CAPITOLO XXVI
Don Abbondio non trova argomenti da opporre alle incalzanti e sempre religiosamente concrete domande del cardinale. C'è un'altra accusa contro di lui: quella di non avere sposato i due promessi ricorrendo a pretesti. È tutto vero e lui, il curato, dentro di sé non ha altro da dire che mandare qualche parola di condanna alle donne che non hanno saputo frenare la loro lingua. Ma insomma, conclude il curato, cosa avrei potuto fare in una situazione come quella? Prima, risponde il cardinale, doveva fare il suo dovere e sposarli, poi avrebbe potuto chiedere l'intervento del suo vescovo (la stessa cosa che aveva a lui suggerito Perpetua). Ma Federigo non vuol fare l'inquisitore: ha capito di quale stoffa sia il curato e pur non perdonando lo comprende e lo conforta a sperare e lo esorta alla resistenza in nome dei grandi valori della religione: la vita nostra deve essere misurata e valutata non sullo sfondo delle cose terrene ma di quelle eterne dell'aldilà. Dall'Innominato intanto giunge al cardinale una lettera con cento scudi: dovranno servire per la dote di Lucia. Ma questa, messa alle strette, ora rivela alla madre il voto: la esorta alla pazienza e a mandare la metà della somma a Renzo. Del quale Renzo nello Stato di Milano nessuno sa nulla: neanche il cardinale riesce ad avere notizie precise. Il fatto si è che la polizia dì Milano aveva incaricato quella di Venezia di fare ricerca del noto delinquente. Renzo, avvertito, aveva per suggerimento del cugino Bortolo cambiato residenza e cognome: si faceva chiamare Antonio Rivolta.