Luigi
De Bellis

 


 HOME PAGE 
  
Opere riportate:

     
 

Le case della Vetra

 
 

Nel grave sogno

 
 

 

 
     
     

 





Giovanni Raboni



LE CASE DELLA VETRA: Raccolta di poesie


La prima raccolta di Raboni comprende versi scritti dal 1951 al 1964. Dopo la prima edizione (pubblicata nella collana «Lo Specchio»), è stata inserita in Tutte le poesie.

Il libro contiene cinquantacinque poesie suddivise in tre sezioni («1955-1959», «1960-1961», «1962-1965») e un'appendice in cui ricorrono i temi e i motivi della vita di Cristo (in particolare la crocifissione). Ciascuna sezione si apre con una citazione. Nell'ordine: «Parler de loin, ou bien se taire. (La Fontaine, Fables, X, I)»; «Ah!... signor.., per carità... / Non andate fuor... di qua... (Don Giovanni, II, 16, aria di Leporello)»; «Chi ha fondato motivo di temere che siano per mancare uno o più testimoni, le cui disposizioni possono essere necessarie in una causa da proporre, può chiedere che ne sia ordinata l'audizione a futura memoria (art. 692 c.p.c.)». L'epigrafe tratta dalle Favole di Jean de La Fontaine è esemplare dell'intera poetica di Raboni.
La parola vuole esprimere il lato oscuro, spaesato di ciò che si rappresenta e si descrive: «Eh, le misure della notte, l'ambiguo / lume della luna che confonde / il protocollo dei marmi, l'ombra che ravviva / gli strombi delle finestre, le profonde / gole dei cornicioni / scampati (ancora per poco) al viceregno / delle imprese» (Dalla mia finestra).
A dar senso all'immaginario di queste liriche è la costante presenza del paesaggio milanese ritratto con toni spesso cupi o addirittura spettrali, di fronte al quale la voce del poeta è quasi disorientata.
L'io lirico non esclude dal suo discorso gli sparsi Elementi del paesaggio urbano (è il titolo di una lirica della terza sezione), visti nella loro aleatorietà e nel loro disordine: «Queste strade che salgono alle mura / non hanno orizzonte, vedi: urtano un cielo / bianco e netto, senz'alberi, come un fiume che volta. Da qui alle Processioni / dei signori e dei cani / che recano guinzagli, stendardi» (Città dall'alto); «E dire che ci sono / curve spaziose in questi viali, siepi / basse o trasparenti...» (Figure del parco).
Il soggetto poetante esprime la marginalità dell'individuo, da una parte vittima della macchina mostruosa della storia e del tempo che scorre, dall'altra oscillante tra l'autoannullamento e lo sdoppiamento. Ne consegue una debolezza insanabile e l'impossibilità di prendere qualsiasi decisione: «Si fa presto / a chiamare così un poveraccio (sia pure / un povero diavolo, veramente): ma ci pensi / che groviglio, che buio / quante cose difficili (la nominare / per una faccia come la sua e un giorno / come questo!» (lo carriera del bruto); «Passa il tempo, ci sentiamo / più grandiosi ogni giorno: però / siamo sempre la gente che tira su il sopracciglio / o si gratta la punta dei naso» (Abbastanza posto).
Ecco, quindi che la vita dell'uomo può diventare il facile bersaglio di un potere che si impone sotto minacciose vesti poliziesche: «Dal fondo / quindici poliziotti in fila, in maniche di camicia, / sparano in una sagoma di legno» (Simulato e dissimulato).
Centrali si rivelano, pertanto, il tema della morte e l'evocazione della figura di Cristo agonizzante che chiude la raccolta: «Quante volte a chi / mi chiedeva notizie di mio padre / ho risposto "non c'è male". Ma se era / morto da giorni, forse da mesi!» (Una specie di tic); «Ormai fa giorno. Non basta / sedere gravemente sulla sedia di paglia / vestito di canna e di sangue / ascoltando le ingiurie dei soldati, ospitando nel fianco / l'orma sintetica della lancia» (Alba).

L'opera si segnala per il significato ambivalente dei suoi versi; alla denuncia dell'ipocrisia del sistema sociale in cui vive l'uomo moderno, si affianca la triste ironia verso le condizioni private dell'esistenza: «e nessuno / che ci dicesse sul muso "stronzi" il nostro modo / di rivoltarci era quello, il conformismo, / la pacatezza, il freddo disgusto / per le intemperanze giovanili; aver schifo della rivoluzione» (Lezioni di economia politica); «Non che me ne importi molto, sai. Non è mica / obbligatorio. E ho sempre queste cose / di scorta, il rametto da pelare, il profilo / dello scemo da intagliare nel bastone. / Non parliamone più, ti sembra? (Il treno / riparte. Mai più buio di così.)» (Commediola).
Lo stile riprende il ritmo e i modi del linguaggio colloquiale, dando così luogo a versi alternativamente lunghi e brevi, che tendono alla vicendevole smorzatura o elisione: «Non così da lontano / né così da vicino, a una distanza / media, confidente, sicuri che tutto ancora una volta andrà a finire / nei reciproci tentativi di ricatto» (Perizia).

Su Le case della Vetra ha scritto Luigi Baldacci: «La realtà di Raboni è la città, è Milano: o per meglio dire quello che resta della Milano di una volta: nella memoria, nella stratificazione profonda degli anni dell'ifanzia. La topografica, in Raboni, diventa storia, ragione privata e sociale al tempo stesso: sulla faccia di Milano, sui muri lebbrosi o nei quartieri "risanati" egli ritrova il disegno della propria vita, o della vita dei più vecchi».

 

HOME PAGE


Copyright ¿ 2002 Luigi De Bellis.
Webmaster: letteratura@tin.it