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COME SONO DIVENTATO SCRITTORE
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Fino alla fine di gennaio del
1995, mai avevo pensato d’essere in grado di scrivere un libro,
anche se erano già 13 anni che facevo il corrispondente di giornali
locali, prima per l’Eco del Chisone di Pinerolo, poi per il Corriere
di Saluzzo. Ma scrivere articoli è una cosa, scrivere libri
decisamente un’altra, come ho poi avuto modo di appurare. Cosa
accadde allora quella sera di fine gennaio del 1995? Mi ero appena
seduto a tavola per la cena, quando suonò il telefono: era un membro
della Pro Loco di Cardé, Maurizio Ardusso, il quale, ricordandosi
che alcuni anni prima avevo scritto la storia di Cardé a puntate per
l’Eco del Chisone, mi chiese di indicargli due personaggi storici
che potessero andare bene come maschere di Cardé per l’imminente
carnevale. Fino a quel giorno Cardé mai aveva avuto maschere e mai
aveva partecipato al carnevale che, nella nostra zona, soprattutto a
Saluzzo, è molto sentito. D’acchito mi venne di suggerirgli `L
Portoné (si legge Purtuné, perché la o piemontese si legge come la u
italiana) e la Marchesina, due personaggi sicuramente esistiti nella
storia del paese. A questo proposito bisogna fare un salto indietro
nei secoli: per quanto riguarda la Marchesina va ricordato che
Cardé faceva parte del Marchesato di Saluzzo e quindi una Marchesina
ci doveva pur essere stata; per quanto riguarda `L Portoné va
ricordato che Cardé, essendo un paese rivierasco del Po, aveva
anch’esso, come tutti i paesi rivieraschi, un porto fluviale col suo
bravo traghetto per trasbordare uomini, animali e cose da una riva
all’altra del fiume. Una volta non c’erano autostrade ma solo
viottoli e per di più sterrati, non c’erano treni, camion, aerei,
ecc, ma solo carri trainati da cavalli o da buoi, quindi il
commercio via acqua era decisamente più veloce e per questo molto
fiorente. A manovrare questo traghetto e a dirigere tutto il
traffico del porto fluviale era appunto il Portoné, che in italiano
significa “guardiano del porto” o “traghettatore”. L’ultimo Portoné
di Cardé operò fino al 1914, quindi non preistoria, anno della
costruzione del ponte che cito in un altro capitolo del mio sito,
mentre a Villafranca Piemonte, un paese già in Provincia di Torino
ma a soli 5 km da Cardé, il porto fluviale col Portoné sopravvisse
fino a metà degli anni 30 ed era una donna, la Portonera.
Tornando a quella sera di gennaio del
1995, scelsi di suggerire quei due personaggi perché in loro vedevo
rappresentati i due poli sociali: il popolino col Portoné e la
nobiltà con la Marchesina. La scelta piacque a Maurizio che però mi
chiese di inventarmi una storia, limitata ad una paginetta, da
leggere come presentazione durante le manifestazioni carnevalesche
nei vari paesi. Dopo cena presi carta e matita e in men che non si
dica mi inventai una storia d’amore tra il Portoné e la Marchesina
che poi il giorno dopo consegnai allo stesso Maurizio. Durante il
carnevale alcuni amici, anche non cardettesi, mi fermarono per
complimentarsi con me per quella paginetta. Sinceramente non mi
sembrava il caso, ma poi, ripensandoci, in me scattò l’idea: perché
non sviluppare questa paginetta e trasformarla in un libro? E così
ebbe inizio la mia “carriera” di scrittore. Il seguito lo leggerete
nelle pagine dedicate alle trame dei miei libri.
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`L PORTONÉ `D CARDÈ |
Dopo aver deciso di trasformare
quella paginetta in un libro, mi misi di buzzo buono e in una
quindicina di giorni la prima bozza fu pronta. Nel 1995 non avevo
ancora il computer e quindi dovetti fare tutto a mano scrivendo su
dei quaderni. Il primo quaderno mi servì per la prima bozza, il
secondo per migliorarla e mondarla da periodi troppo lunghi e
farraginosi ed il terzo per trascriverla in “bella”. Ora si trattava
di trovare un editore e la cosa si dimostrò subito irta di
difficoltà. Allora, sicuro che quella sarebbe stata la mia prima ed
ultima esperienza come scrittore, mi venne in mente un’altra idea:
avrei cercato un finanziatore ed avrei devoluto tutto il ricavato
del libro in beneficenza alla Missione della Diocesi di Saluzzo che
si trova a Guarulhos in Brasile, nei pressi di San Paulo, dove
prestava servizio Dario Ramello, un giovane seminarista cardettese.
Proposi la mia idea ad Angelo Ribecco, responsabile dell’area
saluzzese della Fideuram, che accettò subito con entusiasmo di fare
da sponsor. Il più era fatto. Ora mancava soltanto chi mi curasse
l’impaginazione e poi un editore ed una tipografia per stampare il
libro. Il primo problema fu risolto da Mario Banchio e Nanni
Gianaria del Corriere di Saluzzo, i quali si interessarono
direttamente presso la Cooperativa Sale e Luce di Saluzzo, che cura
anche le composizioni del Corriere di Saluzzo; il secondo fu risolto
dalla tipolitografia Technograf di Piasco che é anche Casa Editrice,
sempre grazie all’interessamento di Nanni Gianaria. Restava il
titolo. Io avevo in mente Il Portoné e la Marchesina, ma quando
proprio Nanni Gianaria mi suggerì `L Portoné `d Cardè, compresi
subito che quello era il titolo giusto. E così fu.
`L Portoné `d Cardè é una favola per
grandi e piccini ambientata in un’immaginaria Cardé del periodo
feudale, che narra di una contrastata storia d’amore tra “Tista `l
bel” (Battista il bello), aitante e bruno Portoné dagli occhi
verdi, e la Marchesina Berenice, bellissima fanciulla dagli occhi
azzurri e coi capelli biondi, ma triste e infelice. Contrastata
soprattutto dal Marchese padre, che non voleva assolutamente vedere
la sua unica figlia sposata ad un plebeo. Ma, come in tutte le
favole, alla fine, dopo mille intrighi e peripezie, i due giovani
convoleranno a giuste nozze e vivranno felici e contenti.
Del libro feci stampare 500 copie che
andarono a ruba in un baleno e, con mia somma gioia, pochi mesi dopo
potei spedire la somma ricavata alla Missione di Guarulhos.
Un’ultima cosa: il titolo del libro é in dialetto piemontese e Cardè
ha la è con l’accento grave (è) anziché acuto (é) perché, nel
dialetto piemontese, la è ha un suono aperto e non chiuso come la é
o la e, proprio come richiede la pronuncia piemontese di Cardé.
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VIOLENZA SUL FIUME |
Dopo
l’esperienza più che positiva del Portoné `d Cardè, tornai alle
solite abitudini rimettendo nel cassetto eventuali altre velleità
letterarie. In poche parole ero sinceramente e fermamente convinto
che quello sarebbe stato il mio primo e ultimo libro. Ma nella vita
non bisogna proprio mai escludere nulla; come diceva James Bond:
“mai dire mai”. Infatti a farmi cambiare idea sopraggiunsero alcuni
avvenimenti legati alla spaventosa piena del Tanaro del 4 - 5
novembre del 1994. Come racconto in altri capitoli di questo mio
sito, tra le altre cose io mi occupo di ambiente, soprattutto di
quello fluviale, quindi avevo seguito con attenzione tutto
l’evolversi dell’informazione relativa a quel triste evento.
All’inizio notai che veniva dato buon spazio alle argomentazioni di
tecnici del settore quali geologi, naturalisti, ecc e persino agli
ambientalisti, e la cosa mi sorprese positivamente, vista la
difficoltà che gli uni e gli altri avevano sempre avuto nel far
sentire la loro voce. Pensai: “forse
finalmente qualcosa sta cambiando, forse ci si è accorti che a furia
di manomettere l’ambiente deforestando, cavando e cementificando ci
stiamo scavando la fossa con le nostre mani”. Illusione!
Passato poco tempo l’informazione ritornò di dominio degli
speculatori, anche perché sono loro ad averne quasi il monopolio.
Così tutto fu ribaltato: i tecnici del settore furono rimessi
nell’angolo e gli ambientalisti accusati di essere loro la causa di
tutti i mali di questo mondo. E così tutte le decisioni sugli
interventi da fare tennero conto delle indicazioni degli
speculatori, grazie anche alle connivenze, dirette o indirette, che
gran parte degli amministratori pubblici a tutti i livelli hanno
con le potenti corporazioni cui gli speculatori fanno capo. Le
conseguenze di quegli interventi le avremmo viste nelle successive
alluvioni del 1999 e del 2000 e le vedremo sempre più, perché il
popolo, annacquato da questo tipo di informazione mistificata, è
paradossalmente solidale con gli speculatori e coi loro vassalli e
ostile sia agli ambientalisti che addirittura ai tecnici. Proprio
questo stato di cose, che purtroppo non solo persiste ma è
addirittura aumentato e che, di conseguenza, porterà a disastri
sempre maggiori che però sono il pane ed i companatico degli
speculatori, mi spinse a scrivere Violenza sul fiume, un romanzo che
tratta proprio di questi temi.
Violenza sul
fiume è il libro che più amo perché è un libro di denuncia e,
secondo me, i libri di denuncia sono sempre i migliori. In esso,
attraverso una storia d’amore che nasce tra un cinquantenne ed una
venticinquenne dopo un incontro tanto casuale quanto drammatico
avvenuto sulla riva di un fiume, metto a nudo tutte le nefandezze
che vengono perpetrate ai danni del territorio in generale e
dell’ambiente fluviale in particolare, un giro d’affari di milioni
di Euro l’anno portato avanti con spietato cinismo sulla pelle dei
cittadini. Il titolo ha una doppia valenza: può essere identificato
sia con la violenza che appunto subiscono ogni giorno i nostri
fiumi, sia con la violenza che subisce la protagonista. É una
vicenda drammatica, un “ecothriller”, come è stato definito in una
recensione su un giornale locale; è molto autobiografico, anche se
l’ambiente dove si svolge la vicenda potrebbe raffigurarsi in una
qualsiasi zona d’Italia attraversata da un fiume, per le
similitudini che ovunque le contraddistinguono. Proprio per gli
scottanti temi trattati ed anche per certe parti scabrose, non mi fu
possibile trovare un editore, ma lo feci pubblicare ugualmente
finanziandolo e curandolo da solo. Uscì ad aprile del 1998 (500
copie) e dopo nemmeno due mesi avevo già venduto le copie necessarie
per rientrare delle spese. Intanto la voce era corsa e a giugno i
titolari della libreria Menabò di Saluzzo me lo fecero presentare
nel loro locale, dove ottenne grande successo. In seguito lo
presentai in altri paesi, tra cui Villafranca Piemonte dove ebbi
modo di incontrare i titolari della Casa Editrice Clavilux di
Moretta che in seguito avrebbero editato gli altri miei libri. Anche
i proventi di Violenza sul fiume, tolte le spese, li ho lasciati in
beneficenza alla Croce Rossa di Moretta; per la verità il
destinatario originale era l’asilo di Cardé, ma gli amministratori,
per motivi che non ho mai compreso, praticamente mi fecero capire
che della mia beneficenza non sapevano che farsene. Da allora decisi
che mai più avrei fatto beneficenza coi miei libri.
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VITA DA
CANI |
Il 4 giugno del 1998 morì Pluto,
il mio ultimo cane. Tre mesi prima era stato colpito dal cimurro e
la veterinaria mi disse subito che ci sarebbe stato più nulla da
fare. Io non volevo rassegnarmi e le provai tutte, ma alla fine
dovetti arrendermi e gli feci praticare l’eutanasia per porre fine
alle sue sofferenze. Nonostante ciò non riesco a perdonarmi questa
scelta, perché lui è morto per decisione di colui che più amava. É
stata una scelta terribile. Ancora oggi, a volte, mi sembra di
impazzire per il dolore. Forse col tempo tutto passerà, ma Pluto mi
manca da morire e penso che mi mancherà per sempre. Aveva 12 anni.
Il dolore per la
morte di Pluto mi scatenò dentro una marea di sentimenti che a
stento riuscivo a contenere; durante una delle tanti notti insonni
mi alzai e, quasi fosse un bisogno terapeutico per lenire il mio
dolore, cominciai a trasferire su un quaderno tutto quello che avevo
dentro, raccontando la vera storia di Pluto ed il bellissimo
rapporto di stupenda amicizia che c’era stato fra noi. Un’ora e
tutto fu finito, la terapia funzionò, io mi sentii meglio e tornai a
letto. Al risveglio rilessi quanto scritto e mi sembrò bello; però
era troppo corto per farne un libro e allora, sempre sfruttando
l’onda dei sentimenti, mi rituffai nella scrittura e prima di sera
avevo messo giù un’altro racconto, questa volta di pura fantasia,
avente come protagonisti alcuni di quelli che erano stati i miei
cani: Boby, Chicca, Flash, Dance. Proposi poi il testo alla Casa
Editrice Clavilux di Moretta, con la quale avevo avuto contatti
proprio pochi giorni prima, e ricevetti parere favorevole. Nacque
così VITA...DA CANI. D’accordo con la Clavilux fu deciso di farne un
libro per ragazzi e in questo senso collaborò anche la signorina
Erica Cravero di Moretta che ne curò le illustrazioni. Lo presentai
a Cardé nel settembre del 1999, nell’ambito della festa patronale
della Salesea ed ebbe subito un grande successo, tanto che a
dicembre la Clavilux dovette provvedere a far stampare la 2ª
edizione. Da VITA...DA CANI ho avuto grandi soddisfazioni: le scuole
elementari di Villafranca e di None, la scuola media di Moretta e
per ultima la scuola materna della frazione Foresto di
Cavallermaggiore mi hanno invitato a tenere una lezione sugli
animali d’affezione e hanno adottato VITA...DA CANI come libro di
lettura, come pure la scuola media di Cavour. Alla fine del 2001
anche la 2ª edizione del libro era praticamente esaurita...e forse
non è ancora finita qui.
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IL CALCIO
DEI PURI |
Come ho
già scritto in un’ altra pagina di questo sito, io ho praticato
attivamente il calcio per tanti anni, prima come calciatore, poi
come allenatore. Saluzzo, Villafranca, Vigone e Bricherasio sono
state le squadre nelle quali ho militato come calciatore;
Villafranca, Airasca, Stella Azzurra di Carmagnola, Falicetto,
Moretta, Scalenghe e Saluzzo allievi e juniores regionali (questi
ultimi come direttore sportivo), le tappe da allenatore. La squadra
nella quale ho avuto la militanza più lunga, sia come calciatore (10
anni) che come allenatore (4 anni) è stata il Villafranca, dove sono
conosciutissimo e, penso, anche amato. Bene, dopo aver iniziato la
mia esperienza come scrittore, molte volte recandomi a Villafranca,
soprattutto per motivi legati alla mia attività di corrispondente
del Corriere di Saluzzo, venivo fermato da alcuni ex compagni di
squadra che mi suggerivano di scrivere un libro sul calcio. «Ma
a chi volete che interessi un libro sul calcio dilettantistico!»
era la mia immancabile risposta. Poi il 22 gennaio del 2000 morì mio
padre; Amos era stato anche lui calciatore dilettante ma a 22 anni o
giù di lì s’era rotto il menisco e aveva dovuto abbandonare. Si era
all’inizio degli anni 30 e la rottura del menisco significava
carriera conclusa. Però rimase un grande appassionato di calcio;
anzi, si può dire che fosse la sua unica grande passione. Viveva per
il calcio, quando gli riusciva andava a vedere anche due partite per
domenica, una al mattino ed una al pomeriggio. E dietro si portava
la radiolina per ascoltare le partite della serie A. Dopo la sua
morte gli amici di Villafranca si rifecero sotto aggiungendo che il
libro poteva essere un’occasione per ricordare anche il mio papà. Ci
pensai e decisi di dare loro ascolto; però non avrei scritto un
libro che disquisisse di calcio in senso strettamente tecnico, di
questo si parla già fin troppo e avrebbe interessato pochi. Mi
interessava invece far conoscere la filosofia di vita degli anni 60,
guardandola attraverso aneddoti e personaggi del mondo del calcio
dilettantistico di quei tempi. Proposi l’idea alla Casa Editrice
Clavilux e, avutane risposta affermativa, mi misi al lavoro. Scelti
gli aneddoti ed i personaggi che secondo la mia ottica più
riflettevano la società di quel periodo, mi misi al lavoro e in meno
di 15 giorni la bozza sui soliti quaderni era cosa fatta. Nacque
così IL CALCIO DEI “PURI”, dove i “PURI” sono quelli che praticano
il calcio per pura passione ed il nome col quale, in quel periodo,
venivano indicati i dilettanti del mondo del calcio e del ciclismo.
Un libro divertente ma non solo, con personaggi straordinari di
un’epoca straordinaria, un libro che si legge tutto d’un fiato.
Ovviamente lo dedicai a papà Amos. Il libro uscì a settembre del
2000 e fu presentato a Cardè, sempre in occasione della festa
patronale della Salesea, davanti a oltre 200 persone, perlopiù
vecchi compagni di squadra.
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Una festa
nella festa, anzi, una grande festa e un’indimenticabile
rimpatriata tra vecchi amici tutti legati da una grande
passione: il calcio.
Come ospite d’onore chiamai
Antonio Pairetto, il più famoso arbitro del mondo del calcio
dilettantistico piemontese di quei tempi e papà di Pier Luigi, ancor
più famoso arbitro di serie A e attuale designatore arbitrale della
massima serie. Antonio Pairetto accettò con entusiasmo dando ancor
più lustro alla serata. Anche Il CALCIO DEI PURI sta riscuotendo un
buon successo. |
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IL TUNNEL |
Nell’agosto del 44, a Cardé, i tedeschi e i repubblichini operarono
un furioso rastrellamento che portò alla cattura di molti giovani
non alle armi; alcuni, scoperti come partigiani, furono giustiziati,
altri deportati nei campi di concentramento in Germania. All’inizio
degli anni 90, nella mia veste di cronista per il Corriere di
Saluzzo feci una serie di interviste ai sopravvissuti che mi
aprirono orizzonti nuovi su quelle terribili vicende. In seguito
ebbi modo di ascoltare anche alcuni partigiani, scoprendo così come
si conduceva la lotta armata. Tutto ciò sarebbe probabilmente finito
nel cassetto dei ricordi se, in questi ultimi anni, non fossero
intervenuti alcuni fatti nuovi che, proprio in base a quelle
conoscenze, mi hanno spinto a scrivere questo libro: il ritorno
feroce del razzismo, dell’antisemitismo, dell’arroganza dei “figli”
e dei “nipoti” degli artefici delle orrende persecuzioni di quegli
anni, il loro tentativo di stravolgere la storia con la
rivalorizzazione del nazifascismo, la negazione dell’Olocausto e la
relegazione della Resistenza ad un patetico ruolo di
rappresentazione folkloristica addebitandola ad una certa parte
della politica, il loro stesso ritorno al potere. Ripercorrendo a
ritroso la Storia, mi sono accorto che certi slogan, certe frasi,
certi sistemi di intervento in alcune manifestazioni, oggi ricalcano
quanto accadeva all’inizio degli anni 20. Da qui è salita in me la
rabbia nel vedere come l’ignavia della gente, tesa solo a guardare
il presente, a non accettare il confronto con le diversità,
all’esasperazione dell’egoismo coltivando il proprio orticello
seminato solo di effimero e di mistificazioni mass-mediali di chi ha
ormai in mano l’informazione e, soprattutto, a rifiutare di
conoscere la Storia, stia per farci ricadere in quel terribile
baratro. Ecco, tutto questo mi ha spinto a scrivere il libro, una
sorta di piccolo contributo per invitare a riflettere e soprattutto
a non DIMENTICARE.
Queste le
ragioni; veniamo ora alla trama.
All’inizio
(attorno alla fine del 98), l’unica cosa certa nella mia mente era
quella di partire da due presupposti: il rastrellamento di Cardé
dell’agosto 44, quindi un fatto storico reale, e il presunto tunnel
che si dice unisse Cardé a Villafranca, partendo dal castello e
passando sotto il Po. Sulla veridicità dell’esistenza di questo
tunnel le versioni sono contrastanti; o meglio: tutti dicono che ci
fosse ma nessuno ha mai fornito prove che andassero al di là della
verbalità. Da questi due presupposti tra storia, leggenda e
fantasia, ho iniziato a tessere la tela, arrivando con la sola
fantasia fino al termine del III° capitolo “Il temporale”. A questo
punto mi sono arenato; non sapevo proprio come andare avanti. Nel
frattempo iniziai e portai a termine “Vita da... cani” e “Il calcio
dei Puri”. A segnare la svolta decisiva fu una telefonata del prof.
Aurelio Saccheggiani di Moretta all’inizio del 2001: «Piero,
ho saputo che stai scrivendo un libro sulla Resistenza. Avrei da
proporti un episodio accaduto qui a Moretta». Ci
incontrammo e durante quell’incontro si accese la lampadina: avrei
fatto operare nel tunnel di Cardé il gruppo dei miei partigiani
immaginari e avrei fatto passare le loro peripezie attraverso
episodi realmente accaduti. Per la verità questa seconda parte
dell’idea mi derivò da un’altro fatto accadutomi alla fine di marzo
del 99. Mi telefonò il prof. Antonio Bodrero, in arte “Barba Tòni”,
poeta e cantore del dialetto piemontese (lui, con forza e
competenza, la definiva lingua e su questo discutemmo a lungo),
proponendomi di scrivere con lui un libro sul Risorgimento. Io ne
fui lusingato, ma gli rammentai la mia scarsa conoscenza di questo
periodo della Storia d’Italia e, di conseguenza, la perplessità
sulle mie capacità di poterne scrivere un libro. Lui non volle
sentir ragioni: aveva letto il mio 2° libro “Violenza sul fiume”,
gli era piaciuto, apprezzando soprattutto la fantasia e la
scorrevolezza (per la verità in quel libro c’era molta
autobiografia) e mi invitò a casa sua a Frassino, in Val Varaita,
dove ci incontrammo nei primissimi giorni di aprile. Mi raccontò di
quattro episodi accaduti nel Risorgimento Piemontese che secondo lui
avevano cambiato il corso della Storia ma che non erano stati
sufficientemente considerati. La proposta fu questa: «Io
le dico quali sono questi episodi, lei si va a fare una ricerca, li
mette insieme in ordine cronologico e poi si inventa una storia
d’amore tra due personaggi immaginari, (sul tipo dei
Promessi Sposi, per intenderci),
e ce li fa passare in mezzo».
Io ero scettico e feci la mia proposta: «Lei
professore si occupa della parte storica e quando l’ha messa insieme
mi telefona e concordiamo la parte di fantasia». «Ma
ci vuole del tempo» replicò lui. «Beh
– risposi – tanto di tempo ne
abbiamo». «Lei ne ha!»
- fu la sua conclusione sulla quale al momento con lui ci scherzai;
ma quando nel novembre dello stesso anno appresi della sua morte, mi
suonò come una premonizione. Non seppi e non saprò mai se aveva
iniziato quella ricerca e se sì a quale punto fosse, ma decisi di
sfruttare per il mio libro l’idea di far passare dei personaggi
immaginari attraverso dei fatti storici. Il prof. Saccheggiani e la
signora Rita Mellano Reinaldi di Villafranca, alla quale avevo
annunciato questa mia nuova fatica letteraria, mi fornirono anche
del materiale storico, come libri e documenti sulla Resistenza
locale e nazionale, dal quale trassi gli episodi che ritenni più
consoni alla trama del libro e ricominciai a scrivere. Ora la trama
prendeva vita e le varie situazioni si manifestavano spontanee nel
loro divenire, senza alcuna preparazione; mi si presentavano davanti
a mano a mano, quasi le stessi vivendo. Anzi: le vivevo. Però fui
nuovamente assalito dai dubbi: a me il testo piaceva, ma alla casa
editrice? Perciò, giunto alla fine del VI° capitolo “Il partigiano”,
consegnai i manoscritti alla casa editrice, che li ritenne
meritevoli di essere pubblicati, dandomi la spinta definitiva per
portare a termine il libro. Dopo il percorso fu tutto in discesa e
in poco tempo il libro fu ultimato. La mia speranza, al di là
dell’aspetto commerciale, peraltro tutt’altro che marginale, è
comunque quella di riuscire a ricreare l’attenzione in funzione
della finalità per la quale ho scritto il libro: NON DIMENTICARE
AFFINCHÉ NON SI RICADA NELL’ERRORE! Il Tunnel è stato presentato il
15 dicembre 2001 nella palestra di Cardé davanti a circa 200 persone
su organizzazione dell'Amministrazione Comunale e della Proloco. Ne
sono state stampate 1000 copie.
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UNA GRANDE AMICIZIA |
Devo dire che dopo la
pubblicazione di ogni mio libro è per me una costante pensare
che sia l’ultimo; non è scaramanzia, ma la consapevolezza che
potrebbe essere davvero l’ultimo non essendo io uno scrittore
di professione ma esclusivamente per hobby e per ispirazione.
A questa regola non è sfuggito nemmeno il post “Il tunnel”,
pubblicato nel dicembre 2001. Cos’é allora che mi ha fatto
cambiare idea e mi spinto a scrivere “Una grande amicizia”?
Come sempre gli avvenimenti della vita quotidiana, le forti
frustrazioni che scatenano dentro di me e l’effetto quasi
terapeutico che lo scrivere esercita su queste frustrazioni.
Quindi lo scrivere come medicina, come bisogno personale che
prescinde da qualsiasi tipo di calcolo. È stato così per
“Violenza sul fiume”, dove il motivo scatenante è stata la
rabbia nel vedere l’ignavia della gente sull’enorme
speculazione che si perpetra ai danni dell’ambiente e in
particolare dei fiumi, diventati un business da migliaia di
miliardi l’anno; è stato così per “Vita...da cani”, dove il
motivo scatenante è stato il dolore per la perdita di Pluto,
il mio cane più amato; è stato così per “Il calcio dei puri”,
dove il motivo scatenante è stato il dolore per la morte del
mio papà, grande amante del calcio, al quale l’ho dedicato; è
stato così per “Il tunnel” dove il motivo scatenante è stata
la rabbia nel constatare lo stravolgimento che alcuni tentano
di fare della storia dell’Italia, relegando la Resistenza
quasi a fenomeno da baraccone invece di riconoscerle quei
valori storici di libertà e di democrazia che è dovere di
tutti noi difendere e sui quali è stata poi fondata la
Costituzione Italiana; infine è stato così anche per “Una
grande amicizia”, dove il motivo scatenante è stato veder
proliferare la cultura dell’odio, scientemente spansa a piene
mani per scopi politici e speculativi (razzismo, mercato delle
armi, monopolio petrolifero, occupazione di territori
strategici, ecc) e spacciata come unica risorsa per risolvere
i problemi del mondo. Alcuni, sfruttando il potere politico e
mediatico, cercano di far credere che la nostra civiltà, la
nostra cultura, sia il modello unico da esportare, che il
“diverso” debba essere considerato esclusivamente come motivo
di contrasto da combattere, non come una risorsa, un motivo di
confronto per allargare e arricchire il bagaglio della nostra
conoscenza. La storia, anche la più recente, insegna che
questa aberrante teoria non ha prodotto altro che morte e
distruzione, ma, nello stesso tempo, anche notevoli vantaggi a
chi la propugna. Eppure gran parte dell’umanità continua a
cadere nello stesso errore lasciandosi passivamente avvolgere
da questi demagogici tentacoli dell’odio che arrivano persino
a tacciare come sovversivo chi la pensa diversamente. A me
sembra perlomeno curioso che chi parla di amore, di pace, di
tolleranza, di solidarietà, possa essere giudicato sovversivo.
Ma purtroppo, la storia insegna, è accaduto spesso e continua
a accadere. Io penso invece che con la cultura dell’odio non
si vada da nessun’altra parte che non sia quella dello scontro
continuo fino all’autodistruzione. Io penso invece che l’unica
risorsa per risolvere i problemi del mondo sia la cultura
dell’amore, o perlomeno della tolleranza e del rispetto delle
idee altrui, visto che amore è una parola grossa, difficile da
perseguire nel senso pieno del termine. Se poi questo
significa essere sovversivi allora lo sono e sono lieto di
esserlo, anche se questa mio pensiero ha fatto allontanare da
me persone che credevo amici.
Ecco, questi sono
i motivi che mi hanno spinto a scrivere “Una grande amicizia”,
dove i protagonisti sono un cane e un gatto, le razze
antagoniste per antonomasia, i quali però, nel divenire della
loro frequentazione, scoprono come si possa vivere
decisamente meglio tentando di sforzarsi a comprendersi invece
di farsi la guerra, come si possa convivere fra diversi; e
riescono a superare anche le divergenze più profonde fino a
diventare veri amici. In “Una grande amicizia” si parla
d’amore, di pace, di tolleranza e di solidarietà tra razze
diverse. E l’amicizia nella diversità è il messaggio del
libro, la metafora che vorrei si trasferisse agli umani (dove
ci sono etnie, colori della pelle e culture diverse ma una
sola razza, quella umana, appunto...), per un mondo che spero
possa diventare migliore di quello attuale, soprattutto per i
nostri figli e per i figli dei nostri figli. Perché, come ho
sintetizzato in una frase che mi è nata spontanea mentre
scrivevo e che è citata all’inizio del libro, “L’amore
apre tutte le porte dell’anima perché l’amore è vita; l’odio
le chiude perché l’odio è morte”. |
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UN MONDO
PERDUTO |
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Ogni qual volta mi si
chiede la presentazione di un nuovo libro, vengo pervasa da
grossa emozione. É sì un grande onore ma è altresì una grossa
responsabilità per chi non è scrittore, vergare quella pagina,
più o meno lunga, che accompagnerà l’Opera in tutto il suo
cammino, ne condividerà le sorti, entrerà nelle case, forse
nelle scuole, certo passerà di mano in mano nell’auspicabile
successo editoriale. Non è la stessa cosa che farne la
presentazione attraverso l’articolo di giornale: lì, pur
firmandolo, il pezzo è tale: sempre obiettivo ma fine a se
stesso e dovutamente impersonale. Qui è l’opposto, almeno per
me: se non lo “sento” non posso scriverne, non posso barare,
fingendo o costruendo un qualcosa, anche di elegante nella
forma e nel pensiero ma che inevitabilmente risulterebbe
freddo. Non sarebbe onesto, soprattutto verso l’Autore. Il
problema non esiste con questa, per ora, ultima opera di Piero
Strobino, al quale mi lega, oltre ad una connaturata identità
di vedute più volte sperimentata, una grande stima personale e
professionale. É diverso ed esattamente all’opposto: si fa
fatica a tenere a freno l’onda positiva e fertile di pensieri,
commenti e sensazioni che l’Opera stessa sa stimolare. Perciò
eccomi qui, io, giornalista, a confrontarmi con un Autore, in
una pagina che tuttavia, molto modestamente, vuole essere solo
il piccolo, grato omaggio di una lettrice a chi ha saputo così
bene, attraverso sensibilità ed esperienza, far riaffiorare …Un
mondo perduto! E ritrovato, mi sentirei di dire, da
tutti coloro che, come me, l’hanno vissuto, anche solo di
sguincio, quale cornice alla propria infanzia o prima
adolescenza. Lungi dall’essere un mero amarcord, il
libro inizia nel dopoguerra, in quell’Italia, e Piemonte in
particolare, in fase di trasformazione economica, sociale e
morale. Erano gli anni della rinascita che poi sfociarono in
quel boom economico che portò ad una fase di lavoro e
benessere. Ambientato tra campagna e città, ne tratteggia
caratteristiche note e sconosciute dell’una e dell’altra,
rispolverando usi, costumi e mestieri forse dimenticati o mai
conosciuti dalle ultime generazioni. Specie nei primi capitoli
il libro assume valore didattico e storico, oltre che di
ottima base per un puntuale dizionario etimologico piemontese
per via di quella raccolta di parole riconducibili alla
tradizione orale. Un modo di apostrofare nelle forme più
varie, dalla blanda censura alla garbata allusione, dalle
espressioni di ironica commiserazione al sarcasmo ecc.,
setacciati dalla tipica parlata piemontese. Ma vi ritroviamo
anche il tempo ancora scandito dalle stagioni, e i torrenti
puliti, i colori della natura, soprattutto gli incredibili
squarci d’azzurro nel cielo…, e le merende semplici e
rustiche, le sagre paesane. Per contro, l’arte di arrangiarsi
nella grande città, ma anche il piacere dell’onestà, i primi
fermenti operai ma anche la vera voglia di lavorare, e le
case, e i balconi - ballatoio… Strobino, della grande città,
ripropone a me, torinese, i quartieri più antichi, le borgate
più pittoresche e per questo più “vere”. Quindi non il cuore
elegante di via Roma, appena sfiorato, ma “Porta Palazzo” e il
Balon”, allora piccolo mondo “palatino” (proprio come il nome
della squadra di calcio locale!), che si intendeva, alla
buona, estendersi da via Corte d’Appello alla sponda destra
della Dora, racchiuso tra via XX Settembre e via Consolata.
Borgate con caratteristiche proprie e inconfondibili, così
bene descritte nelle ballate di Gipo Farassino, allora
quasi un paese variopinto, dalla dimensione ora campagnola ora
affaristica. Assai diverse, il raffronto s’impone, con il
quartiere di frontiera attuale, dove un’umanità ansiosa si
scontra con un aspetto cittadino non dei più accoglienti. Ma
questo è un altro discorso. Per tornare al racconto, ecco
finalmente la fabbrica, che fa da cornice a diverse pagine,
ecco il lavoro che sfama tutti…, e gli immigrati di varia
provenienza che si stagliano netti quali figurine da pagine
colorite, precise come una fotografia. Pian piano prende
corpo l’epoca delle colonie estive, delle gite aziendali
attese quale occasione di conoscenza e di svago, perché era
l’epoca semplice in cui la gente comune scopriva la felicità
in un piccolo benessere conquistato, in un amore speciale, in
una canzone indimenticabile. Proprio come capita a Pino,
ragazzo di campagna giunto a Torino per lavorare, personaggio
che incontriamo come per caso in questo contesto, quasi
fortuitamente dietro l’angolo di una via del quartiere e del
quale e con il quale condividiamo le vicende, fatte di piccoli
grandi problemi del quotidiano. Quello di Strobino è un
racconto dove è tutto vero, che parla di un passato che occupa
ancora le nostre esistenze. Non importa se autobiografico o
frutto di ricerca, se l’Autore ne è stato testimone o attore,
perché occorre comunque essere quasi cesellatori della penna
per fissare impressioni od esperienze in una sorta di
letteratura di memoria. Una memoria discreta, che ha il pregio
di aggiungersi a quella di ciascuno, non di sovrapporsi o
sostituirsi al passato del lettore, ma di confondervisi,
perché è di tutti, non solo di Pino. Perché tutti ricordiamo
le ansie adolescenziali, le pulsioni, lo sbocciare dei primi
sentimenti…Chi non ha fatto qualche corsa a perdifiato, magari
per stare solo cinque minuti con il moroso o la morosa, per
poi tornare e sognare, rivivendo tutta la notte quei pochi
minuti?!? E poi l’amore per lo sport, la tragedia del Grande
Torino…. Chi non è incocciato in un superiore, professore o
datore di lavoro che, anche se non si chiamava Poggi come il
caporeparto del racconto, ne aveva le spregevoli
caratteristiche!?! E che dire del rapporto duro di Pino con un
padre che oggi, senza tema di dubbio, sarebbe definito ostile
se non oppressivo? Ma a guardar bene quel padre non era poi
tanto dissimile dal nostro buon genitore (in fondo non ci
hanno allevato poi tanto male, anzi ci hanno forgiato il
carattere rendendoci capaci di affrontare le avversità che la
vita ci ha riservato!). Man mano che il romanzo si dipana, si
moltiplicano gli eventi belli e brutti e con essi prende
costrutto quella fetta di vita che ha interessato la nostra
generazione. Strobino è narratore agile, di immediata presa
stilistica e ironicamente complice con i personaggi.
Personaggi che recitano la loro parte in un continuo scambio
di battute, anche sintatticamente derivate dall’autenticità,
dal lessico che gli fu proprio. Dunque un ambiente che viene
magistralmente descritto anche nelle sue contraddizioni, così
stretto tra il poco che era lecito e il molto che era
proibito, ma che lo si faceva lo stesso e magari, proprio per
questo dava piacere. L’Autore, si intuisce, si diverte a
riproporre, a volte con arguzia, altre sfiorando la ferocia,
le situazioni, riuscendo a stimolare un raffronto inevitabile
con l’attualità. Perché con le penne grigie semplicemente si
conquista la memoria storica, anche se ricordare non sempre
significa rivalutare il passato, ma avere dei riferimenti,
magari prendendone le distanze per guardare al futuro. Un
libro che provoca la stessa emozione come quando
all’improvviso ci si ricorda di quei quaderni con la
copertina nera e lo spessore rosso, che vergavamo con i
caratteristici pennini “a campanile”, o di quel fuoco nel
camino che vegliava i silenzi con il suo respiro irregolare.
Un libro come divertissement dell’anima che a volte
diamo per dissolta nell’infanzia e che invece scopriamo
intatta nel cuore e nel sembiante. Un libro, ancora, scritto
con lo sguardo ingenuo della giovinezza. Il segreto di
Strobino sta tutto qua: in quell’ingenuità (qualità in
disuso?) così poco apprezzata e che invece è scudo e forza,
capace di difenderci dal cinismo oggi trionfante, e che ci
permette ancora una volta di scoprire quegli incredibili
squarci d’azzurro di cui all’inizio, o ritrovare senza tanti
risvolti teologici la fede semplice dei P.G.R., o la speranza
nello sguardo sempre pulito dei bimbi. Volutamente non mi
soffermo sulle ultime pagine del libro, perché ad esse si deve
giungere poco alla volta, con lo spazio - tempo imposto
dall’evolversi della vicenda. Pagine sulle quali il lettore
sensibile e attento rifletterà, estrapolandone il messaggio
finale: la resurrezione di noi tutti sulla rivalutazione dei
valori veri, senza tempo. Oggi sono di moda le citazioni (fa
tanto fino!), cosa che non condivido eccessivamente. Tuttavia
questa me la permetto: Ralph Waldo Emerson (famoso
filosofo-poeta statunitense) diceva che “…il talento da
solo non basta a fare uno scrittore: dietro al libro ci deve
essere un uomo”.
Si attaglia bene
all’amico e scrittore Piero Strobino e alle sue opere,
con le quali, di volta in volta ci esalta, ci scuote, ci
fa sorridere e riflettere. Grazie.
Maria Grazia Gobbi
Giornalista
Saluzzo, gennaio 2005 |
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DI GUERRA,
DI DONNE E DI FIUMI |
Nell’ormai lontano 1991, quando
avevo iniziato da appena un anno la mia collaborazione col
Corriere di Saluzzo (che continua tutt’ora), decisi di
raccontare le storie di alcuni cardettesi vittime della
barbarie nazifascista. L’idea nacque alla vigilia della
commemorazione del IV Novembre di quell’anno, una data che
mi parve emblematica. Ne parlai in redazione e ricevetti il
via. Tutte le vicende che anno dopo anno raccontai, ebbero
come punto di partenza due rastrellamenti che tedeschi e
brigate nere compirono a Cardé e dintorni l’11 e il 18
agosto 1944. (Tra l’altro, da queste vicende, alcuni anni
dopo presi lo spunto per scrivere il mio 5° libro, “Il
tunnel – un viaggio nella lotta partigiana tra storia e
fantasia”). Con quegli articoli, il mio scopo era di ridare
visibilità agli episodi di quel triste periodo, mai
raccontati dai testi di storia o dai grandi libri, facendoli
uscire dall’oblio nel quale erano caduti. Storie di gente
semplice, di soldati o semplici civili, piccole, grandi
storie come tante altre di tanti altri paesi sparsi per
l’Italia, che però, tutte insieme, contribuirono a riportare
nel nostro Paese la democrazia e la libertà, negate da oltre
vent’anni di dittatura fascista. L’effetto, devo dire, fu
ottimo, ma ebbe il difetto di durare poco. Dopo una decina
d’anni, compresi che gli articoli di un giornale non
bastavano per ottenere il risultato prefissatomi all’inizio:
gli articoli si leggono, colpiscono d’acchito la fantasia e
il cuore della gente, ma col tempo vengono nuovamente
rimossi e accantonati in un angolo del cervello. Da qui
l’idea di riunire alcune di quelle storie in un libro,
perché un libro entra nelle case, vi rimane per sempre e
quindi può diventare memoria per le generazioni a venire. Un
messaggio forte verso chi, soprattutto negli ultimi tempi,
cerca di riabilitare certi tenebrosi personaggi del passato
e stravolgere la storia, giocando sulla demagogia della
menzogna e dell’odio e sulla perdita della memoria storica
che inevitabilmente colpisce le nuove generazioni. É
inaccettabile, ad esempio, definire “guerra civile” il
periodo che va dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945,
giorno della Liberazione, e il tentativo di mettere sullo
stesso piano (non solo attraverso la demagogia, ma
addirittura con un disegno di legge!) chi si schierò contro
l’invasore tedesco combattendo per il ripristino della
Libertà e della Democrazia, e chi invece si schierò con
l’invasore, cosciente che avrebbe combattuto contro suoi
compatrioti. La verità storica su questo periodo, aldilà di
qualsiasi opportunistica interpretazione e volgare
strumentalizzazione, sta scritta nella prima frase di un
documento storico e inconfutabile: l’atto di resa
incondizionata firmato il 2 maggio 1945 a Biella dal
Colonnello di Stato Maggiore Tedesco Faulmuller, su incarico
del Generale delle truppe alpine Schlemmer. La frase recita
testualmente: “Per incarico del Generale delle
truppe alpine Schlemmer, Generale Comandante il LXXV Corpo
d’Armata, il Colonnello Faulmuller, Capo di Stato Maggiore
del Comando Generale del LXXV Corpo d’Armata, dichiara al
Supremo Comando Alleato la resa incondizionata di tutte le
truppe tedesche e FASCISTE DIPENDENTI da questo Comando
Generale”. Il che significa che i repubblichini erano
alle dipendenze (e quindi anche al soldo!) dell’invasore
tedesco, non al servizio della Patria Italiana! E se di
guerra civile proprio si vuole parlare, allora bisognerebbe
ricordarsi di aggiungere che la responsabilità unica fu di
Benito Mussolini che la scatenò istituendo la cosiddetta
Repubblica Sociale di Salò impostagli da Hitler! La
Resistenza in generale, e la lotta partigiana in
particolare, nacquero esclusivamente e disinteressatamente
per combattere e scacciare l’invasore tedesco dal nostro
Paese. Punto. Tutto il resto sono falsità e demagogie messe
in atto da figli e nipoti del fascismo, purtroppo ritornati
in sella al destriero Italia!
Però “solo” quelle storie non
potevano avere abbastanza consistenza per dare vita ad un
libro e allora decisi di uscire dalla cerchia ristretta del
mio paese e di aggiungere un’altra storia, della quale, nel
frattempo, ero venuto a conoscenza. Questa storia affronta
un altro spaventoso evento di quel periodo, la ritirata di
Russia, un ulteriore tassello da aggiungere e addebitare al
criminale puzzle mussoliniano che costò la vita a centinaia
di migliaia di giovani italiani, un’intera generazione
mandata coscientemente e cinicamente a morire nel freddo e
nel gelo del terribile inverno russo, praticamente senza
equipaggiamento militare e con un vestiario assolutamente
inadeguato a quei climi; il protagonista é un artigliere di
Frabosa Sottana, nel monregalese, che ancora oggi porta sul
suo fisico i segni di quella sconvolgente pagina della
storia d’Italia
A questo punto, per quanto mi
riguardava, il libro avrebbe anche potuto considerarsi
finito, ma i dibattiti accesisi nel corso delle
presentazioni della mia precedente opera “Un mondo perduto,
mi fecero cambiare idea. Infatti fra i vari temi affrontati
in questi dibattiti, temi affrontati dal mio libro, due
assunsero particolare intensità: la condizione delle donne
nell’immediato periodo ante e post bellico e il terrificante
degrado ambientale subìto dal pianeta negli ultimi 50 anni,
in particolare quello legato all’ecosistema fluviale.
Pertanto decisi di inserire nell’opera in allestimento degli
episodi che riguardassero questi due problemi.
Per quanto riguarda l’ambiente,
chi mi conosce sa che su questo tema “vado a nozze”
essendoci da anni impegnato in prima linea; quindi non mi è
stato difficile trovare degli episodi specifici. Però scelsi
una linea “morbida” inserendo, cioè, episodi gustosi, anche
esilaranti, che però, nello stesso tempo, mettono in
evidenza le differenze e riflettono perfettamente l’attuale
tragicità del problema. Per quanto riguarda la condizione
delle donne, lo spunto me lo fornirono due signore da me
incontrate recentemente. Nel dicembre 2005, un di queste due
signore, facendo riferimento al titolo del mio libro “Un
mondo perduto”, disse che di quel mondo non rimpiangeva
proprio nulla, elencandomi i soprusi che subivano le donne
in quel periodo e facendomi intendere che anche lei ne era
stata protagonista. Le spiegai che il mio libro non era
“un’operazione nostalgica” ma un romanzo in parte
autobiografico dove certe differenze, tra cui anche la
condizione delle donne, venivano evidenziate, lasciando però
al libero arbitrio del lettore la facoltà di giudicare.
Quando ritornai a casa, ripensai alle sue parole e fu lì che
presi la decisione di aggiungere almeno una storia su questo
tema, magari proprio quella della signora in questione. Per
puro caso la incontrai il giorno dopo a Saluzzo; le dissi
che avevo riflettuto molto sulle sue parole e la misi a
conoscenza del mio progetto. Le vennero le lacrime agli
occhi e compresi che doveva aver subire qualcosa di
veramente poco piacevole; tuttavia si mostrò titubante
all’idea di raccontare e pubblicare la sua storia. Poco
tempo dopo, fortunatamente, cambiò idea e mi cercò per
collaborare alla stesura del libro. La storia della seconda
signora, madre di un mio caro amico è legata alla 2ª guerra
mondiale e narra le vicissitudini di una donna russo –
tedesca, poi diventata italiana e attualmente residente a
Villafranca Piemonte, che, per sua sventura, ebbe modo di
sperimentare sulla sua pelle i “convincenti” metodi dei 2
blocchi totalitari che hanno insanguinato il 20° secolo:
quello nazista di Hitler e quello comunista di Stalin. Ho
appositamente voluto inserire questa storia per
stigmatizzare i totalitarismi, i quali, di qualunque colore
siano e nella loro vaneggiante ideologia, sono legati con un
filo a doppia mandata da due denominatori comuni: il terrore
e la violenza. Il terrore come arma di persuasione, come
scrisse Lenin in una lettera ad un suo amico riportata su
“Arcipelago Gulag” di Aleksandr Solženicyn: “Caro amico,
sappi che il terrore è la miglior arma di persuasione”. La
violenza usata come persecuzione, punizione, e infine come
“estrema ratio” per chi non si sottomette.
A queste due storie ho poi
aggiunto quella di una signora villafranchese, purtroppo già
scomparsa, che racconta uno spaccato della dura vita
quotidiana del secolo scorso a cavallo tra la fine della 1ª
guerra mondiale e l’inizio degli gli anni ‘60, gli anni del
cosiddetto boom economico.
Non aggiungo altro, il resto lo
leggerete nel libro, un libro che, nel suo
complesso, considero “della memoria”, una memoria in
senso ampio, cioè non solo legata a una singola
specificità, una memoria da vivere nel presente e da
proiettare nel futuro, perché è solo conoscendo la
sua storia, la sua evoluzione, che l’uomo può
migliorarsi. |
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I libri di Piero Strobino si possono trovare nelle migliori librerie del cuneese e del torinese,
nonché in alcune librerie del resto
del Piemonte e della Liguria. |
Casa editrice:
Clavilux Edizioni Moretta
www.clavilux.it
Via San Rocco 1
- 12033 Moretta (Cn) - Tel e fax 0172-917877
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