L'Ulisse dantesco

 

Dante ci parla di Ulisse nel canto XXVI dell’inferno, dove il re di Itaca è condannato all’ottava bolgia, nascosto dalle fiamme, gravano su di lui capi d’accusa come l’inganno del cavallo di Troia e il patto di Palladio che fanno sì che Dante lo ponga tra i consigli fraudolenti e tra i politici. Nel canto Ulisse narra a Dante i motivi che lo spinsero dopo il ritorno dai propri capi ad appagare il desiderio di conoscenza del mondo navigando verso ovest con i pochi compagni rimasti:…"dei remi facemmo ali al folle volo"…"folle" perché era destinato al fallimento; infatti dopo aver navigato al lungo appare una "montagna bruna" (purgatorio). La gioia che prova Ulisse nella convinzione di aver raggiunto la meta, si trasforma ben presto in tragedia poiché la nave si inabissa a causa di un vortice nonostante Ulisse venga designato come esploratore dell’ignoto, o meglio ancora, come prototipo dell’uomo moderno che ritroviamo in molteplici versioni, "dall’Orlando furioso" di Ariosto a "Star trek", la sua figura è ambivalente.

 

 Noi ci partimmo, e su per le scalee 
che n’avea fatto iborni a scender pria, 
rimontò ’l duca mio e trasse mee; 
      e proseguendo la solinga via, 
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio 
lo piè sanza la man non si spedia. 
      Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio 
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, 
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio, 
      perché non corra che virtù nol guidi; 
sì che, se stella bona o miglior cosa 
m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi. 
      Quante ’l villan ch’al poggio si riposa, 
nel tempo che colui che ’l mondo schiara 
la faccia sua a noi tien meno ascosa, 
      come la mosca cede alla zanzara, 
vede lucciole giù per la vallea, 
forse colà dov’e’ vendemmia e ara: 
      di tante fiamme tutta risplendea 
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi 
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea. 
      E qual colui che si vengiò con li orsi 
vide ’l carro d’Elia al dipartire, 
quando i cavalli al cielo erti levorsi, 
      che nol potea sì con li occhi seguire, 
ch’el vedesse altro che la fiamma sola, 
sì come nuvoletta, in sù salire: 
      tal si move ciascuna per la gola 
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto, 
e ogne fiamma un peccatore invola. 
      Io stava sovra ’l ponte a veder surto, 
sì che s’io non avessi un ronchion preso, 
caduto sarei giù sanz’esser urto. 
      E ’l duca che mi vide tanto atteso, 
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti; 
catun si fascia di quel ch’elli è inceso». 
      «Maestro mio», rispuos’io, «per udirti 
son io più certo; ma già m’era avviso 
che così fosse, e già voleva dirti: 
      chi è ’n quel foco che vien sì diviso 
di sopra, che par surger de la pira 
dov’Eteòcle col fratel fu miso?». 
      Rispuose a me: «Là dentro si martira 
Ulisse e Diomede, e così insieme 
a la vendetta vanno come a l’ira; 
      e dentro da la lor fiamma si geme 
l’agguato del caval che fé la porta 
onde uscì de’ Romani il gentil seme. 
      Piangevisi entro l’arte per che, morta, 
Deidamìa ancor si duol d’Achille, 
e del Palladio pena vi si porta». 
      «S’ei posson dentro da quelle faville 
parlar», diss’io, «maestro, assai ten priego 
e ripriego, che ’l priego vaglia mille, 
      che non mi facci de l’attender niego 
fin che la fiamma cornuta qua vegna; 
vedi che del disio ver’ lei mi piego!». 
      Ed elli a me: «La tua preghiera è degna 
di molta loda, e io però l’accetto; 
ma fa che la tua lingua si sostegna. 
      Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto 
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi, 
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto». 
      Poi che la fiamma fu venuta quivi 
dove parve al mio duca tempo e loco, 
in questa forma lui parlare audivi: 
      «O voi che siete due dentro ad un foco, 
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, 
s’io meritai di voi assai o poco 
      quando nel mondo li alti versi scrissi, 
non vi movete; ma l’un di voi dica 
dove, per lui, perduto a morir gissi». 
      Lo maggior corno de la fiamma antica 
cominciò a crollarsi mormorando 
pur come quella cui vento affatica; 
      indi la cima qua e là menando, 
come fosse la lingua che parlasse, 
gittò voce di fuori, e disse: «Quando 
      mi diparti’ da Circe, che sottrasse 
me più d’un anno là presso a Gaeta, 
prima che sì Enea la nomasse, 
      né dolcezza di figlio, né la pieta 
del vecchio padre, né ’l debito amore 
lo qual dovea Penelopé far lieta, 
      vincer potero dentro a me l’ardore 
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto, 
e de li vizi umani e del valore; 
      ma misi me per l’alto mare aperto 
sol con un legno e con quella compagna 
picciola da la qual non fui diserto. 
      L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, 
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, 
e l’altre che quel mare intorno bagna. 
      Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi 
quando venimmo a quella foce stretta 
dov’Ercule segnò li suoi riguardi, 
      acciò che l’uom più oltre non si metta: 
da la man destra mi lasciai Sibilia, 
da l’altra già m’avea lasciata Setta. 
      "O frati", dissi "che per cento milia 
perigli siete giunti a l’occidente, 
a questa tanto picciola vigilia 
      d’i nostri sensi ch’è del rimanente, 
non vogliate negar l’esperienza, 
di retro al sol, del mondo sanza gente. 
      Considerate la vostra semenza: 
fatti non foste a viver come bruti, 
ma per seguir virtute e canoscenza". 
      Li miei compagni fec’io sì aguti, 
con questa orazion picciola, al cammino, 
che a pena poscia li avrei ritenuti; 
      e volta nostra poppa nel mattino, 
de’ remi facemmo ali al folle volo, 
sempre acquistando dal lato mancino. 
      Tutte le stelle già de l’altro polo 
vedea la notte e ’l nostro tanto basso, 
che non surgea fuor del marin suolo. 
Cinque volte racceso e tante casso 
lo lume era di sotto da la luna, 
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo, 
      quando n’apparve una montagna, bruna 
per la distanza, e parvemi alta tanto 
quanto veduta non avea alcuna. 
      Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto, 
ché de la nova terra un turbo nacque, 
e percosse del legno il primo canto. 
      Tre volte il fé girar con tutte l’acque; 
a la quarta levar la poppa in suso 
e la prora ire in giù, com’altrui piacque, 
      infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».
 
 
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Il critico Sermonti dice: "una cinica canaglia che, in capo a un decennio di cascivole e bichellonaggi post-bellici, invece di fermarsi a casa, dove ci sono un figlio, un padre e una moglie fedele, smanioso di provarle tutte violando ogni limite, convince i suoi compagni, con un discorso patetico e capzioso, all’avventura oceanica finché non si imbatte nel monte purgatorio". Questa descrizione ci presenta Ulisse come un uomo interessato solo dalla cupidigia; ma è già possibile vedere un Ulisse che rappresenta un magnanimo con insaziabile passione di sapere e l’indomita pazienza, un uomo che ancora l’umanità intera perché si avventura verso un mondo sconosciuto, non per curiosità ma per esprimere l’impronta indecifrabile di Dio. Ulisse è dunque il simbolo dell’avventura che rivela la superiorità dell’uomo sulle bestie. E la magnanimità dell’eroe il quale esalta al massimo la sua umanità, impersona l’ ansia di conoscere, che distingue l’uomo dalla bestia, anche se supera i limiti del divino e pertanto deve essere punito.

 

La sua figura è il prototipo dell’uomo moderno che ha fiducia nelle sue forze, chiaro esempio della concezione dell’intelligenza umana che travaglia i suoi limiti: limiti che spesso portano al fallimento. E' questo che Dante condanna "la follia" di aver utilizzato il possesso di virtù riservato a spiriti superiori.

 


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