La «teologia» del lavoro

 

Uno dei tratti più moderni e costruttivi delle Georgiche virgiliane è ravvisabile nella nuova concezione del lavoro, che il poeta sviluppa a partire dal libro I (vv. 121-124; 133-135; 145-146):

"La cura dei campi volle difficile il Padre

stesso e primo li mosse per arte pungendo

i cuori mortali d’affanno né sonno permise

pesante al suo regno (…)

perché meditando l’uomo foggiasse col tempo

le arti diverse e l’erba del grano cercasse

coi solchi e il fuoco nascosto destasse dai sassi.

(…) Tutto vince il lavoro

continuo e nell’aspra giornata l’urgente miseria”

                                            (trad. E. Cetrangolo).

 

La fatica del duro lavoro è dunque «dono» del padre Giove agli uomini, affinché le loro menti non si assopiscano nell’ozio che, per tradizione, genera solo fiacchezza e vizio e ottunde la mente.

Rispetto all’omnia vincit amor dell’ecloga X (v. 69), il labor omnia vicit delle Georgiche (I, 145: vicit è un perfetto di consuetudine) segnala uno stato d’animo più severo e produttivo, il distacco dall’età di Saturno (segnata dalla felicità, grazie all’assenza del labor improbus) e l’ingresso nella storia, nel tempo presente. La personale fatica, quotidiana e incessante, dell’agricola, la sua lotta contro il clima e la terra grama appaiono come le basi stesse di quei mores maiorum che la politica culturale augustea si proponeva di restaurare.

Il mondo dell’agricoltura per Virgilio è in primo luogo il mondo della fatica. Lavorare la terra è un mestiere duro, che richiede sacrificio costante per strapparle quasi con violenza i suoi frutti e per difenderli contro le mille insidie del tempo, degli animali, delle piante infestanti. Ma questa fatica incessante non è per Virgilio pena, bensì dono di Giove all’uomo, perché nell’inerzia non si riduca a bestia, rinunciando a esercitare l’ingegno che dalla bestia lo distingue.

Interessante, in particolare, è il duplice richiamo all’ars (Georg. I, 122 e 133) necessaria per domare la terra e piegarla ai bisogni dell’uomo; ars del tutto superflua nei tempi felici dell’età dell’oro, quando la terra produceva spontaneamente i propri frutti e l’uomo viveva beato, libero dalla fatica e dalla necessità del lavoro. Ma se oggetto dell’opera virgiliana è per l’appunto questa particolare ars, il poeta esplicitamente afferma allora di non rivolgersi ai futuri cittadini della nuova età dell’oro, bensì ai presenti e sofferenti cittadini dell’età del ferro, i soli a trarre giovamento dagli insegnamenti dell’ars. Le Georgiche non serviranno più allorché l’età dell’oro ritornerà sulla terra grazie a Ottaviano (vedi ecloga 4); raramente un poeta sembra avere avuto tanto chiara nella mente l’aspirazione alla propria inutilità: la poesia georgica di Virgilio si presenta al lettore non come poesia del futuro, bensì come poesia del presente, legata al contingente, non a una dimensione metastorica.

ll vecchio di Còrico

Il poeta aggiungerà tuttavia nel libro II: fundit humo facilem victum iustissima tellus (v. 460), "produce dal suolo facile cibo la terra giustissima", notando che la terra generosa non vanifica il lavoro umano, ma lo ricompensa e lo fa fruttificare, restituendo con equità i suoi prodotti in cambio della fatica profusa. È l’idea che sta alla base del quadro del vecchio di Còrico (IV, 125-148), l’immagine paradigmatica di un rapporto sano e fraterno tra l’uomo e la natura: Virgilio descrive un meraviglioso giardino, che ebbe personalmente modo di ammirare a Taranto, fatto fruttificare da un vecchio contadino proveniente da Còrico, in Cilicia: ne ricavava frutta e fiori in ogni stagione, vivendo « in cuor suo ricco come un re ». Al motivo dell’equità della terra, che restituisce all’uomo il frutto degli sforzi compiuti , si somna nel brano il motivo epicureo dell’autárkeia, che è il valore di chi, come il saggio o l’agricoltore di Còrico, pone il principio della felicità dentro e non fuori di sé e che perciò sa vivere secondo equilibrio e misura.

Abbandonata l’utopia delle Bucoliche di un’età dell’oro perduta per sempre, Virgilio approda ora a una visione del mondo più matura, nella quale il lavoro non appare più come un’assurda condanna, ma viene rivalutato nel suo significato profondo e nel suo pregnante valore etico-culturale.

 

Dalle Georgiche all’Eneide

Si può riassuntivamente affermare che nelle Georgiche Virgilio ha voluto cantare “la trasformazione della natura in cultura" (G. B. Conte) attraverso il lavoro dell’uomo, superando la dolcezza consolatoria del canto bucolico. La sua poesia si è spostata su un terreno ben più impegnativo, che sarà poi quello stesso dell’Eneide. Al poema epico che seguirà, le Georgiche assai più delle Bucoliche possono essere accostate, per diversi motivi.

Anzitutto per lo stile maggiormente ricercato, sintatticamente elaborato e ricco di una filigrana preziosa di allusioni, citazioni, echi e rimandi, secondo i canoni del più raffinato alessandrinismo. Qualità pittorica, sensibilità musicale, pieno adeguamento della forza espressiva del verso al senso, queste le conquiste che si rivelano al massimo livello nel poema georgico, un’opera che un illustre critico e storico della letteratura come Concetto Marchesi ritenne "il" capolavoro della letteratura latina, superiore, sul piano intrinseco dell’arte poetica, alla stessa Eneide.

Ma anche a livello concettuale si riscontrano spunti destinati a successiva rielaborazione nel poema di Enea; l’umanizzazione della natura, un tratto già notato nelle Bucoliche, si sposa nelle Georgiche con la capacità ormai pienamente matura di rappresentare la vita umana nella sua complessità, con le sue gioie e le sue sofferenze, con i segni della presenza divina e della paterna provvidenza, motivi che appartengono all’ispirazione profonda dell’Eneide.

Un’importanza particolare assume poi nel poema georgico la componente italica, vista come matrice culturale che sta alla base stessa della grandezza di Roma. Abbiamo qui un’ulteriore riprova dell’adesione virgiliana al progetto culturale di Augusto e di Mecenate, benché tale motivo affondi le proprie radici anzitutto nel vissuto del poeta mantovano, ben consapevole dell’insostituibile apporto dei «provinciali» nella costruzione dell’impero.


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