Vincenzo Calabrò

(Docente di Fisica e Laboratorio presso il Liceo-Ginnasio “B.Russell” di Roma)

v.calabro@iol.it

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Un caso di vita scolastica: la risoluzione di un problema di fisica

come prova di verifica sommativa in una classe di liceo scientifico.

Roma, Febbraio 2002


 

1. La decisione.

Stavo risolvendo un problema di fisica da assegnare agli studenti di una classe di liceo scientifico. Ero seduto alla mia scrivania e guardavo nell’angolo in alto, a sinistra. Ho sempre preferito guardare negli angoli in alto piuttosto che lungo i lati in basso delle stanze. Alzare lo sguardo mi ha sempre permesso di riflettere meglio sulle decisioni da prendere. Mi fa concentrare di più. E in quel freddo pomeriggio d’inverno avevo bisogno di essere concentrato. Molto concentrato. Dovevo prendere una decisione importante. Così, anche quel pomeriggio guardai in alto. Il problema lo avevo scorto sul libro di testo più di una volta, di sfuggita. Era lì, ammiccante, con un disegno gradevole, stuzzicante. Alla fine, lo avevo scelto perché il fenomeno descritto nel testo e le leggi da applicare per risolverlo riguardavano un principio fisico generale che mi stava a cuore. Come al solito, pensai, avrebbe dovuto avere due caratteristiche fondamentali: essere completo e significativo.  E il problema era adeguato da entrambi i punti di vista. Quando dico completo e significativo intendo dire che deve essere un problema articolato in più domande, che non siano domande elementari e banali ma che richiedano uno sforzo intellettuale consistente, in modo tale da esercitare sugli studenti la necessità di dover mettere in moto attività di analisi e di ragionamento di un certo livello. Sapete, gli studenti sono così. Se non li fate impensierire un po’, non studiano e non imparano nulla. Non che io fossi un esemplare di insegnante cattivo, ma ho sempre affermato che la scuola deve insegnare ai giovani a sapersi applicare, a impegnarsi con tenacia nello studio. La scuola ha, tra i suoi compiti impliciti, l’obiettivo di costruire personalità che siano abituate a operare, a impegnarsi produttivamente, ad arricchire le conoscenze, a migliorare le competenze e le capacità e, quindi, la loro cultura. Non ho mai creduto a una scuola permissiva, dove tutti si danno del tu e dove è difficile comprendere dove finiscono i diritti di uno e iniziano i doveri dell’altro. D’altronde, come diceva sempre mia madre, in questi casi di “studio non è mai morto nessuno”. Tra i tanti possibili testi, scelsi dunque il problema del “gatto che salta”.

 

 

Si trattava di un gatto che saltava da una slitta a un’altra, e di nuovo alla prima, su una distesa di ghiaccio orizzontale. In tutti questi salti il risultato era che il gatto metteva in moto le due slitte: una da una parte e l’altra in senso contrario. Si! Poteva andare, dissi tra me. Mi piace. Questo era il problema che faceva al caso mio. Belloni lo avrebbe apprezzato certamente. Sapete, Belloni è lo studente più in vista della classe. Lui deve sempre dire la sua. Non che sia il migliore. Anzi. Lo scorso anno superò il corso per un soffio. Prese sei a stento, con difficoltà. Se avesse preso meno di sei gli avrei lasciato il debito. Ma così non è stato. Belloni non può assolutamente tollerare che qualcun altro della classe si metta in mostra al suo posto. La ragione di fondo per cui scelsi quel problema era che mi sembrò il più interessante tra i molti disponibili sul libro. E poi il problema aveva anche un disegno. I disegni nei problemi mi sono sempre piaciuti. Da un lato perfezionano il testo, lo rendono più gradevole, diminuiscono la carica di astrattezza che in genere i testi dei problemi hanno sempre, e lo rendono più verosimile e comprensibile. Dall’altra, un disegno ben eseguito aiuta lo studente a comprendere meglio il senso delle domande e soccorre il risolutore a individuare la soluzione. Non dimentico mai i disegni americani di Charles M. Schulz. Sono straordinari. L’ideale sarebbe che io disegnassi bene come l’autore delle vignette di Charlie Brown e del suo cane Snoopy, in modo tale da poter utilizzare questa abilità per fini didattici. Anzi. Sarebbe straordinario poter mettere a disposizione degli studenti un manuale di fisica con le strisce di “peanuts”. Credo che sarebbe un successo senza precedenti e tutti gli studenti farebbero a gara a studiare la fisica. Ma così, purtroppo, non è. Molti studenti quando studiano fisica si annoiano, non trovano stimoli e mostrano poco interesse. Non è facile motivare i giovani di oggi. Io ho provato a farlo, utilizzando la strategia didattica del “problem solving”. Ma non è che abbia la bacchetta magica. Dunque, era necessario individuare un problema che riuscisse a coinvolgere gli studenti durante la prova. Ed è questo l’aspetto della faccenda che in quel momento più mi interessava. Ritorniamo alla questione. Si trattava, dunque, di un problema semplice e stimolante allo stesso tempo,  in cui era necessario applicare al fenomeno il famoso principio di conservazione della quantità di moto molte volte, ripetutamente. Sapete, io ho sempre avuto il pallino dei principi di conservazione. Li ho sempre ritenuti importanti nella didattica perché non sono altro che leggi universali, semplici da applicare, che non falliscono mai. Mi ricordo che quando il mio insegnante di fisica a scuola mi disse che Enrico Fermi fece a Roma negli anni ’30 il famoso esperimento di fissione nucleare con i neutroni, si trovò a un bivio: o il principio funzionava e, dunque, sarebbe stato necessario ipotizzare una nuova particella microscopica, chiamata neutrino, oppure il principio non funzionava. In quest’ultimo caso sarebbe stato necessario rigettare il principio di conservazione con tutte le conseguenze negative del caso. Fermi scelse la prima ipotesi. Accettò la validità universale del principio di conservazione e, dunque, ammise l’esistenza concreta del neutrino. E indovinò. I fatti gli diedero ragione. Dunque, da quel momento ho sempre considerato i principi di conservazione maledettamente importanti nella didattica della mia disciplina. Io insegno fisica in un liceo scientifico. Da qualche anno, la insegno con il metodo del “problem solving”, cioè risolvendo problemi. Qui problema deve essere inteso come in matematica. Tanto per fare un esempio, del tipo: “Un oste compra due virgola settantaquattro ettolitri di vino e spende centoquarantadue virgola trentasette euro. Quanto costa un litro di vino”? I matematici si divertono molto quando assegnano problemi del genere. Soprattutto, sono felici quando mettono i numeri decimali. Hanno un desiderio matto di complicare le operazioni. Voi non vedrete mai un vero matematico che assegna lo stesso problema in questa maniera: “Un oste compra duecento litri di vino e spende duecento euro. Quanto costa un litro di vino”? Mai. Non lo troverete in nessuna parte del nostro sistema planetario. I matematici si vergognerebbero da morire a proporre un problema del genere. In fisica non è molto diverso. Anche gli insegnanti di fisica cercano di complicare un po’ le cose. Ma mai quanto i matematici. Ai fisici interessano le idee, i fenomeni, le leggi che li spiegano e li prevedono. A un insegnante di fisica la matematica piace molto per l’eleganza, per la efficacia, per la sua assoluta utilità nell’analisi dei fenomeni fisici. In verità piace loro perché è “uno strumento” insuperabile per risolvere un problema e parlare delle idee di fisica in modo quantitativo, misurabile e, soprattutto, per parlare di leggi e principi della fisica con linguaggio galileiano, cioè quantitativo. Così quel problema mi consentiva di mettere bene in evidenza il principio di conservazione della quantità di moto. Non potevo desiderare altro.


   

 

   
 

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dal titolo: Storia di ordinaria follia per il compito in classe di fisica

 

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