Sito Personale di Piero Strobino - Cardé provincia di Cuneo

Piero  Strobino

I  miei  libri

 

COME  SONO  DIVENTATO  SCRITTORE


  Fino alla fine di gennaio del 1995, mai avevo pensato d’essere in grado di scrivere un libro, anche se erano già 13 anni che facevo il corrispondente di giornali locali, prima per l’Eco del Chisone di Pinerolo, poi per il Corriere di Saluzzo. Ma scrivere articoli è una cosa, scrivere libri decisamente un’altra, come ho poi avuto modo di appurare. Cosa accadde allora quella sera di fine gennaio del 1995? Mi ero appena seduto a tavola per la cena, quando suonò il telefono: era un membro della Pro Loco di Cardé, Maurizio Ardusso, il quale, ricordandosi che alcuni anni prima avevo scritto la storia di Cardé a puntate per l’Eco del Chisone, mi chiese di indicargli due personaggi storici che potessero andare bene come maschere di Cardé per l’imminente carnevale. Fino a quel giorno Cardé mai aveva avuto maschere e mai aveva partecipato al carnevale che, nella nostra zona, soprattutto a Saluzzo, è molto sentito. D’acchito mi venne di suggerirgli `L Portoné (si legge Purtuné, perché la o piemontese si legge come la u italiana) e la Marchesina, due personaggi sicuramente esistiti nella storia del paese. A questo proposito bisogna fare un salto indietro nei secoli: per quanto riguarda la Marchesina va ricordato che  Cardé faceva parte del Marchesato di Saluzzo e quindi una Marchesina ci doveva pur essere stata; per quanto riguarda `L Portoné va ricordato che Cardé, essendo un paese rivierasco del Po, aveva anch’esso, come tutti i paesi rivieraschi, un porto fluviale col suo bravo traghetto per trasbordare uomini, animali e cose da una riva all’altra del fiume. Una volta non c’erano autostrade ma solo viottoli e per di più sterrati, non c’erano treni, camion, aerei, ecc, ma solo carri trainati da cavalli o da buoi, quindi il commercio via acqua era decisamente più veloce e per questo molto fiorente. A manovrare questo traghetto e a dirigere tutto il traffico del porto fluviale era appunto il Portoné, che in italiano significa “guardiano del porto” o “traghettatore”. L’ultimo Portoné di Cardé operò fino al 1914, quindi non preistoria, anno della costruzione del ponte che cito in un altro capitolo del mio sito, mentre a Villafranca Piemonte, un paese già in Provincia di Torino ma a soli 5 km da Cardé, il porto fluviale col Portoné sopravvisse fino a metà degli anni 30 ed era una donna, la Portonera.

Tornando a quella sera di gennaio del 1995, scelsi di suggerire quei due personaggi perché in loro vedevo rappresentati i due poli sociali: il popolino col Portoné e la nobiltà con la Marchesina. La scelta piacque a Maurizio che però mi chiese di inventarmi una storia, limitata ad una paginetta, da leggere come presentazione durante le  manifestazioni carnevalesche nei vari paesi. Dopo cena presi carta e matita e in men che non si dica mi inventai una storia d’amore tra il Portoné e la Marchesina che poi il giorno dopo consegnai allo stesso Maurizio. Durante il carnevale alcuni amici, anche non cardettesi, mi fermarono per complimentarsi con me per quella paginetta. Sinceramente non mi sembrava il caso, ma poi, ripensandoci, in me scattò l’idea: perché non sviluppare questa paginetta e trasformarla in un libro? E così ebbe inizio la mia “carriera” di scrittore. Il seguito lo leggerete nelle pagine dedicate alle trame dei miei libri.

                                                                  

                                                               

`L  PORTONÉ  `D  CARDÈ


  Dopo aver deciso di trasformare quella paginetta in un libro, mi misi di buzzo buono e in una quindicina di giorni la prima bozza fu pronta. Nel 1995 non avevo ancora il computer e quindi dovetti fare tutto a mano scrivendo su dei quaderni. Il primo quaderno mi servì per la prima bozza, il secondo per migliorarla e mondarla da periodi troppo lunghi e farraginosi ed il terzo per trascriverla in “bella”. Ora si trattava di trovare un editore e la cosa si dimostrò subito irta di difficoltà. Allora, sicuro che quella sarebbe stata la mia prima ed ultima esperienza come scrittore, mi venne in mente un’altra idea: avrei cercato un finanziatore ed avrei devoluto tutto il ricavato del libro in beneficenza alla Missione della Diocesi di Saluzzo che si trova a Guarulhos in Brasile, nei pressi di San Paulo, dove prestava servizio Dario Ramello, un giovane seminarista cardettese. Proposi la mia idea ad Angelo Ribecco, responsabile dell’area saluzzese della Fideuram, che accettò subito con entusiasmo di fare da sponsor. Il più era fatto. Ora mancava soltanto chi mi curasse l’impaginazione e poi un editore ed una tipografia per stampare il libro. Il primo problema fu risolto da Mario Banchio e Nanni Gianaria del Corriere di Saluzzo, i quali si interessarono direttamente presso la Cooperativa Sale e Luce di Saluzzo, che cura anche le composizioni del Corriere di Saluzzo; il secondo fu risolto dalla tipolitografia Technograf di Piasco che é anche Casa Editrice, sempre grazie all’interessamento di Nanni Gianaria. Restava il titolo. Io avevo in mente Il Portoné e la Marchesina, ma quando proprio Nanni Gianaria mi suggerì `L Portoné `d Cardè, compresi subito che quello era il titolo giusto. E così fu.

`L Portoné `d Cardè é una favola per grandi e piccini ambientata in un’immaginaria Cardé del periodo feudale, che narra di una contrastata storia d’amore tra “Tista `l bel” (Battista il bello), aitante e bruno Portoné dagli occhi verdi,  e la Marchesina Berenice, bellissima fanciulla dagli occhi azzurri e coi capelli biondi, ma triste e infelice. Contrastata soprattutto dal Marchese padre, che non voleva assolutamente vedere la sua unica figlia sposata ad un plebeo. Ma, come in tutte le favole, alla fine, dopo mille intrighi e peripezie,  i due giovani convoleranno a giuste nozze e vivranno felici e contenti.

Del libro feci stampare 500 copie che andarono a ruba in un baleno e, con mia somma gioia, pochi mesi dopo potei spedire la somma ricavata alla Missione di Guarulhos. Un’ultima cosa: il titolo del libro é in dialetto piemontese e Cardè ha la è con l’accento grave (è) anziché acuto (é) perché, nel dialetto piemontese,  la è ha un suono aperto e non chiuso come la é o la e, proprio come richiede la pronuncia piemontese di Cardé.

 

 

VIOLENZA SUL FIUME


  Dopo l’esperienza più che positiva del Portoné `d Cardè, tornai alle solite abitudini rimettendo nel cassetto eventuali altre velleità letterarie. In poche parole ero sinceramente e fermamente convinto che quello sarebbe stato il mio primo e ultimo libro. Ma nella vita non bisogna proprio mai escludere nulla; come diceva James Bond: “mai dire mai”. Infatti a farmi cambiare idea sopraggiunsero alcuni avvenimenti legati alla spaventosa piena del Tanaro del 4 - 5 novembre del 1994. Come racconto in altri capitoli di questo mio sito, tra le altre cose io mi occupo di ambiente, soprattutto di quello fluviale, quindi avevo seguito con attenzione tutto l’evolversi dell’informazione relativa a quel triste evento. All’inizio notai che veniva dato buon spazio alle argomentazioni di tecnici del settore quali geologi, naturalisti, ecc e persino agli ambientalisti, e la cosa mi sorprese positivamente, vista la difficoltà che gli uni e gli altri avevano sempre avuto nel far sentire la loro voce. Pensai: “forse finalmente qualcosa sta cambiando, forse ci si è accorti che a furia di manomettere l’ambiente deforestando, cavando e cementificando ci stiamo scavando la fossa con le nostre mani”. Illusione! Passato poco tempo l’informazione ritornò di dominio degli speculatori, anche perché sono loro ad averne quasi il monopolio. Così tutto fu ribaltato: i tecnici del settore furono rimessi nell’angolo e gli ambientalisti accusati di essere loro la causa di tutti i mali di questo mondo. E così tutte le decisioni sugli interventi da fare tennero conto delle indicazioni degli speculatori, grazie anche alle connivenze, dirette o indirette, che gran parte degli amministratori pubblici a tutti i livelli  hanno con le potenti corporazioni cui gli speculatori fanno capo. Le conseguenze di quegli interventi le avremmo viste nelle successive alluvioni del 1999 e del 2000 e le vedremo sempre più, perché il popolo, annacquato da questo tipo di informazione mistificata, è paradossalmente solidale con gli speculatori e coi loro vassalli e ostile sia agli ambientalisti che addirittura ai tecnici. Proprio questo stato di cose, che purtroppo non solo persiste ma è addirittura aumentato e che, di conseguenza, porterà a disastri sempre maggiori che però sono il pane ed i companatico degli speculatori, mi spinse a scrivere Violenza sul fiume, un romanzo che tratta proprio di questi temi.

Violenza sul fiume è il libro che più amo perché è un libro di denuncia e, secondo me, i libri di denuncia sono sempre i migliori. In esso, attraverso una storia d’amore che nasce tra un cinquantenne ed una venticinquenne dopo un incontro tanto casuale quanto drammatico avvenuto sulla riva di un fiume, metto a nudo tutte le nefandezze che vengono perpetrate ai danni del territorio in generale e dell’ambiente fluviale in particolare, un giro d’affari di milioni di Euro l’anno portato avanti con spietato cinismo sulla pelle dei cittadini. Il titolo ha una doppia valenza: può essere identificato sia con la violenza che appunto subiscono ogni giorno i nostri fiumi, sia con la violenza che subisce la protagonista. É una vicenda drammatica, un “ecothriller”, come è stato definito in una recensione su un giornale locale; è molto autobiografico, anche se l’ambiente dove si svolge la vicenda potrebbe raffigurarsi in una qualsiasi zona d’Italia attraversata da un fiume, per le similitudini che ovunque le contraddistinguono. Proprio per gli scottanti temi trattati ed anche per certe parti scabrose, non mi fu possibile trovare un editore, ma lo feci pubblicare ugualmente finanziandolo e curandolo da solo. Uscì ad aprile del 1998 (500 copie) e dopo nemmeno due mesi avevo già venduto le copie necessarie per rientrare delle spese. Intanto la voce era corsa e a giugno i titolari della libreria Menabò di Saluzzo me lo fecero presentare nel loro locale, dove ottenne grande successo. In seguito lo presentai in altri paesi, tra cui Villafranca Piemonte dove ebbi modo di incontrare i titolari della Casa Editrice Clavilux di Moretta che in seguito avrebbero editato gli altri miei libri. Anche i proventi di Violenza sul fiume, tolte le spese, li ho lasciati in beneficenza alla Croce Rossa di Moretta; per la verità il destinatario originale era l’asilo di Cardé, ma gli amministratori, per motivi che non ho mai compreso, praticamente mi fecero capire che della mia beneficenza non sapevano che farsene. Da allora decisi che mai più avrei fatto beneficenza coi miei libri.

 

 

VITA  DA  CANI


  Il 4 giugno del 1998 morì Pluto, il mio ultimo cane. Tre mesi prima era stato colpito dal cimurro e la veterinaria mi disse subito che ci sarebbe stato più nulla da fare. Io non volevo rassegnarmi e le provai tutte, ma alla fine dovetti arrendermi e gli feci praticare l’eutanasia per porre fine alle sue sofferenze. Nonostante ciò non riesco a perdonarmi questa scelta, perché lui è morto per decisione di colui che più amava. É stata una scelta terribile. Ancora oggi, a volte, mi sembra di impazzire per il dolore. Forse col tempo tutto passerà, ma Pluto mi manca da morire e penso che mi mancherà per sempre. Aveva 12 anni.

Il dolore per la morte di Pluto mi scatenò dentro una marea di sentimenti che a stento riuscivo a contenere; durante una delle tanti notti insonni mi alzai e, quasi fosse un bisogno terapeutico per lenire il mio dolore, cominciai a trasferire su un quaderno tutto quello che avevo dentro, raccontando la vera storia di Pluto ed il bellissimo rapporto di stupenda amicizia che c’era stato fra noi. Un’ora e tutto fu finito, la terapia funzionò, io mi sentii meglio e tornai a letto. Al risveglio rilessi quanto scritto e  mi sembrò bello; però era troppo corto per farne un libro e allora, sempre sfruttando l’onda dei sentimenti, mi rituffai nella scrittura e prima di sera avevo messo giù un’altro racconto, questa volta di pura fantasia, avente come protagonisti alcuni di quelli che erano stati i miei cani: Boby, Chicca, Flash, Dance. Proposi poi il testo alla Casa Editrice Clavilux di Moretta, con la quale avevo avuto contatti proprio pochi giorni prima, e ricevetti parere favorevole. Nacque così VITA...DA CANI. D’accordo con la Clavilux fu deciso di farne un libro per ragazzi e in questo senso collaborò anche la signorina Erica Cravero di Moretta che ne curò le illustrazioni. Lo presentai a Cardé nel settembre del 1999, nell’ambito della festa patronale della Salesea ed ebbe subito un grande successo, tanto che a dicembre la Clavilux dovette provvedere a far stampare la 2ª edizione. Da VITA...DA CANI ho avuto grandi soddisfazioni: le scuole elementari di Villafranca e di None, la scuola media di Moretta e per ultima la scuola materna della frazione Foresto di Cavallermaggiore mi hanno invitato a tenere una lezione sugli animali d’affezione e hanno adottato VITA...DA CANI come libro di lettura, come pure la scuola media di Cavour. Alla fine del 2001 anche la 2ª edizione del libro era praticamente esaurita...e forse non è ancora finita qui.

 

 

IL  CALCIO  DEI  PURI


  Come ho già scritto in un’ altra pagina di questo sito, io ho praticato attivamente il calcio per tanti anni, prima come calciatore, poi come allenatore. Saluzzo, Villafranca, Vigone e Bricherasio sono state le squadre nelle quali ho militato come calciatore; Villafranca, Airasca, Stella Azzurra di Carmagnola, Falicetto, Moretta, Scalenghe e Saluzzo allievi e juniores regionali (questi ultimi come direttore sportivo), le tappe da allenatore. La squadra nella quale ho avuto la militanza più lunga, sia come calciatore (10 anni) che come allenatore (4 anni) è stata il Villafranca, dove sono conosciutissimo e, penso, anche amato. Bene, dopo aver iniziato la mia esperienza come scrittore, molte volte recandomi a Villafranca, soprattutto per motivi legati alla mia attività di corrispondente del Corriere di Saluzzo, venivo fermato da alcuni ex compagni di squadra che mi suggerivano di scrivere un libro sul calcio. «Ma a chi volete che interessi un libro sul calcio dilettantistico!» era la mia immancabile risposta. Poi il 22 gennaio del 2000 morì mio padre; Amos era stato anche lui calciatore dilettante ma a 22 anni o giù di lì s’era rotto il menisco e aveva dovuto abbandonare. Si era all’inizio degli anni 30 e la rottura del menisco significava carriera conclusa. Però rimase un grande appassionato di calcio; anzi, si può dire che fosse la sua unica grande passione. Viveva per il calcio, quando gli riusciva andava a vedere anche due partite per domenica, una al mattino ed una al pomeriggio. E dietro si portava la radiolina per ascoltare le partite della serie A. Dopo la sua morte gli amici di Villafranca si rifecero sotto aggiungendo che il libro poteva essere un’occasione per ricordare anche il mio papà. Ci pensai e decisi di dare loro ascolto; però non avrei scritto un libro che disquisisse di calcio in senso strettamente tecnico, di questo si parla già fin troppo e avrebbe interessato pochi. Mi interessava invece far conoscere la filosofia di vita degli anni 60, guardandola attraverso aneddoti e personaggi del mondo del calcio dilettantistico di quei tempi. Proposi l’idea alla Casa Editrice Clavilux e, avutane risposta affermativa, mi misi al lavoro. Scelti gli aneddoti ed i personaggi che secondo la mia ottica più riflettevano la società di quel periodo, mi misi al lavoro e in meno di 15 giorni la bozza sui soliti quaderni era cosa fatta. Nacque così IL CALCIO DEI “PURI”, dove i “PURI” sono quelli che praticano il calcio per pura passione ed il nome col quale, in quel periodo, venivano indicati i dilettanti del mondo del calcio e del ciclismo. Un libro divertente ma non solo, con personaggi straordinari di un’epoca straordinaria, un libro che si legge tutto d’un fiato. Ovviamente lo dedicai a papà Amos. Il libro uscì a settembre del 2000 e fu presentato a Cardè, sempre in occasione della festa patronale della Salesea, davanti a oltre 200 persone, perlopiù vecchi compagni di squadra.

  Una festa nella festa, anzi, una grande festa e un’indimenticabile rimpatriata tra vecchi amici tutti legati da una grande passione: il calcio.

Come ospite d’onore chiamai Antonio Pairetto, il più famoso arbitro del mondo del calcio dilettantistico piemontese di quei tempi e papà di Pier Luigi, ancor più famoso arbitro di serie A e attuale designatore arbitrale della massima serie. Antonio Pairetto accettò con entusiasmo dando ancor più lustro alla serata. Anche Il CALCIO DEI PURI sta riscuotendo un buon successo.

 

 

IL  TUNNEL


  Nell’agosto del 44, a Cardé, i tedeschi e i repubblichini operarono un furioso rastrellamento che portò alla cattura di molti giovani non alle armi; alcuni, scoperti come partigiani, furono giustiziati, altri deportati nei campi di concentramento in Germania. All’inizio degli anni 90, nella mia veste di cronista per il Corriere di Saluzzo feci una serie di interviste ai sopravvissuti che mi aprirono orizzonti nuovi su quelle terribili vicende. In seguito ebbi modo di ascoltare anche alcuni partigiani, scoprendo così come si conduceva la lotta armata. Tutto ciò sarebbe probabilmente finito nel cassetto dei ricordi se, in questi ultimi anni, non fossero intervenuti alcuni fatti nuovi che, proprio in base a quelle conoscenze, mi hanno spinto a scrivere questo libro: il ritorno feroce del razzismo, dell’antisemitismo, dell’arroganza dei “figli” e dei “nipoti” degli artefici delle orrende persecuzioni di quegli anni, il loro tentativo di stravolgere la storia con la rivalorizzazione del  nazifascismo, la negazione dell’Olocausto e la relegazione della Resistenza ad un patetico ruolo di rappresentazione folkloristica addebitandola ad una certa parte della politica, il loro stesso ritorno al potere. Ripercorrendo a ritroso la Storia, mi sono accorto che certi slogan, certe frasi, certi sistemi di intervento in alcune manifestazioni, oggi ricalcano quanto accadeva all’inizio degli anni 20. Da qui è salita in me la rabbia nel vedere come l’ignavia della gente, tesa solo a guardare il presente, a non accettare il confronto con le diversità, all’esasperazione dell’egoismo coltivando il proprio orticello seminato solo di effimero e di mistificazioni mass-mediali di chi ha ormai in mano l’informazione e, soprattutto, a rifiutare di conoscere la Storia, stia per farci ricadere in quel terribile baratro. Ecco, tutto questo mi ha spinto a scrivere il libro, una sorta di piccolo contributo per invitare a riflettere e soprattutto a non DIMENTICARE.

Queste le ragioni; veniamo ora alla trama.

All’inizio (attorno alla fine del 98), l’unica cosa certa nella mia mente era quella di partire da due presupposti: il rastrellamento di Cardé dell’agosto 44, quindi un fatto storico reale, e il presunto tunnel che si dice unisse Cardé a Villafranca, partendo dal castello e passando sotto il Po. Sulla veridicità dell’esistenza di questo tunnel le versioni sono contrastanti; o meglio: tutti dicono che ci fosse ma nessuno ha mai fornito prove che andassero al di là della verbalità. Da questi due presupposti tra storia, leggenda e fantasia, ho iniziato a tessere la tela, arrivando con la sola fantasia  fino al termine del III° capitolo “Il temporale”. A questo punto mi sono arenato; non sapevo proprio come andare avanti. Nel frattempo iniziai e portai a termine “Vita da... cani” e “Il calcio dei Puri”. A segnare la svolta decisiva fu una telefonata del prof. Aurelio Saccheggiani di Moretta all’inizio del 2001: «Piero, ho saputo che stai scrivendo un libro sulla Resistenza. Avrei da proporti un episodio accaduto qui a Moretta». Ci incontrammo e durante quell’incontro si accese la lampadina: avrei fatto operare nel tunnel di Cardé il gruppo dei miei partigiani immaginari e avrei fatto passare le loro peripezie attraverso episodi realmente accaduti. Per la verità questa seconda parte dell’idea mi derivò da un’altro fatto accadutomi alla fine di marzo del 99. Mi telefonò il prof. Antonio Bodrero, in arte “Barba Tòni”, poeta e cantore del dialetto piemontese (lui, con forza e competenza, la definiva lingua e su questo discutemmo a lungo), proponendomi di scrivere con lui un libro sul Risorgimento. Io ne fui lusingato, ma gli rammentai la mia scarsa conoscenza di questo periodo della Storia d’Italia e, di conseguenza, la perplessità sulle mie capacità di poterne scrivere un libro. Lui non volle sentir ragioni: aveva letto il mio 2° libro “Violenza sul fiume”, gli era piaciuto, apprezzando soprattutto la fantasia e la scorrevolezza (per la verità in quel libro c’era molta autobiografia) e mi invitò a casa sua a Frassino, in Val Varaita, dove ci incontrammo nei primissimi giorni di aprile. Mi raccontò di quattro episodi accaduti nel Risorgimento Piemontese che secondo lui avevano cambiato il corso della Storia ma che non erano stati sufficientemente considerati. La proposta fu questa: «Io le dico quali sono questi episodi, lei si va a fare una ricerca, li mette insieme in ordine cronologico e poi si inventa una storia d’amore tra due personaggi immaginari, (sul tipo dei Promessi Sposi, per intenderci), e ce li fa passare in mezzo». Io ero scettico e feci la mia proposta: «Lei professore si occupa della parte storica e quando l’ha messa insieme mi telefona e concordiamo la parte di fantasia». «Ma ci vuole del tempo» replicò lui. «Beh – risposi – tanto di tempo ne abbiamo». «Lei ne ha!» - fu la sua conclusione sulla quale al momento con lui ci scherzai; ma quando nel novembre dello stesso anno appresi della sua morte, mi suonò come una premonizione. Non seppi e non saprò mai se aveva iniziato quella ricerca e se sì a quale punto fosse, ma decisi di sfruttare per il mio libro l’idea di far passare dei personaggi immaginari attraverso dei fatti storici. Il prof. Saccheggiani e la signora Rita Mellano Reinaldi di Villafranca, alla quale avevo annunciato questa mia nuova fatica letteraria, mi fornirono anche del materiale storico, come libri e documenti sulla Resistenza locale e nazionale, dal quale trassi gli episodi che ritenni più consoni alla trama del libro e ricominciai a scrivere. Ora la trama prendeva vita e le varie situazioni si manifestavano spontanee nel loro divenire, senza alcuna preparazione; mi si presentavano davanti a mano a mano, quasi le stessi vivendo. Anzi: le vivevo. Però fui nuovamente assalito dai dubbi: a me il testo piaceva, ma alla casa editrice? Perciò, giunto alla fine del VI° capitolo “Il partigiano”, consegnai i manoscritti alla casa editrice, che li ritenne meritevoli di essere pubblicati, dandomi la spinta definitiva per portare a termine il libro. Dopo il percorso fu tutto in discesa e in poco tempo il libro fu ultimato. La mia speranza, al di là dell’aspetto commerciale, peraltro tutt’altro che marginale, è comunque quella di riuscire a ricreare l’attenzione in funzione della finalità per la quale ho scritto il libro: NON DIMENTICARE AFFINCHÉ NON SI RICADA NELL’ERRORE! Il Tunnel è stato presentato il 15 dicembre 2001 nella palestra di Cardé davanti a circa 200 persone su organizzazione dell'Amministrazione Comunale e della Proloco. Ne sono state stampate 1000 copie.

 

 

UNA  GRANDE  AMICIZIA


  Devo dire che dopo la pubblicazione di ogni mio libro è per me una costante pensare che sia l’ultimo; non è scaramanzia, ma la consapevolezza che potrebbe essere davvero l’ultimo non essendo io uno scrittore di professione ma esclusivamente per hobby e per ispirazione. A questa regola non è sfuggito nemmeno il post “Il tunnel”, pubblicato nel dicembre 2001. Cos’é allora che mi ha fatto cambiare idea e mi spinto a scrivere “Una grande amicizia”? Come sempre gli avvenimenti della vita quotidiana, le forti frustrazioni che scatenano dentro di me e l’effetto quasi terapeutico che lo scrivere esercita su queste frustrazioni. Quindi lo scrivere come medicina, come bisogno personale che prescinde da qualsiasi tipo di calcolo. È stato così per “Violenza sul fiume”, dove il motivo scatenante è stata la rabbia nel vedere l’ignavia della gente sull’enorme speculazione che si perpetra ai danni dell’ambiente e in particolare dei fiumi, diventati un business da migliaia di miliardi l’anno; è stato così per “Vita...da cani”,  dove il motivo scatenante è stato il dolore per la perdita di Pluto, il mio cane più amato; è stato così per “Il calcio dei puri”, dove il motivo scatenante è stato il dolore per la morte del mio papà, grande amante del calcio, al quale l’ho dedicato; è stato così per “Il tunnel” dove il motivo scatenante è stata la rabbia nel constatare lo stravolgimento che alcuni tentano di fare della storia dell’Italia, relegando la Resistenza quasi a fenomeno da baraccone invece di riconoscerle quei valori storici di libertà e di democrazia che è dovere di tutti noi difendere e sui quali è stata poi fondata la Costituzione Italiana; infine è stato così anche per “Una grande amicizia”, dove il motivo scatenante è stato veder proliferare la cultura dell’odio, scientemente spansa a piene mani per scopi politici e speculativi (razzismo, mercato delle armi, monopolio petrolifero, occupazione di territori strategici, ecc) e spacciata come unica risorsa per risolvere i problemi del mondo. Alcuni, sfruttando il potere politico e mediatico, cercano di far credere che la nostra civiltà, la nostra cultura, sia il modello unico da esportare, che il “diverso” debba essere considerato esclusivamente come motivo di contrasto da combattere, non come una risorsa, un motivo di confronto per allargare e arricchire il bagaglio della nostra conoscenza. La storia, anche la più recente, insegna che questa aberrante teoria non ha prodotto altro che morte e distruzione, ma, nello stesso tempo, anche notevoli vantaggi a chi la propugna. Eppure gran parte dell’umanità continua a cadere nello stesso errore lasciandosi passivamente avvolgere da questi demagogici tentacoli dell’odio che arrivano persino a tacciare come sovversivo chi la pensa diversamente. A me sembra perlomeno curioso che chi parla di amore, di pace, di tolleranza, di solidarietà, possa essere giudicato sovversivo. Ma purtroppo, la storia insegna, è accaduto spesso e continua a accadere. Io penso invece che con la cultura dell’odio non si vada da nessun’altra parte che non sia quella dello scontro continuo fino all’autodistruzione. Io penso invece che l’unica risorsa per risolvere i problemi del mondo sia la cultura dell’amore, o perlomeno della tolleranza e del rispetto delle idee altrui, visto che amore è una parola grossa, difficile da perseguire nel senso pieno del termine. Se poi questo significa essere sovversivi allora lo sono e sono lieto di esserlo, anche se questa mio pensiero ha fatto allontanare da me persone che credevo amici.

Ecco, questi sono i motivi che mi hanno spinto a scrivere “Una grande amicizia”, dove i protagonisti sono un cane e un gatto, le razze antagoniste per antonomasia, i quali però, nel divenire della loro frequentazione,  scoprono come si possa vivere decisamente meglio tentando di sforzarsi a comprendersi invece di farsi la guerra, come si possa convivere fra diversi; e riescono a superare anche le divergenze più profonde fino a diventare veri amici. In “Una grande amicizia” si parla d’amore, di pace, di tolleranza e di solidarietà tra razze diverse. E l’amicizia nella diversità è il messaggio del libro, la metafora che vorrei si trasferisse agli umani (dove ci sono etnie, colori della pelle e culture diverse ma una sola razza, quella umana, appunto...), per un mondo che spero possa diventare migliore di quello attuale, soprattutto per i nostri figli e per i figli dei nostri figli. Perché, come ho sintetizzato in una frase che mi è nata spontanea mentre scrivevo e che è citata all’inizio del libro, L’amore apre tutte le porte dell’anima perché l’amore è vita; l’odio le chiude perché l’odio è morte”.

 

 

UN  MONDO  PERDUTO


  Ogni qual volta mi si chiede la presentazione di un nuovo libro, vengo pervasa da grossa emozione. É sì un grande onore ma è altresì una grossa responsabilità per chi non è scrittore, vergare quella pagina, più o meno lunga, che accompagnerà l’Opera in tutto il suo cammino, ne condividerà le sorti, entrerà nelle case, forse nelle scuole, certo passerà di mano in mano nell’auspicabile successo editoriale. Non è la stessa cosa che farne la presentazione attraverso l’articolo di giornale: lì, pur firmandolo, il pezzo è tale: sempre obiettivo ma fine a se stesso e dovutamente impersonale. Qui è l’opposto, almeno per me: se non lo “sento” non posso scriverne, non posso barare, fingendo o costruendo un qualcosa, anche di elegante nella forma e nel pensiero ma che inevitabilmente risulterebbe freddo. Non sarebbe onesto, soprattutto verso l’Autore. Il problema non esiste con questa, per ora, ultima opera di Piero Strobino, al quale mi lega, oltre ad una connaturata identità di vedute più volte sperimentata, una grande stima personale e professionale. É diverso ed esattamente all’opposto: si fa fatica a tenere a freno l’onda positiva e fertile di pensieri, commenti e sensazioni che l’Opera stessa sa stimolare. Perciò eccomi qui, io, giornalista, a confrontarmi con un Autore, in una pagina che tuttavia, molto modestamente, vuole essere solo il piccolo, grato omaggio di una lettrice a chi ha saputo così bene, attraverso sensibilità ed esperienza, far riaffiorare …Un mondo perduto! E ritrovato, mi sentirei di dire, da tutti coloro che, come me, l’hanno vissuto, anche solo di sguincio, quale cornice alla propria infanzia o prima adolescenza. Lungi dall’essere un mero amarcord, il libro inizia nel dopoguerra, in quell’Italia, e Piemonte in particolare, in fase di trasformazione economica, sociale e morale. Erano gli anni della rinascita che poi sfociarono in quel boom economico che portò ad una fase di lavoro e benessere. Ambientato tra campagna e città, ne tratteggia caratteristiche note e sconosciute dell’una e dell’altra, rispolverando usi, costumi e mestieri forse dimenticati o mai conosciuti dalle ultime generazioni. Specie nei primi capitoli il libro assume valore didattico e storico, oltre che di ottima base per un puntuale dizionario etimologico piemontese per via di quella raccolta di parole riconducibili alla tradizione orale. Un modo di apostrofare nelle forme più varie, dalla blanda censura alla garbata allusione, dalle espressioni di ironica commiserazione al sarcasmo ecc., setacciati dalla tipica parlata piemontese. Ma vi ritroviamo anche il tempo ancora scandito dalle stagioni, e i torrenti puliti, i colori della natura, soprattutto gli incredibili squarci d’azzurro nel cielo…, e le merende semplici e rustiche, le sagre paesane. Per contro, l’arte di arrangiarsi nella grande città, ma anche il piacere dell’onestà, i primi fermenti operai ma anche la vera voglia di lavorare, e le case, e i balconi - ballatoio… Strobino, della grande città, ripropone a me, torinese, i quartieri più antichi, le borgate più pittoresche e per questo più “vere”. Quindi non il cuore elegante di via Roma, appena sfiorato, ma “Porta Palazzo” e il Balon”, allora piccolo mondo “palatino” (proprio come il nome della squadra di calcio locale!), che si intendeva, alla buona, estendersi da via Corte d’Appello alla sponda destra della Dora, racchiuso tra via XX Settembre e via Consolata. Borgate con caratteristiche proprie e inconfondibili, così bene descritte nelle ballate di Gipo Farassino, allora quasi un paese variopinto, dalla dimensione ora campagnola ora affaristica. Assai diverse, il raffronto s’impone, con il quartiere di frontiera attuale, dove un’umanità ansiosa si scontra con un aspetto cittadino non dei più accoglienti. Ma questo è un altro discorso. Per tornare al racconto, ecco finalmente la fabbrica, che fa da cornice a diverse pagine, ecco il lavoro che sfama tutti…, e gli immigrati di varia provenienza che si stagliano netti quali figurine da pagine colorite, precise come una fotografia.  Pian piano prende corpo l’epoca delle colonie estive, delle gite aziendali attese quale occasione di conoscenza e di svago, perché era l’epoca semplice in cui la gente comune scopriva la felicità in un piccolo benessere conquistato, in un amore speciale, in una canzone indimenticabile. Proprio come capita a Pino, ragazzo di campagna giunto a Torino per lavorare, personaggio che incontriamo come per caso in questo contesto, quasi fortuitamente dietro l’angolo di una via del quartiere e del quale e con il quale condividiamo le vicende, fatte di piccoli grandi problemi del quotidiano. Quello di Strobino è un racconto dove è tutto vero, che parla di un passato che occupa ancora le nostre esistenze. Non importa se autobiografico o frutto di ricerca,  se l’Autore ne è stato testimone o attore, perché occorre comunque essere quasi cesellatori della penna per fissare impressioni od esperienze in una sorta di letteratura di memoria. Una memoria discreta, che ha il pregio di aggiungersi a quella di ciascuno, non di sovrapporsi o sostituirsi al passato del lettore, ma di confondervisi, perché è di tutti, non solo di Pino. Perché tutti ricordiamo le ansie adolescenziali, le pulsioni, lo sbocciare dei primi sentimenti…Chi non ha fatto qualche corsa a perdifiato, magari per stare solo cinque minuti con il moroso o la morosa, per poi tornare e sognare, rivivendo tutta la notte quei pochi minuti?!? E poi l’amore per  lo sport, la tragedia del Grande Torino…. Chi non è incocciato in un superiore, professore o datore di lavoro che, anche se non si chiamava Poggi come il caporeparto del racconto, ne aveva le spregevoli caratteristiche!?! E che dire del rapporto duro di Pino con un padre che oggi, senza tema di dubbio, sarebbe definito ostile se non oppressivo? Ma a guardar bene quel padre non era poi tanto dissimile dal nostro buon genitore (in fondo non ci hanno allevato poi tanto male, anzi ci hanno forgiato il carattere rendendoci capaci di affrontare le avversità che la vita ci ha riservato!). Man mano che il romanzo si dipana, si moltiplicano gli eventi belli e brutti e con essi prende costrutto quella fetta di vita che ha interessato la nostra generazione.  Strobino è narratore agile, di immediata presa stilistica e ironicamente complice con i personaggi. Personaggi che recitano la loro parte in un continuo scambio di battute, anche sintatticamente derivate dall’autenticità, dal lessico che gli fu proprio. Dunque un ambiente che viene magistralmente descritto anche nelle sue contraddizioni, così stretto tra il poco che era lecito e il molto che era proibito, ma che lo si faceva lo stesso e magari, proprio per questo dava piacere. L’Autore, si intuisce, si diverte a riproporre, a volte con arguzia, altre sfiorando la ferocia, le situazioni, riuscendo a stimolare un raffronto inevitabile con l’attualità. Perché con le penne grigie semplicemente si conquista la memoria storica, anche se ricordare non sempre significa rivalutare il passato, ma avere dei riferimenti, magari prendendone le distanze per guardare al futuro. Un libro che provoca la stessa emozione come quando all’improvviso ci si ricorda di quei quaderni  con la copertina nera e lo spessore rosso, che vergavamo con i caratteristici pennini “a campanile”, o di quel fuoco nel camino che vegliava i silenzi con il suo respiro irregolare. Un libro come divertissement dell’anima che a volte diamo per dissolta nell’infanzia e che invece scopriamo intatta nel cuore e nel sembiante. Un libro, ancora, scritto con lo sguardo ingenuo della giovinezza. Il segreto di Strobino sta tutto qua: in quell’ingenuità (qualità in disuso?) così poco apprezzata e che invece è scudo e forza, capace di difenderci dal cinismo oggi trionfante, e che ci permette ancora una volta di scoprire quegli incredibili squarci d’azzurro di cui all’inizio, o ritrovare senza tanti risvolti teologici la fede semplice dei P.G.R., o la speranza nello sguardo sempre pulito dei bimbi. Volutamente non mi soffermo sulle ultime pagine del libro, perché ad esse si deve giungere poco alla volta, con lo spazio - tempo imposto dall’evolversi della vicenda. Pagine sulle quali il lettore sensibile e attento rifletterà, estrapolandone il messaggio finale: la resurrezione di noi tutti sulla rivalutazione dei valori veri, senza tempo. Oggi sono di moda le citazioni (fa tanto fino!), cosa che non condivido eccessivamente. Tuttavia questa me la permetto: Ralph Waldo Emerson (famoso filosofo-poeta statunitense) diceva che “…il talento da solo non basta a fare uno scrittore: dietro al libro ci deve essere un uomo”.

Si attaglia bene all’amico e scrittore Piero Strobino e alle sue opere, con le quali, di volta in volta ci esalta, ci scuote, ci fa sorridere e riflettere. Grazie.

 

Maria Grazia Gobbi

Giornalista

Saluzzo, gennaio 2005

 

 

DI  GUERRA,  DI  DONNE  E  DI  FIUMI


  Nell’ormai lontano 1991, quando avevo iniziato da appena un anno la mia collaborazione col Corriere di Saluzzo (che continua tutt’ora), decisi di raccontare le storie di alcuni cardettesi vittime della barbarie nazifascista. L’idea nacque alla vigilia della commemorazione del IV Novembre di quell’anno, una data  che mi parve emblematica. Ne parlai in redazione e ricevetti il via. Tutte le vicende che anno dopo anno raccontai, ebbero come punto di partenza due rastrellamenti che tedeschi e brigate nere compirono a Cardé e dintorni l’11 e il 18 agosto 1944. (Tra l’altro, da queste vicende, alcuni anni dopo presi lo spunto per scrivere il mio 5° libro, “Il tunnel – un viaggio nella lotta partigiana tra storia e fantasia”). Con quegli articoli, il mio scopo era di ridare visibilità agli episodi di quel triste periodo, mai raccontati dai testi di storia o dai grandi libri, facendoli uscire dall’oblio nel quale erano caduti. Storie di gente semplice, di soldati o semplici civili, piccole, grandi storie come tante altre di tanti altri paesi sparsi per l’Italia, che però, tutte insieme, contribuirono a riportare nel nostro Paese la democrazia e la libertà, negate da oltre vent’anni di dittatura fascista. L’effetto, devo dire, fu ottimo, ma ebbe il difetto di durare poco. Dopo una decina d’anni, compresi che gli articoli di un giornale non bastavano per ottenere il risultato prefissatomi all’inizio: gli articoli si leggono, colpiscono d’acchito la fantasia e il cuore della gente, ma col tempo vengono nuovamente rimossi e accantonati in un angolo del cervello. Da qui l’idea di riunire alcune di quelle storie in un libro, perché un libro entra nelle case, vi rimane per sempre e quindi può diventare memoria per le generazioni a venire. Un messaggio forte verso chi, soprattutto negli ultimi tempi, cerca di riabilitare certi tenebrosi personaggi del passato e stravolgere la storia, giocando sulla demagogia della menzogna e dell’odio e sulla perdita della memoria storica che inevitabilmente colpisce le nuove generazioni. É inaccettabile, ad esempio, definire “guerra civile” il periodo che va dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, giorno della Liberazione, e il tentativo di mettere sullo stesso piano (non solo attraverso la demagogia, ma addirittura con un disegno di legge!) chi si schierò contro l’invasore tedesco combattendo per il ripristino della Libertà e della Democrazia, e chi invece si schierò con l’invasore, cosciente che avrebbe combattuto contro suoi compatrioti. La verità storica su questo periodo, aldilà di qualsiasi opportunistica interpretazione e volgare strumentalizzazione, sta scritta nella prima frase di un documento storico e inconfutabile: l’atto di resa incondizionata firmato il 2 maggio 1945 a Biella dal Colonnello di Stato Maggiore Tedesco Faulmuller, su incarico del Generale delle truppe alpine Schlemmer. La frase recita testualmente: “Per incarico del Generale delle truppe alpine Schlemmer, Generale Comandante il LXXV Corpo d’Armata, il Colonnello Faulmuller, Capo di Stato Maggiore del Comando Generale del LXXV Corpo d’Armata, dichiara al Supremo Comando Alleato la resa incondizionata di tutte le truppe tedesche e FASCISTE DIPENDENTI da questo Comando Generale”. Il che significa che i repubblichini erano alle dipendenze (e quindi anche al soldo!) dell’invasore tedesco, non al servizio della Patria Italiana! E se di guerra civile proprio si vuole parlare, allora bisognerebbe ricordarsi di aggiungere che la responsabilità unica fu di Benito Mussolini che la scatenò istituendo la cosiddetta Repubblica Sociale di Salò impostagli da Hitler! La Resistenza in generale, e la lotta partigiana in particolare, nacquero esclusivamente e disinteressatamente per combattere e scacciare l’invasore tedesco dal nostro Paese. Punto. Tutto il resto sono falsità e demagogie messe in atto da figli e nipoti del fascismo, purtroppo ritornati in sella al destriero Italia!

  Però “solo” quelle storie non potevano avere abbastanza consistenza per dare vita ad un libro e allora decisi di uscire dalla cerchia ristretta del mio paese e di aggiungere un’altra storia, della quale, nel frattempo, ero venuto a conoscenza. Questa storia affronta un altro spaventoso evento di quel periodo, la ritirata di Russia, un ulteriore tassello da aggiungere e addebitare al criminale puzzle mussoliniano che costò la vita a centinaia di migliaia di giovani italiani, un’intera generazione mandata coscientemente e cinicamente a morire nel freddo e nel gelo del terribile inverno russo, praticamente senza equipaggiamento militare e con un vestiario assolutamente inadeguato a quei climi; il protagonista é un artigliere di Frabosa Sottana, nel monregalese, che ancora oggi porta sul suo fisico i segni di quella sconvolgente pagina della storia d’Italia

  A questo punto, per quanto mi riguardava, il libro avrebbe anche potuto considerarsi finito, ma i dibattiti accesisi nel corso delle presentazioni della mia precedente opera “Un mondo perduto, mi fecero cambiare idea. Infatti fra i vari temi affrontati in questi dibattiti, temi affrontati dal mio libro, due assunsero particolare intensità: la condizione delle donne nell’immediato periodo ante e post bellico e il terrificante degrado ambientale subìto dal pianeta negli ultimi 50 anni, in particolare quello legato all’ecosistema fluviale. Pertanto decisi di inserire nell’opera in allestimento degli episodi che riguardassero questi due problemi.

  Per quanto riguarda l’ambiente, chi mi conosce sa che su questo tema “vado a nozze” essendoci da anni impegnato in prima linea; quindi non mi è stato difficile trovare degli episodi specifici. Però scelsi una linea “morbida” inserendo, cioè, episodi gustosi, anche esilaranti, che però, nello stesso tempo, mettono in evidenza le differenze e riflettono perfettamente l’attuale tragicità del problema. Per quanto riguarda la condizione delle donne, lo spunto me lo fornirono due signore da me incontrate recentemente. Nel dicembre 2005, un di queste due signore,  facendo riferimento al titolo del mio libro “Un mondo perduto”, disse che di quel mondo non rimpiangeva proprio nulla, elencandomi i soprusi che subivano le donne in quel periodo e facendomi intendere che anche lei ne era stata protagonista. Le spiegai che il mio libro non era “un’operazione nostalgica” ma un romanzo in parte autobiografico dove certe differenze, tra cui anche la condizione delle donne, venivano evidenziate, lasciando però al libero arbitrio del lettore la facoltà di giudicare. Quando ritornai a casa, ripensai alle sue parole e fu lì che presi la decisione di aggiungere almeno una storia su questo tema, magari proprio quella della signora in questione. Per puro caso la incontrai il giorno dopo a Saluzzo; le dissi che avevo riflettuto molto sulle sue parole e la misi a conoscenza del mio progetto. Le vennero le lacrime agli occhi e compresi che doveva aver subire qualcosa di veramente poco piacevole; tuttavia si mostrò titubante all’idea di raccontare e pubblicare la sua storia. Poco tempo dopo, fortunatamente, cambiò idea e mi cercò per collaborare alla stesura del libro. La storia della seconda signora, madre di un mio caro amico è legata alla 2ª guerra mondiale e narra le vicissitudini di una donna russo – tedesca, poi diventata italiana e attualmente residente a Villafranca Piemonte, che, per sua sventura, ebbe modo di sperimentare sulla sua pelle i “convincenti” metodi dei  2 blocchi totalitari che hanno insanguinato il 20° secolo: quello nazista di Hitler e quello comunista di Stalin. Ho appositamente voluto inserire questa storia per stigmatizzare i totalitarismi, i quali, di qualunque colore siano e nella loro vaneggiante ideologia, sono legati con un filo a doppia mandata da due denominatori comuni: il terrore e la violenza. Il terrore come arma di persuasione, come scrisse Lenin in una lettera ad un suo amico riportata su “Arcipelago Gulag” di Aleksandr Solženicyn: “Caro amico, sappi che il terrore è la miglior arma di persuasione”. La violenza usata come persecuzione, punizione, e infine come “estrema ratio” per chi non si sottomette.

  A queste due storie ho poi aggiunto quella di una signora villafranchese, purtroppo già scomparsa, che racconta uno spaccato della dura vita quotidiana del secolo scorso a cavallo tra la fine della 1ª guerra mondiale e l’inizio degli gli anni ‘60, gli anni del cosiddetto boom economico.

  Non aggiungo altro, il resto lo leggerete nel libro, un libro che, nel suo complesso, considero “della memoria”, una memoria in senso ampio, cioè non solo legata a una singola specificità, una memoria da vivere nel presente e da proiettare nel futuro, perché è solo conoscendo la sua storia, la sua evoluzione, che l’uomo può migliorarsi.

 

 

 

 

 

 


 I libri di Piero Strobino si possono trovare nelle migliori librerie del cuneese e del torinese,

nonché in alcune librerie del resto del Piemonte e della Liguria.


 

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Via San Rocco 1  -  12033 Moretta (Cn)  -  Tel e fax  0172-917877

 

 

 

 

 


 

 

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