Articolo di U. C. Tonelli

 

ODISSEO EROE OMERICO

ULISSE EROE DANTESCO

DYLAN DOG EROE ...... ?

 

1.  Introduzione

 

            L’attuale situazione culturale del nostro paese, influenzata come molti più dai modelli americani che da quelli europei ed in particolare nostrani, tende sempre a presentare una figura “eroica” diversa da tutto ciò che dell’aggettivo “eroico” possiamo pensare, grazie alle nostre conoscenze di letteratura e di altre forme d’arte.

            Il termine “eroe” deriva, come moltissime parole italiane, dal greco eroes, che vuol dire «impeto, slancio, assalto», sostantivo che a sua volta si rifà al verbo eroèo, vale a dire «scaturisco, irrompo», che ha poi la stessa radice dei verbi rònnumi e ròmai, dal significato quasi simile di «sono forte» e «mi agito».

            Come si vede, l’etimologia della parola “eroe” mantiene sempre una valenza attiva, di protagonismo, quasi sempre applicato in ambito guerriero. E infatti abbiamo due eloquenti definizioni del termine “eroe” dall’Ariosto, che ce lo descrive prima «nella mitologia greco-romana» come «figlio nato dall’unione della divinità con un mortale, e dotato di virtù eccezionali», ed in seguito semplicemente come «chi sa lottare con coraggio e generosità per un ideale; uomo illustre specialmente per valore guerriero».

            Quasi un secolo più tardi, il Fioretti ci definisce l’“eroe” come «personaggio principale di un’opera letteraria»[1]. Come si può ben notare, la parola “eroe” ha perso, col passare dei secoli, il suo primigenio significato di unione naturale con la divinità, simbolo di virtù possedute ed esercitate tanto nel combattimento quanto nella vita di tutti i giorni, per divenire semplice sinonimo di “protagonista”, “personaggio principale”.

            Prendiamo come riferimento delle nostre dissertazioni que­ste tre definizioni d’autore, che riassumiamo in tre semplici asserzioni:

            1.             Eroe                         uomo imparentato con una divinità

            2.             Eroe                         uomo virtuoso e (in senso ampio) guerriero

            3.             Eroe                         semplice protagonista di una vicenda

            Inutile sottolineare che nel linguaggio comune il significato del termine “eroe” è a metà fra l’asserzione 2 e la 3, mentre la 1 è ormai rimasta solo in ambito letterario.

 

2. Odisseo, l’uomo dell’«oltre»

 

            Odisseo, nel mito greco, rappresenta forse la più alta figura eroica, in un senso però che già ha perso molto del significato 1 della nostra classificazione. In lui è quasi riassunta l’intera gamma di aspirazioni dell’uomo ellenico.

            Di Edipo ha la spasmodica ricerca della verità; di Prometeo la sfida al divino e la lungimiranza; di Achille il vigore e la destrezza nelle armi, e via dicendo. Oltre a ciò, ed è la caratteristica pregnante del personaggio, si trova in possesso di un’intelligenza non indifferente, unita a scaltrezza, astuzia, inventiva, fantasia, ingegno, che gli hanno valso l’epiteto di polùtropos.

            Odisseo, «l’odiato» nell’accezione originale, non è un semi­dio, ma un uomo. Ed oltre a ciò è un eroe, non solo perché virtuoso e guerriero, ma perché reale protagonista di ciò che gli accade; faber fortunæ suæ  come si dice. Il suo eroismo è intessuto sia dall’esercizio continuo di quelle virtù che gli abbiamo poc’anzi attribuito, che dalla continua scelta di protagonismo che fa della sua vita.     

            Il suo vagabondare per il Mediterraneo in preda alle volubilità degli dèi, ad una prima lettura chiaro assenso alla ineluttabilità del fato, fa parte invece di un’immensa metafora del protagonismo umano che riesce ad imporsi anche sul destino avverso. In fondo, se vogliamo, tra Poseidone che non voleva far tornare Odisseo in patria e lo stesso eroe, la spunta quest’ultimo, certo anche per intercessioni divine.

            La statura del personaggio è poi oltremodo costruita sulla continua sfida a sé stesso e agli dèi, nella perenne ricerca dell’“oltre”, del “mai provato”, non per semplice desiderio di trasgressione fine a sé stesso, ma per una spasmodica sete di sapere che nulla vuole negarsi perché nulla può negarsi, legata com’è al desiderio di conoscenza connaturale all’uomo[2]. Odisseo che si fa legare all’albero della nave per sentire il canto delle sirene, Odisseo che vuole esplorare l’antro di Polifemo, Odisseo che si addentra nei meandri dell’Ade; ogni sua esperienza è una sfida a tutto ciò che di “tabù” vi è nella cultura di quei tempi. Lo stesso desiderio, potente e inquieto, di rivedere Itaca, a volte sembra assopirsi dinanzi a un’isola da esplorare, un popolo da conoscere, e via dicendo.

            Tuttavia, questo vagabondare continuo, denso della ricerca di qualcosa che permetta all’uomo di superare sé stesso, si conclude, alfine, nel nostoV, nel ritorno, che conclude sottolineando ulteriormente le qualità e le caratteristiche di quest’uomo: il coraggio, l’astuzia, la pazienza e, in un certo senso, la giustizia, nel silenzioso arrivo ad Itaca e nella premeditata strage dei Proci; l’amore e la riconoscenza nell’incontro con Penelope; la severità affettuosa nei rapporti con figlio; la pietà filiale in quelli col vecchio padre.

            L’Odisseo di Itaca, se vogliamo, completa il vagabondo dei mari fino ad allora conosciuto, dandogli un tratto di umanità maggiore, che lo rende ancor più integro nella sua multiforme personalità.

            Un ultimo spunto di riflessione può essere la capacità di Odisseo, cosa che lo rende ancora una volta e sempre più “eroe”, di portare a termine le cose che fa.

            L’apertura, già sottolineata, alle più inimmaginabili esperienze porta immancabilmente ad una conclusione di esse, in cui Odisseo risulta vincitore.         

            Non solo sfida, ma vince anche.

            Ed è anche questa continua vittoria nelle sue avventure che lo fa sempre più uomo, sempre più al di sopra dell’uomo.

 

3. Ulisse, l’eroe sconfitto

 

            Molti dei tratti citati nel § 2 li ritroviamo nel XXVI° canto dell’Inferno dantesco, ove patiscono le inquiete anime dei consi­glieri fraudolenti, imprigionati da fiamme che li divorano senza consumarli.

            Dante è attratto, come sappiamo, da una fiammella divisa in due rami, di cui uno più alto dell’altro.

            L’identificazione di Ulisse con la fiamma più alta («lo maggior corno della fiamma antica»[3]) rimarca ulteriormente la superiorità indubbia del personaggio (seppur solo nei confronti di Diomede —“lo minor corno”, per intenderci —).

            Anche Dante è colpito dal desiderio di conoscenza di Ulisse, e su di esso costruisce la sua storia. Sottolinea anzitutto questa sua spasmodica volontà di sapere:

 

       «   né dolcezza di figlio, né la piéta

                        del vecchio padre, né ‘l debito amore

                        lo qual dovea Penelopè far lieta,

            vincer poter dentro da me l’ardore

                        ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto

                        e delli vizi umani e del valore.   »              vv. 94-99

 

            Vi è dunque il riconoscimento di quella volontà di andare “oltre” che abbiamo dianzi descritto.

            Il fiorentino diventa ancora più esplicito più avanti, all’interno dell’“orazion picciola”[4], quando Ulisse dice ai suoi compagni:

 

                    «  Considerate la vostra semenza:

                        fatti non foste a viver come bruti

                        ma per seguir virtute e canoscenza.   »          vv. 118-120

 

            Fulcro della ricerca di Ulisse sono dunque la virtù e la co­noscenza, intese come parti fondamentali dell’interiorità umana. Ulisse ricerca la conoscenza mediante l’esercizio della virtù (che non va ovviamente intesa in senso cristiano), vale a dire dell’insieme delle caratteristiche peculiari di ciascuno. Il coraggio, l’audacia, l’impavido sprezzo del pericolo portano al «folle volo»[5] nel quale Ulisse e i suoi compagni, tanto presi dall’ardore di «canoscenza», fanno ali dei remi[6].

            La vicenda finisce come sappiamo: la «montagna bruna», ossia il Monte del Purgatorio, è l’ultima scoperta dell’uomo alla ricerca della verità, che però non si è saputo fermare dove doveva,

           

                 «            dov’Ercule segnò li suoi riguardi,

            acciò che l’uom più oltre non si metta   »                      vv. 108-109

           

            Il gorgo che inghiotte la nave è la sconfitta dell’uomo che sfida il divino, che vuole conoscere più del dovuto, secondo una mentalità che molti non esiterebbero a definire “oscurantista”.

            Il periodo in cui viveva Dante, onestamente, non era tale da permettere “aperture” al c.d. «libero pensiero», anche se in fondo possiamo considerare quella del canto XXVI° come un’immagine dei limiti posti alla conoscenza umana dalla sua stessa natura e da quella di Dio (anche se non sono certo limiti geografici).

            Al di là di ciò resta, anche nello stesso atteggiamento di Dante, un profondo rispetto e, in fondo, grande ammirazione in questo personaggio. Il canto si chiude con le parole di Ulisse. Nel successivo non una parola di commento da parte del poeta, non un cenno, un rimprovero, una lode. Dante sembra succubo della severa maestosità di questa anima infernale.

            Trapela in un certo senso ammirazione per essa, dovuta a quello che possiamo definire vero e proprio eroismo.

            Eroismo in cosa ? Non siamo dinanzi ad un personaggio interamente positivo, visto e considerato che è un dannato. Tuttavia la coerenza delle sue scelte e la validità dei suoi obiettivi, pur nell’errore rilevato sui mezzi utilizzati per raggiungerli, tramutano la negatività di quest’uomo nella positività, mantenuta fino all’ultimo, di chi ha sempre fatto ciò che voleva, un vero protagonista della propria vita, che ha dovuto soccombere solo dinanzi a chi è più forte di lui.

            Nonostante un appena intuibile riconoscimento del proprio errore, e anche della propria inferiorità rispetto al divino, Ulisse mantiene la sua statura morale, quasi una licenza concessa dal Vincitore a chi gli si è saputo opporre in modo leale e a viso aperto.

            Ricordiamo, in conclusione, che non vi è poi certezza che la dannazione di Ulisse sia dovuta al gesto avventato della scoperta dell’Atlantico, visto che la colpa che gli viene attribuita, e per la quale si trova proprio in quel girone, è l’inganno del cavallo di Troia, che gli ha valso, assieme a Diomede, la gloria terrena, ma anche il, seppur solo letterario, fuoco inestinguibile.

 

4. Dylan Dog, un eroe ?

 

            Il presente paragrafo stona, ad una prima lettura, col resto del lavoro sin qui svolto. Perché accomunare questi tre (anzi, due) personaggi che non sembrano avere nulla a che spartire fra loro ?

            Mi si perdoni qualche avventato paragone, ma si avverte notevolmente, nel successo editoriale di questo prodotto (di eccellente fattura), una sempre più larga fetta di consensi nel processo di mitizzazione di questo personaggio, eretto ormai a modello da molti, giovani e meno giovani, e quindi inequivocabilmente clas­sificato come “eroe” dei fumetti.

            La faccenda non solleva particolari clamori, considerando assunta come tesi la definizione n° 3 di cui al § 1.

            Un fumetto vende, piace; ergo il suo protagonista è un eroe.

            Intendendo così il termine eroe non potremmo non essere d’accordo con questa asserzione.

            È tuttavia assai interessante delineare le caratteristiche di questo personaggio, onde poter definire, a buon diritto, la sua reale o fasulla eroicità; per far ciò, dobbiamo passare in rassegna tutte le sfaccettature dell’aggettivo “eroico” che abbiamo considerato fondamentali.

            La parentela con una divinità è una discutibile argomenta­zione, ancorché sia vero che Dylan è il figlio del professor Xabaras, e dunque del demonio (Xabaras è l’anagramma di Abraxas, uno dei tanti nomi del diavolo), cosa cui Sclavi ha sempre alluso e che mai esplicitamente ha affermato. Non sarebbe effettivamente una buona credenziale per riscuotere tanto successo anche in ambienti cattolici (o pseudo-tali).

            Che virtù o che vizi ha Dylan Dog, che ne caratterizzino la personalità?

            Non beve: non è certo una virtù, anche se è stato a suo tempo amante dell’alcool.

            Non fuma: il che non è una cosa positiva in tutti i sensi.

            Ha un atteggiamento libertino ed infantile con le donne: «sempre pronto ad innamorarsi come un liceale» ci dice Sclavi; è quindi un uomo privo di carattere, che “va dove lo porta il cuore”, anche se sovente non è propriamente il cuore a guidare le sue azioni in questo ambito.

            Ha paura di volare: anche nelle fobie, manca di originalità.

            Veste sempre allo stesso modo: il tutto per dare una mano alle case produttrici di giacche, camicie rosse, jeans e Clarks.

            La sua bellezza non è originale: è calcato sul volto e sul corpo di Rupert Everett, un “bello e dannato” del cinema statuni­tense. Dunque è bello solo perché lo è Everett.

            Suona il clarinetto: e ditemi voi se è una virtù! Casomai un talento musicale (anche se poi lo stesso Dylan ammette di non suonare poi tanto bene).

            Non ha particolari doti di coraggio: lo ha dimostrato in tante occasioni.

            Non dimostra una particolare perizia nell’uso della pistola: non è mai sembrato avere grandi capacità nello sparare.

            La continua ricostruzione del suo veliero non denota a mio avviso una tenace pazienza quanto piuttosto l’incapacità di condurre a termine quello che ha cominciato (primo riferimento alla opposta personalità di Odisseo).

            La mancata presenza di anche solo una virtù caratteriz­zante e di una pregnante dose di coraggio non rende quindi Dylan Dog un eroe, concludendo quindi il discorso sull’asserzione n° 2 di cui al § 1.

            Resta pur sempre, però, il punto n° 3, che abbiamo visto essere il passaporto di Dylan per l’Olimpo degli “eroi” dei fumetti.

            Ma anche qui si solleva, vasta, l’ombra del dubbio.

            Cosa ci fa pensare che sia Dylan il protagonista delle vicende che leggiamo ogni mese sugli albi della Bonelli?

            Senz’altro sulla copertina c’è il suo nome, e senza dubbio è l’elemento ricorrente in tutte le storie (assieme a Groucho).

            Ad una più attenta lettura, però, si deve notare un continuo riproporsi dell’elemento che è oggetto della mensile battaglia di Dylan per guadagnarsi le sue «cinquanta sterline al giorno più le spese»: l’orrore o, se preferite, il male.

            Quel male che prende forma ogni volta in un modo di­verso rispunta sempre, sotto altre forme. Non per niente moltis­simi albi terminano con il riproporsi dell’inizio della vicenda, a partire dal n° 1, «L’alba dei morti viventi».

            La scelta dell’antagonista, qui come in Odisseo superiore al­l’uomo, rende però Dylan Dog un perdente.

            Un perdente per la stessa volontà del suo autore, convinto che «nullo al mondo,/sia vil sia forte, si sottragge al fato»[7].

            La contrapposizione con l’Odisseo omerico e con l’Ulisse dantesco è ora forte. Nel primo non vi è contrapposizione con una divinità infera, ma con una olimpica (Poseidone), e la caratteristica preponderante è la ricerca dell’“oltre”. Nel secondo la contrapposizione al soprannaturale si dà, ma nella sua parte divina, positiva, che fa soccombere, sì, il protagonista, ma perché nel con­fronto diretto questi è oggettivamente inferiore, e mantiene la sua eroicità anche nella sconfitta.

            L’uomo di Sclavi, ossia l’uomo di Dylan, è invece sconfitto in partenza nella lotta contro il male, che non potrà mai essere sconfitto. Senso della vita sembra dunque un fuggire da thànatos attraverso l’èros.

            Sembra, ma non è così.

            Lo spasmodico amore di Dylan per la morte, con la quale si è incontrato diverse volte, la sua continua unione con donne che poi si rivelano portatrici di qual male che vuole sconfiggere, e i frequenti intermezzi apertamente necrofili fanno intravvedere quella che possiamo definire tanatofilia: un ardente desiderio di morte, quasi di un unione carnale con essa, che rappresenta uno sbocco finora mai presentatosi della filosofia spicciola dei giorni nostri.

            L’analisi attenta del personaggio ci fa poi comprendere quanto Dylan non sia il reale protagonista delle storie, in quanto mai esattamente consapevole delle conseguenze delle sue azioni; Dylan non ha mai in mano le redini della trama. C’è sempre qual­che momento in cui subisce senza comprendere.

            È, in conclusione, affiancato al lettore nel disvelare il fitto intreccio ove il vero protagonista è, in fondo, lo sceneggiatore.

            Dylan è uno spettatore. Lo spettatore del primo spetta­colo interattivo della storia, creato nel 1986 e ora copiato in tutto il mondo. Sclavi ha il discutibile merito di aver inventato un fumetto interattivo all’interno di sé stesso.

            L’insieme di queste argomentazioni conducono ad una conseguenza logica: Dylan Dog non è un eroe, in ultima istanza, perché non è un protagonista, non è il protagonista. Brilla di luce riflessa ed è un peccato.

            Una schiera di nomi così illustri del panorama fumettistico italiano meritava un personaggio migliore cui prestare cura.

 

 

                                                                        Ugo Cesare Tonelli



                [1]    M. Cortelazzo,  P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana,  Ed. Zanichelli,  vol. 2, pag. 392, voce “eroe”.

                [2] cfr. Aristotele, Metafisica, I - 1.

                [3] Dante Alighieri, La Divina Commedia, canto XXVI, v. 85.

                [4] Ibid., v. 122.

                [5] Ibid., v. 125.

                [6] cfr. Ibid., v. 125.

                [7] Omero, Iliade, libro VI, vv. 602-603 nella traduzione di V. Monti, Soc.Ed. Internazionale, 1956

 


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