire che uno dei tedeschi che lavorava con me nel turno di
notte, mi offriva di nascosto un po’ del suo pasto e questo gesto di
umanità mi apriva il cuore alla speranza. I giorni ed i mesi
scorrevano lenti e le forze cominciavano a venire meno; poi il 25
aprile del 45, alla fine della giornata lavorativa (avevamo già
notato qualcosa di strano nel comportamento dei sorveglianti), andai
nei gabinetti e notai in terra un nugolo di mostrine tedesche; “é
finita” disse esultante Angelo Monticone di Poirino e ci dirigemmo
verso il campo di concentramento. Qui però era già tutto deserto; i
tedeschi erano scappati tutti. Prendemmo i nostri quattro stracci ed
iniziammo a piedi il nostro viaggio di ritorno. Per almeno tre
giorni e tre notti camminammo senza soste e senza toccare cibo; ci
accontentammo di bere un po’ d’acqua da qualche risorgiva. Arrivammo
ad Innsbruck in Austria e qui ci fermammo a dormire alla stazione in
un vagone ferroviario. Dopo un altro giorno di cammino giungemmo al
Brennero, in mezzo ad una tormenta di neve. Qui un abitante del
posto ci ospitò nella sua casa e la moglie ci preparò un delizioso
risotto. Ci sembrava di rivivere. Il giorno dopo arrivammo a Bolzano
dove operava la Croce Rossa; ci rifocillarono con una pastasciutta,
formaggio ed una pagnotta di pane. Da quanto tempo non vedevamo più
il pane! Non osavamo nemmeno toccarlo, ci pareva una reliquia! Nel
frattempo i tedeschi in ritirata cercavano di fare terra bruciata e
noi, per sfuggire ai rastrellamenti, quel pomeriggio lo passammo
nascondendoci nelle buche provocate dalle bombe alleate. Nel ritorno
ripassammo da Ora e feci vedere a Mario Peone dove mi trovavo la
sera dell8 settembre. Proseguimmo a piedi fino a Novara dove la
Croce Rossa voleva metterci in quarantena. Ci rifiutammo e allora a
me ed a Mario dettero 200 lire a testa, un paio di scarpe e due
maglie e fummo ospitati nel Vescovado e trattati con tutti gli
onori. Da quanto tempo non dormivamo in un letto! Era il Paradiso!
Alle 4 del mattino ci alzammo e partimmo su un camioncino alla volta
di Torino dove arrivammo attorno alle 9 a Porta Palazzo. Ricordo che
questo camioncino funzionava a legna come un treno a vapore. Da
Porta Palazzo ci recammo in c.so Stupinigi e salimmo sul tranvai che
ci portò a Moretta e da qui, a piedi, a Cardé dove c’era mezzo paese
ad aspettarci, avvisato da un amico arrivato il giorno prima.
Da questo momento è iniziata la mia seconda
vita; quella che Dio ha voluto regalarmi in più!».
Quanti altri episodi ci ha raccontato Tomaso!
Alcuni raccapriccianti legati alla cattura a Staffarda ed al periodo
dei lager, altri allegri dell’immediato dopo ritorno a casa.
Durante il suo racconto abbiamo vissuto con
lui momenti di intensa commozione e vorremmo che molti giovani che
oggi snobbano certi periodi della nostra storia, avessero
l’opportunità di ascoltare queste testimonianze e fermarsi a
meditare.
piero strobino
(2 - fine) |
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CORRIERE di SALUZZO |
Venerdì
5 novembre 1993 |
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L’eccidio dei F.lli Ennio e Ettore Carando e di Leo Lanfranco
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COMMEMORATI I PARTIGIANI
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Nell’ambito delle
manifestazioni per il 60° anniversario della Liberazione, sabato
mattina, sotto l’ala comunale di Villafranca è stato commemorato il
sacrificio dei partigiani Leo Lanfranco e Ennio e Ettore Carando,
caduti il 5 febbraio 1945 sotto il piombo fascista. Alla cerimonia
di commemorazione, introdotta dal sindaco Agostino Bottano, sono
intervenuti, Claudio Lacertosa, assessore ai rapporti con le
associazioni combattentistiche del Comune di Bra, paese natale dei
fratelli Carando, l’ex staffetta partigiana Maria Airaudo di Luserna
S. Giovanni in rappresentanza del Comitato Intercomunale per la
valorizzazione del patrimonio della Resistenza e dell’Anpi
provinciale di Torino e il Dirigente Scolastico di Villafranca
Domenico Vanzetti con alcuni alunni della 3ª media. Erano inoltre
presenti alcuni familiari dei partigiani caduti e i rappresentanti
dei paesi facenti parte del succitato Comitato. Ma aldilà della
commemorazione e dei discorsi ufficiali, abbiamo voluto onorare i 3
partigiani caduti riportando il racconto di Quirico Costamagna,
testimone oculare dell’eccidio. «Non avevo ancora 10 anni e mi
trovavo a passare vicino all’ala con un amico di un anno più giovane
di me – racconta commosso Costamagna – I repubblichini ci
hanno fermati e praticamente ci hanno costretti ad assistere
all’esecuzione. Ricordo perfettamente che ad un certo punto, mentre
i 3 partigiani inneggiavano alla Patria libera gridando “Viva
l’Italia libera”, un uomo di bassa statura, che poi seppi essere il
famigerato comandante Novena, autore di ogni genere di nefandezze
nella zona del pinerolese, si staccò gruppo dei repubblichini e con
una mitraglietta sparò ai partigiani da distanza ravvicinata
all’altezza della loro bocca, quasi come a voler troncare quell’eroico
grido di libertà, quel gesto di estremo coraggio. Dopo l’esecuzione
i resti dei poveri partigiani furono fatti sfilare su un carro per
le vie di Villafranca. Passò poco tempo e il Novena fu catturato e
mostrato alla gente infuriata dal balcone della caserma dei
Carabinieri, che lo salvarono dal linciaggio. Pochi anni dopo, io e
mio padre passeggiavamo in C.so Vittorio Emanuele a Torino quando
incrociammo una persona dal viso noto. «Lo hai visto?- domandò mio
padre – È il Novena, quello che massacrò Leo Lanfranco e i fratelli
Carando.
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Te lo
ricordi? Ora è già fuori di galera!”. Certo che lo
ricordavo, sono cose che non dimenticherò mai, soprattutto oggi che
si sta vergognosamente tentando di ribaltare la storia. Ma esiste
una verità e una differenza sostanziale che nemmeno il più becero
tentativo di revisionismo storico potrà mai confutare – conclude
con rabbia Costamagna – Mentre i partigiani combattevano per
liberare l’Italia dal giogo nazifascista e quindi contro gli
oppressori, i repubblichini fascisti combattevano per mantenere
questo giogo e quindi con gli oppressori!».
Nella foto i familiari dei fratelli Carando.
piero strobino
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CORRIERE di SALUZZO |
Venerdì,
11 febbraio 2005 |
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Un concorso scolastico per ricordare il sacrificio dei
villafranchesi
LA
RESISTENZA NELLE SCUOLE
Gran bella
manifestazione, quella tenutasi sabato mattina nella gremitissima
aula magna delle scuole medie di Villafranca per ricordare il
sacrificio dei partigiani Leo Lanfranco e Ennio e Ettore Carando
trucidati dai fascisti il 5 febbraio 1945, manifestazione
organizzata dal Comune e dall’Istituto Comprensivo di Villafranca
nell’ambito del concorso “Costruisci un pensiero di pace”,
indetto dal Comitato Intercomunale per la Valorizzazione del
Patrimonio della Resistenza, di cui Villafranca fa parte, che
verteva su due temi: la seconda guerra mondiale con tutte le su
tragiche conseguenze e la strage di Beslan. Introdotti dal sindaco
Agostino Bottano e dall’assessore alla cultura Elisa Airaudo, hanno
preso la parola il prof. Livio Berardo, presidente dell’Istituto
Storico della Resistenza di Cuneo, il dott. Paolo Groppo di
Villafranca, laureatosi proprio con una tesi, “La Resistenza
sommersa”, su questo eccidio, il sig. Quirico Costamagna, la cui
testimonianza diretta di quell’efferato evento è stata pubblicata
sul Corriere della scorsa settimana, la sig.ra Maria Airaudo
di Luserna S. Giovanni, ex staffetta partigiana, e il dott. Claudio
Lacertosa, assessore del Comune di Bra, paese natìo dei F.lli
Carando. Il prof. Berardo ha tenuto una vera e propria lezione di
storia del periodo fascista in generale, soffermandosi poi sul
particolare della ferocia di Spirito Novena, il capo fascista autore
dell’eccidio e di altri terribili crimini di guerra: «Il Novena
si faceva accompagnare da suo figlio, un ragazzo della vostra età,
al quale prima insegnò a sparare e poi a uccidere diversi
partigiani. Ebbene, Novena scampò a quelle vendette che, non si può
negare, ci furono, ma non in modo così generalizzato come oggi ce le
vogliono far apparire». Il dott. Groppo, nel suo appassionato
intervento ha ricordato episodi poco conosciuti della storia di
Villafranca di quel periodo, concludendo: «Siate fieri di essere
villafranchesi, perché Villafranca ha dato molto per poter
riconquistare la libertà!». Maria Airaudo ha raccontato con
commozione la sua esperienza di partigiana e ricordato l’eccidio di
Villar Bagnolo del 30 dicembre 1943 (22 morti) e altri episodi
locali. Il dott.. Claudio Lacertosa ha tracciato un ritratto della
figura di Ennio Carando, professore di filosofia, e di suo padre
Achille Carando, primo sindaco della Bra libera, ribadendo a sua
volta come «il tentativo di revisionismo storico in atto non
abbia nulla a che fare con la verità».
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Il Dirigente Scolastico
di Villafranca, prof. Domenico Vanzetti, ha poi chiamato i 72
alunni, dalla 5ª elementare e alla IIª e IIIª media, che hanno
aderito al concorso, facendo leggere alcuni dei loro testi.
Ritenendo fosse il modo migliore per farlo chiudiamo
l’articolo proponendo proprio uno di questi bellissimi
pensieri, quello di Elisa Nicola, 3ª A: “Vorrei poter volare per osservare il mondo
dall’alto e sentirmi libera. Vorrei che il mondo cambiasse, vorrei
vederlo migliore, perché abbasso lo sguardo e scorgo solo dolore.
Vorrei che avessimo tutti occhi uguali per non notare differenze.
Vorrei poter fare miracoli, ma ho solo un cuore colmo di speranze!!”.
Riflettiamo… |
Nella foto un momento
della manifestazione. |
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piero strobino |
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CORRIERE di SALUZZO |
Venerdì, 8
febbraio 2005 |
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L’EREDITÁ DI PRONINO
PRIMO
SINDACO DEL DOPOGUERRA DI VILLAFRANCA
P.TE
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Nel corso della
celebrazione del 25 Aprile, il sindaco di Villafranca Agostino
Bottano ha annunciato che, in un nuovo quartiere di Villafranca,
verrà intitolata una via a Lorenzo Pronino, partigiano e poi primo
sindaco della Villafranca libera. Abbiamo voluto ricordare la figura
di Lorenzo Pronino attraverso il ricordo che di lui ci ha tracciato
il figlio Bartolomeo, detto Nino, consigliere di maggioranza. «Mio
papà nacque a Villafranca nel 1897 – racconta Nino Pronino -
Diplomatosi al Liceo di Carmagnola, prese poi parte alla 1ª guerra
mondiale nonostante facesse parte della corrente antiinterventista.
Al ritorno, partecipò alla vita pubblica villafranchese come
consigliere socialista fino all’avvento del fascismo. Convinto
antifascista, con un gruppo di amici di tutti i ceti sociali
organizzò, in clandestinità, l’associazione “Italia Libera”.
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Nonostante la clandestinità i gerarchi fascisti ne vennero a
conoscenza e quando qualcuno di loro veniva a Villafranca, mio papà
finiva regolarmente in carcere a Cavour. La costante persecuzione
della dittatura gli precluse sia gli studi da farmacista che
qualsiasi opportunità di lavoro. Per sopravvivere e mantenerci (Nino
ha un fratello, Cesare ndr) esercitava qualche lavoretto, tra cui
il pescatore. Dopo l’8 settembre, con l’altro socialista Vito
Pifferi, il rappresentante dei cattolici Giovanni Qualgia, il
liberale Carlo Gilli e il comunista Giuseppe Chiocchia, organizzò il
CLN di Villafranca di cui divenne presidente e creò il nucleo di
collegamento tra la montagna (Valli Po e Varaita) e la pianura.
Ricordo (Nino a quel tempo aveva 14 anni ndr) che spesso
a casa mia si riunivano personaggi come Pompeo Colajanni, il mitico
comandante “Barbato”, Antonio Giolitti e Giuliano Comollo
(“Pietro”), commissario della Brigata Garibaldi del Montoso.
Ospitammo anche il prof. Carlo Maiorca, che dopo la Liberazione
diventò vicesindaco di Torino, e due Levi che poi ripararono in
Francia con l’aiuto dei pescatori villafranchesi e dei partigiani
cuneesi. Braccato dalle brigate nere - continua Nino
Pronino, che non riesce a trattenere la commozione – mio papà si
rifugiò presso la famiglia di Giorgio Druetta che gestiva la cantina
della frazione Mottura. Ogni settimana, percorrendo vie secondarie,
si recava in bicicletta a Torino a tenere riunioni clandestine.
Tradito da una donna villafranchese, fu catturato e rinchiuso alle
Nuove da dove fu liberato grazie ad uno scambio con un prigioniero
tedesco trattato dal comandante Barbato. Dovette però rimanere a
Torino con l’obbligo di firma giornaliera. Riuscì comunque ad
arrivare a casa poco prima della Liberazione e in seguito fu eletto
sindaco.
In questo periodo,
in collaborazione col prof. Stefano grande, storico villafranchese, iniziò le pratiche per aprire la
scuola media parificata a Villafranca. Morì di infarto nel maggio
del 1955. Ci sarebbero ancora molte cose da dire – conclude Nino
Pronino - ma se mi è concesso vorrei chiudere con le parole che,
dopo la sua morte, lo ricordò l’allora sindaco di Pinerolo Arnaldo
Pittavino : “...Generoso e di cuore immenso, aveva fatto tacere le
amarezze di cui aveva a lungo sofferto, aveva calmato le reazioni
più violente, aveva fatto ritornare la serenità in un clima di odi e
di vendette. Poi aveva riorganizzato la vita amministrativa, per
riportare Villafranca allo splendore dei tempi più belli».
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Nelle
foto Lorenzo Pronino e il figlio Bartolomeo “Nino”. |
piero strobino |
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CORRIERE di SALUZZO |
Venerdì, 13 maggio 2005 |
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