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Ulisse e i suoi fratelli
Everett
Ulysses McGill è un signore dal passato oscuro, e dal futuro incerto. Il suo
presente è occupato da una fuga. Perché Ulysses è un evaso, un condannato ai
lavori forzati, che fugge. Ma fugge per andare dove? L’ultimo film dei
fratelli Coen: Fratello dove sei? — già ampiamente recensito dai giornali
che lo hanno perlopiù rubricato fra le opere meno riuscite — ci racconta le
avventure di questo protagonista cui George Clooney ha prestato un volto
curiosamente ilare. Curioso perché Ulysses, una sorta di bellimbusto, vorrebbe
essere (forse è) grosso modo l’Odisseo delle nostre letture classiche:
l’eroe omerico a cui i Coen dichiarano di ispirarsi.
Non è la prima volta che il cinema si richiama, più o meno direttamente,
all’Odissea. Da Camerini a Anghelopulos, sono numerosi i registi che hanno
provato a riscrivere per immagini quel poema. Sono numerosi e aggiungiamo
perfino sorprendenti i risultati. Qualcuno ricorderà l’omaggio western che
Duccio Tessari fece all’Odissea con Il ritorno di Ringo. E’ la potenza
dell’archetipo da cui si dipanano i bizzarri fili della vita: le avventure, i
naufragi, gli amori, le sfide, i duelli, la fedeltà, la menzogna e infine la
morte, il potere di darla o riceverla, a renderci caro quel mito, a vederlo
rigenerare nelle forme a volte fantasiose, a volte improbabili. Che vuole di più
il cinema? Che vuole di meglio?
Ma non è questo, dopotutto, che interessa ai fratelli Coen. Probabilmente loro
non hanno neppure letto l’Odissea, come qualche critico ha insinuato.
Probabilmente ne conoscono il contenuto "solo per sentito dire".
Si può parlare di qualcosa che non si conosce? E’ una questione delicata che
viene alla mente non solo guardando Fratello dove sei?, ma anche ricordando una
pagina di Kundera in cui si dice che Kafka non aveva nessuna conoscenza
dell’America, eppure su quel paese scrisse nientemeno che un romanzo. Che
cosa lo spingeva, che cosa lo autorizzava, a farlo? Crediamo che il motivo
ancora una volta fosse riconducibile al mito. Kafka immaginò l’America come
un grande mito da rileggere in una personalissima versione. Non fa lo stesso in
un racconto dedicato alle Sirene di Omero, che invece di cantare tacciono? Cosa
vorrà dire quel loro silenzio? Cosa vorrà dire quel sottile stravolgimento di
senso? E poi: non si comportano allo stesso modo i Coen con il mito di Odisseo?
Entrambi ritengono che — a meno di non essere degli eruditi — il Mito non
richiede, a differenza del Logos, conoscenze specifiche. Si obietterà che
tutto ciò è scandaloso. Come si può infatti confondere un signore
impomatato, ossessionato dai suoi capelli protetti da una ridicola retìna, con
l’eroe greco, destinato alle grandi imprese? Da un lato c’è un ex
barbiere, il cui baffetto sottile rimanda a Clark Gable, incline alla truffa
(si spaccia per avvocato, ma non ha la licenza), dalla parlantina facile;
dall’altro c’è un’icona che proietta sulla modernità tutte le sue
caratteristiche: l’astuzia certo, la forza non c’è dubbio, ma anche quel
sottile disagio che nasce dall’irrequietezza, da un certo horreur du
domicile. Che cosa li accomuna? Che cosa li dovrebbe rendere simili?
Fermiamoci un momento. E cominciamo a sfogliare un libretto appena pubblicato
dalle edizioni Il Manifesto e che si intitola Interpretazione dell’Odissea,
ottimamente curato da Stefano Petrucciani (pagg. 127, lire 25.000). Si tratta
di un capitolo in parte inedito che Adorno aveva dedicato a Ulisse e che
sarebbe dovuto comparire nel più celebre Dialettica dell’Illuminismo. Che
cosa ci dice Adorno che già non sappiamo? Ci dice che Ulisse è il prototipo
della razionalità calcolante, l’antesignano dell’uomo borghese, del
mercante che conosce l’arte dell’inganno e l’applica pur di veder
accresciute le proprie sostanze. E guai a toccaglierle, guai a minacciargliele,
si rischia di far la fine dei pretendenti.
Certo, Odisseo ha qualità eroiche che lo spingono all’avventura. Ma che cosa
è l’avventura se non l’aspetto irrazionale della razionalità di Ulisse
(ossia l’irrazionalità stessa dell’economia borghese)? Fra le tante
letture che l’Odissea ha sollecitato (ha sopportato) c’è dunque anche
questa: Adorno vede nelle gesta di Ulisse la fine del mito, la fine del mondo
arcaico, ma anche in un certo senso la sua sopravvivenza.
Col passaggio dal mito all’Illuminismo si assiste non solo a una
emancipazione della ragione, ma anche a una sua mitologizzazione. Dice Kerény
nel colloquio con Adorno (un prezioso dialogo messo alla fine del libretto): «La
mitologia è l’arte del raccontare intorno agli dèi». E il cinema non è
forse il modo (anche questo per lo meno) di raccontare attorno ai nostri dèi,
ai nostri dèmoni, alle nostre illusioni? Quel mondo di ombre e di luci che è
stato il mito ha lasciato il posto al mondo di ombre e di luci che è il
cinema. Si tratta di capire che uso se ne può fare. Una parte del grande
cinema hollywoodiano ne ha fatto l’uso più ovvio, più prevedibile, forse più
giusto: ha riscritto semplicemente il mito americano, gli ha fornito lo
specchio su cui riflettersi. Non è ciò che hanno fatto John Ford Con Ombre
rosse, o Francis Ford Coppola con Il Padrino? Ma sì, l’epica rivive anche
attraverso le gesta degli eroi interpretati dai John Wayne o dai Marlon Brando.
Eppure non è questo lo schema che sorregge il sofisticato impianto dei Coen.
Al contrario. Essi decostruiscono il mito. Guardano al suo interno fino a
scoprirne la fragilità, che è la stessa dell’America, che è la stessa di
un certo cinema che ha cantato (come le Sirene) quel mondo. Non era meglio
farle tacere, avrebbe insinuato Kafka, o almeno prendere un’altra direzione,
come quella imboccata dai Coen?
I due fratelli (uno prevalentemente produce, l’altro sta dietro la macchina
da presa, ma entrambi scrivono le sceneggiature) ci dicono che il cinema non è
più dove l’America lo aveva messo o dove noi lo avevamo trovato: al centro
di quel mondo in cui i sogni e la vita si intrecciano. Ci dicono che qualcosa
nel frattempo è accaduto. Ma che cosa? Prendete le loro opere più recenti:
Fargo è un grande film sulla stupidità e sulla distruzione del "self
made man"; Il grande Lebowski è il trionfo dell’antieroismo, ma anche,
come dire?, un monumento alla pigrizia intesa come il ribaltamento di uno dei
miti americani più venerati e considerati intoccabili: la competizione.
Anche Fratello dove sei? concorre a suo modo per restituire una faccia insolita
dell’America: siamo nel profondo Sud ai tempi della Grande Depressione.
Quante volte gli effetti della grande crisi sono stati raccontati e descritti?
Perciò è inutile indugiare sulla fame, sulla disperazione, che quell’evento
produsse. Inutile soffermarsi sull’immane tragedia che coinvolse in egual
misura il mondo rurale e quello cittadino. Molto meglio allora raccontare le
buffonesche avventure di un Ulisse dei nostri tempi, un improbabile Odisseo
attorniato da altrettanti improbabili e straordinari comprimari: Tiresia fa
l’operaio per le ferrovie, Polifemo è un venditore di Bibbie, le Sirene sono
tre procaci lavandaie, Penelope una moglie che non vede l’ora di riaccasarsi
con un certo Homer (!) che di mestiere non fa il poeta ma è uno stratega
pubblicitario al soldo di un politico che concorre all’elezione di
Governatore per lo Stato del Mississippi. Ecco, siamo nel pieno di una campagna
elettorale. Vi dice niente? Vi ricorda qualcosa? Le avventure di Ulysses
Everett passano attraverso questi due scogli perigliosi, tra Scilla e Cariddi.
Ma in fondo è indifferente su quale dei due si farà naufragio. Ciò che
importa è che una campagna elettorale si faccia con idee nuove. E’ il
progresso che lo richiede. E a questo penseranno gli Homer di turno.
Quello del film dei Coen somiglia in modo impressionante a Joyce. Forse è un
caso, forse è l’ennesima allusione ai tanti modi per declinare la parola
Ulisse. Come pure è un caso che Joyce aveva in grande attenzione il cinema, le
sue potenzialità e che per una certa fase della vita svolse a Dublino il
lavoro di gestore di cinema. Ecco cosa piace ai Coen, a Joel ed Ethan piace
scherzare. Ai loro occhi il cinema è l’illusione che può mettere in scena
solo ciò che non è mai esistito o che non esiste più. Della realtà non si
parlerà mai, essa è un puro gioco cinematografico, o mitologico come
insegnarono i grandi mitografi del passato. La realtà è solo un insieme di
fugaci fotogrammi tra due citazioni prese in prestito da altri film. Perché,
in fondo, i Coen amano citare, amano scomporre, amano darci freddamente del
cinema la parte più leggera e scherzosa.
Omero entra in questa leggerezza. Aver affidato a Clooney la parte di un Ulisse
alla brillantina (quando era già involontario Ulisse ne La tempesta perfetta)
quasi che l’Illuminismo adorniano sia inseparabile da una certa untuosità
filosofica, non è solo antifilologia, è anche il modo, il solo che i due
fratelli prediligono, per dirci che fare cinema è esibirsi sul vuoto. Che vero
e falso non sono alternativi o connessi, ma puramente interscambiabili. Come i
due Ulisse. Chi può smentire? Chi può approvare? La sola cosa che vediamo è
il Mito che trapassa nel Logos e un Logos che si reinventa nel Mito. Tutto è
disponibile e tutto in fondo è inutile. Si resta nella retorica, nel cinema
che abbandona l’esperienza e si traveste di ironia: «Assisteremo alla
nascita di un nuovo mondo, alla vera età della ragione», proclama Ulysses
Everett mentre con gli amici è aggrappato a una tavola per non essere travolto
dall’inondazione. Ben presto la grande vallata fornirà elettricità a tutti
gli abitanti. Siamo in piena dialettica dell’illuminazione.
Tratto da "La Repubblica" del 3 dicembre 2000