Recensione del film Fratello, dove sei? dei fratelli Cohen

 

Ulisse e i suoi fratelli

 

ANTONIO GNOLI

Everett Ulysses McGill è un signore dal passato oscuro, e dal futuro incerto. Il suo presente è occupato da una fuga. Perché Ulysses è un evaso, un condannato ai lavori forzati, che fugge. Ma fugge per andare dove? L’ultimo film dei fratelli Coen: Fratello dove sei? — già ampiamente recensito dai giornali che lo hanno perlopiù rubricato fra le opere meno riuscite — ci racconta le avventure di questo protagonista cui George Clooney ha prestato un volto curiosamente ilare. Curioso perché Ulysses, una sorta di bellimbusto, vorrebbe essere (forse è) grosso modo l’Odisseo delle nostre letture classiche: l’eroe omerico a cui i Coen dichiarano di ispirarsi.
Non è la prima volta che il cinema si richiama, più o meno direttamente, all’Odissea. Da Camerini a Anghelopulos, sono numerosi i registi che hanno provato a riscrivere per immagini quel poema. Sono numerosi e aggiungiamo perfino sorprendenti i risultati. Qualcuno ricorderà l’omaggio western che Duccio Tessari fece all’Odissea con Il ritorno di Ringo. E’ la potenza dell’archetipo da cui si dipanano i bizzarri fili della vita: le avventure, i naufragi, gli amori, le sfide, i duelli, la fedeltà, la menzogna e infine la morte, il potere di darla o riceverla, a renderci caro quel mito, a vederlo rigenerare nelle forme a volte fantasiose, a volte improbabili. Che vuole di più il cinema? Che vuole di meglio?
Ma non è questo, dopotutto, che interessa ai fratelli Coen. Probabilmente loro non hanno neppure letto l’Odissea, come qualche critico ha insinuato. Probabilmente ne conoscono il contenuto "solo per sentito dire".
Si può parlare di qualcosa che non si conosce? E’ una questione delicata che viene alla mente non solo guardando Fratello dove sei?, ma anche ricordando una pagina di Kundera in cui si dice che Kafka non aveva nessuna conoscenza dell’America, eppure su quel paese scrisse nientemeno che un romanzo. Che cosa lo spingeva, che cosa lo autorizzava, a farlo? Crediamo che il motivo ancora una volta fosse riconducibile al mito. Kafka immaginò l’America come un grande mito da rileggere in una personalissima versione. Non fa lo stesso in un racconto dedicato alle Sirene di Omero, che invece di cantare tacciono? Cosa vorrà dire quel loro silenzio? Cosa vorrà dire quel sottile stravolgimento di senso? E poi: non si comportano allo stesso modo i Coen con il mito di Odisseo?
Entrambi ritengono che — a meno di non essere degli eruditi — il Mito non richiede, a differenza del Logos, conoscenze specifiche. Si obietterà che tutto ciò è scandaloso. Come si può infatti confondere un signore impomatato, ossessionato dai suoi capelli protetti da una ridicola retìna, con l’eroe greco, destinato alle grandi imprese? Da un lato c’è un ex barbiere, il cui baffetto sottile rimanda a Clark Gable, incline alla truffa (si spaccia per avvocato, ma non ha la licenza), dalla parlantina facile; dall’altro c’è un’icona che proietta sulla modernità tutte le sue caratteristiche: l’astuzia certo, la forza non c’è dubbio, ma anche quel sottile disagio che nasce dall’irrequietezza, da un certo horreur du domicile. Che cosa li accomuna? Che cosa li dovrebbe rendere simili?
Fermiamoci un momento. E cominciamo a sfogliare un libretto appena pubblicato dalle edizioni Il Manifesto e che si intitola Interpretazione dell’Odissea, ottimamente curato da Stefano Petrucciani (pagg. 127, lire 25.000). Si tratta di un capitolo in parte inedito che Adorno aveva dedicato a Ulisse e che sarebbe dovuto comparire nel più celebre Dialettica dell’Illuminismo. Che cosa ci dice Adorno che già non sappiamo? Ci dice che Ulisse è il prototipo della razionalità calcolante, l’antesignano dell’uomo borghese, del mercante che conosce l’arte dell’inganno e l’applica pur di veder accresciute le proprie sostanze. E guai a toccaglierle, guai a minacciargliele, si rischia di far la fine dei pretendenti.
Certo, Odisseo ha qualità eroiche che lo spingono all’avventura. Ma che cosa è l’avventura se non l’aspetto irrazionale della razionalità di Ulisse (ossia l’irrazionalità stessa dell’economia borghese)? Fra le tante letture che l’Odissea ha sollecitato (ha sopportato) c’è dunque anche questa: Adorno vede nelle gesta di Ulisse la fine del mito, la fine del mondo arcaico, ma anche in un certo senso la sua sopravvivenza.

Col passaggio dal mito all’Illuminismo si assiste non solo a una emancipazione della ragione, ma anche a una sua mitologizzazione. Dice Kerény nel colloquio con Adorno (un prezioso dialogo messo alla fine del libretto): «La mitologia è l’arte del raccontare intorno agli dèi». E il cinema non è forse il modo (anche questo per lo meno) di raccontare attorno ai nostri dèi, ai nostri dèmoni, alle nostre illusioni? Quel mondo di ombre e di luci che è stato il mito ha lasciato il posto al mondo di ombre e di luci che è il cinema. Si tratta di capire che uso se ne può fare. Una parte del grande cinema hollywoodiano ne ha fatto l’uso più ovvio, più prevedibile, forse più giusto: ha riscritto semplicemente il mito americano, gli ha fornito lo specchio su cui riflettersi. Non è ciò che hanno fatto John Ford Con Ombre rosse, o Francis Ford Coppola con Il Padrino? Ma sì, l’epica rivive anche attraverso le gesta degli eroi interpretati dai John Wayne o dai Marlon Brando.
Eppure non è questo lo schema che sorregge il sofisticato impianto dei Coen. Al contrario. Essi decostruiscono il mito. Guardano al suo interno fino a scoprirne la fragilità, che è la stessa dell’America, che è la stessa di un certo cinema che ha cantato (come le Sirene) quel mondo. Non era meglio farle tacere, avrebbe insinuato Kafka, o almeno prendere un’altra direzione, come quella imboccata dai Coen?
I due fratelli (uno prevalentemente produce, l’altro sta dietro la macchina da presa, ma entrambi scrivono le sceneggiature) ci dicono che il cinema non è più dove l’America lo aveva messo o dove noi lo avevamo trovato: al centro di quel mondo in cui i sogni e la vita si intrecciano. Ci dicono che qualcosa nel frattempo è accaduto. Ma che cosa? Prendete le loro opere più recenti: Fargo è un grande film sulla stupidità e sulla distruzione del "self made man"; Il grande Lebowski è il trionfo dell’antieroismo, ma anche, come dire?, un monumento alla pigrizia intesa come il ribaltamento di uno dei miti americani più venerati e considerati intoccabili: la competizione.
Anche Fratello dove sei? concorre a suo modo per restituire una faccia insolita dell’America: siamo nel profondo Sud ai tempi della Grande Depressione. Quante volte gli effetti della grande crisi sono stati raccontati e descritti? Perciò è inutile indugiare sulla fame, sulla disperazione, che quell’evento produsse. Inutile soffermarsi sull’immane tragedia che coinvolse in egual misura il mondo rurale e quello cittadino. Molto meglio allora raccontare le buffonesche avventure di un Ulisse dei nostri tempi, un improbabile Odisseo attorniato da altrettanti improbabili e straordinari comprimari: Tiresia fa l’operaio per le ferrovie, Polifemo è un venditore di Bibbie, le Sirene sono tre procaci lavandaie, Penelope una moglie che non vede l’ora di riaccasarsi con un certo Homer (!) che di mestiere non fa il poeta ma è uno stratega pubblicitario al soldo di un politico che concorre all’elezione di Governatore per lo Stato del Mississippi. Ecco, siamo nel pieno di una campagna elettorale. Vi dice niente? Vi ricorda qualcosa? Le avventure di Ulysses Everett passano attraverso questi due scogli perigliosi, tra Scilla e Cariddi. Ma in fondo è indifferente su quale dei due si farà naufragio. Ciò che importa è che una campagna elettorale si faccia con idee nuove. E’ il progresso che lo richiede. E a questo penseranno gli Homer di turno.
Quello del film dei Coen somiglia in modo impressionante a Joyce. Forse è un caso, forse è l’ennesima allusione ai tanti modi per declinare la parola Ulisse. Come pure è un caso che Joyce aveva in grande attenzione il cinema, le sue potenzialità e che per una certa fase della vita svolse a Dublino il lavoro di gestore di cinema. Ecco cosa piace ai Coen, a Joel ed Ethan piace scherzare. Ai loro occhi il cinema è l’illusione che può mettere in scena solo ciò che non è mai esistito o che non esiste più. Della realtà non si parlerà mai, essa è un puro gioco cinematografico, o mitologico come insegnarono i grandi mitografi del passato. La realtà è solo un insieme di fugaci fotogrammi tra due citazioni prese in prestito da altri film. Perché, in fondo, i Coen amano citare, amano scomporre, amano darci freddamente del cinema la parte più leggera e scherzosa.
Omero entra in questa leggerezza. Aver affidato a Clooney la parte di un Ulisse alla brillantina (quando era già involontario Ulisse ne La tempesta perfetta) quasi che l’Illuminismo adorniano sia inseparabile da una certa untuosità filosofica, non è solo antifilologia, è anche il modo, il solo che i due fratelli prediligono, per dirci che fare cinema è esibirsi sul vuoto. Che vero e falso non sono alternativi o connessi, ma puramente interscambiabili. Come i due Ulisse. Chi può smentire? Chi può approvare? La sola cosa che vediamo è il Mito che trapassa nel Logos e un Logos che si reinventa nel Mito. Tutto è disponibile e tutto in fondo è inutile. Si resta nella retorica, nel cinema che abbandona l’esperienza e si traveste di ironia: «Assisteremo alla nascita di un nuovo mondo, alla vera età della ragione», proclama Ulysses Everett mentre con gli amici è aggrappato a una tavola per non essere travolto dall’inondazione. Ben presto la grande vallata fornirà elettricità a tutti gli abitanti. Siamo in piena dialettica dell’illuminazione.

 

 

Tratto da "La Repubblica" del 3 dicembre 2000

 


Home Ulisse