Lodovico Castelvetro (Modena 1505 - Chiavenna [Sondrio] 1571)

 

Di famiglia agiata (il padre, Giacomo, era banchiere e mercante), compì i primi studi a Modena, sotto la guida di Panfilo Sasso. Studiò legge all’università di Bologna, Ferrara, Padova e Siena, dove conseguì la laurea e frequentò l’Accademia degli Intronati. Accettò l’incarico di lettore di diritto all’università di Modena, rifiutando invece di intraprendere la carriera ecclesiastica, che gli veniva proposta dallo zio Giovanni Maria Della Porta. A causa di una malattia dovette lasciare l’insegnamento, proseguendo così i suoi studi: fondò, insieme ad altri, l’Accademia dei Grillenzoni (che nel 1545 venne sciolta perché sospetta di criptoprotestantesimo).

Nel 1553 espresse, per iscritto, al modenese Aurelio Bellincione, la stroncatura della canzone di Annibal Caro Venite all’ombra de’ gran gigli d’oro; la conseguenza fu una dura polemica tra i due letterati e, per il Castelvetro l’accusa da parte del Caro di aver commissionato l’omicidio di un suo seguace, Alberico Longo, oltre alla condanna a morte in contumacia e alla confisca dei beni.

 

Nel frattempo Castelvetro veniva accusato di eresia dal Tribunale del Santo Uffizio e, nel 1560, ritenuto l’autore di un volgarizzamento di Filippo Melantone: per evitare la condanna per eterodossia lasciò Roma per Ferrara, poi, nel 1561, si trasferì a Chiavenna. Dal 1564 al 1566 insegnò all’università di Ginevra, dove tornò nel 1567 dopo una breve parentesi a Lione, da cui dovette poi fuggire a causa della guerra tra cattolici e ugonotti. Al suo ritorno a Chiavenna, aprì una scuola di studi umanistici; nel 1569 si recò a Vienna, dove l’imperatore Massimiliano gli concesse di stampare la Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta.

Morì a Chiavenna nel 1571.


 

Poetica d'Aristotele vulgarizzata et sposta

 

La Poetica, terminata nel 1567, ebbe la sua prima edizione a Vienna per Gaspar Stainhofer nel 1570 (riprodotta a München, Fink, 1967); una seconda uscì postuma a Basilea nel 1576 (P. de Sedabonis), curata dal fratello Giovanni Maria, che intervenne sul testo. L'edizione critica di Werther Romani (Bari: Laterza, 1978-1979) si basa su entrambe le stampe cinquecentesche.

Ultima tra le grandi esegesi cinquecentesche del testo di Aristotele, la Poetica non propone novità di rilievo sul piano testuale, dove si uniforma all'edizione di Pietro Vettori, mentre si distingue per la traduzione volgare, cui l'autore si applicò con scrupolo. Ma soprattutto, rispetto ai precedenti, Castelvetro assume un atteggiamento di forte autonomia rispetto al testo commentato, con l'obiettivo dichiarato di integrare il trattatello e di edificare una poetica in proprio, che nella concezione aristotelica riconosca i suoi fondamenti, ma non esiti a prenderne le distanze e a sottoporla se necessario a critiche.

 

L'opera è divisa in sei parti principali, a loro volta divise in particelle che sono le porzioni di testo prese in esame. Ogni particella ha quattro sezioni: il testo greco, la "contenenza" (titolo sommario della particella), il volgarizzamento, la "sposizione" (cioè il commento). L'intelaiatura del trattato è data dalla combinazione delle tre componenti dell'imitazione indicate da Aristotele e delle loro articolazioni interne: materia (azioni migliori, simili, peggiori), strumento (numero [cioè danza]; numero-armonia [cioè musica]; numero-armonia-parole in un tempo; numero-armonia-parole in diverso tempo), modo (narrativo; rappresentativo; similitudinario). Le combinazioni possibili sono 95, ridotte a 53 eliminando quelle impraticabili, ma poi di fatto ristrette ai generi tradizionali, con poche aperture sperimentali.

 

Caratteristico di Castelvetro è l'approccio empirico e razionalistico alla materia, il modo di procedere minuzioso e sistematico, talora sconfinante nell'oltranzismo deduttivistico, come apparve chiaro già ai lettori coevi. Ma con queste caratteristiche di sistema in cui ciascun elemento trova adeguata collocazione in un insieme ordinato e razionale, la Poetica rappresenta uno dei vertici della teoria e della critica letteraria del Cinquecento, che a partire dal testo aristotelico aveva spodestato la generica e labile, sul piano definitorio, elaborazione platonica dei primi decenni del secolo e aveva coniugato al piano categoriale di una definizione filosofica dell'arte quello della poetica, con le sue norme concrete e razionalmente comprensibili.

 

Punto di partenza è l'assunto aristotelico che la poesia, avendo come oggetto il verosimile ("rassomigliamento"), che è un principio universale, è opera più filosofica e concettualmente più elevata della storia, ristretta al vero del fatto particolare. Ingrediente centrale della creazione poetica è l'invenzione ("ritrovamento"), su cui Castelvetro insiste moralisticamente sottolineando la "fatica" che sottostà all'attività del poeta e che lo porta a guardare con sospetto i tentativi di conciliazione della poesia con i generi non inventivi, come la storia e le opere ragionative. Il rapporto tra storia e poesia non è assoluto: il poeta è tale perché "ritrova", e il "ritrovamento" riguarda essenzialmente la favola, però talora è impossibile inventare fatti e personaggi, e allora deve ricorrere alle storie, pur restando come sua peculiarità quella di rivestire di universale i fatti particolari e di arricchirli con il verosimile.

Fine essenziale della poesia è il diletto; perciò il verso è indispensabile, in quanto fonte di piacere e indice di un'estetizzazione formale che la distingue dalla lingua della comunicazione, fermo restando che è l'imitazione a costituire lo specifico di essa. 

Destinatario è la «rozza moltitudine», il «popolo comune», il «volgo» degli incolti, che si accosta all'opera poetica non con intenti conoscitivi, ma con disposizione fantastica e con un obiettivo edonistico, cui possono non essere estranei intenti civili più generali, tuttavia mediati e non in forma didascalica. L'accento sul destinatario del messaggio poetico non comporta peraltro l'asservimento della poesia ad un orizzonte sociologico, dato che «la rozza moltitudine» diventa un'astrazione a cui vanno commisurati i valori intrinseci della poesia, in primo luogo la verosimiglianza, onde evitare oscillazioni arbitrarie e soggettive.

 

A proposito della poesia drammatica, Castelvetro è considerato il responsabile della codificazione delle unità (termine non presente nella Poetica) di tempo e luogo, presenti nel dramma classico, e da lui irrigidite in leggi destinate a rimanere inviolate fino al Romanticismo. In realtà egli teorizza la concidenza tra tempo reale vissuto dagli spettatori e tempo della favola fino a una misura massima di dodici ore (poi assunta come regola rigida), onde garantire il rigore formale dell'opera drammatica, provocare il turbamento emozionale dello spettatore e la sua maturazione psicologica, secondo la teoria della catarsi, di cui Castelvetro è rigoroso teorizzatore.

 

Franco Pignatti

( http://www.italica.rai.it/rinascimento/cento_opere/castelvetro_poetica.htm )


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