EVOLUZIONE DELLA CONCEZIONE DI SPAZIO-TEMPO

La tradizione aristotelica riteneva che fosse possibile determinare tutte le leggi che governano l’Universo per mezzo del puro pensiero: non era necessaria la loro verifica per mezzo dell’osservazione: ARISTOTELE credeva in uno stato privilegiato di quiete, stato in cui ogni corpo si troverebbe se non fosse spinto da una qualche forza o impulso. In particolare egli pensava che la Terra fosse in quiete.

Concezioni completamente opposte furono formulate da NEWTON nei “PHILOSOPHIAE NATURALIS PRINCIPIA MATHEMATICA”: la prima legge afferma che, quando su un corpo non agisce alcuna forza, esso persiste nel suo movimento in linea retta con velocità uniforme; l’assunto della seconda legge è invece che un corpo accelera, ossia modifica la sua velocità, in modo proporzionale alla forza: l’accelerazione è tanto minore quanto maggiore è la massa del corpo. Da queste leggi segue che non esiste un sistema di riferimento privilegiato per la quiete, il che comporta l’impossibilità di stabilire se due eventi che ebbero luogo in tempi diversi si verificarono o no nella stessa posizione dello spazio. Newton si preoccupò molto per questa mancanza di una posizione assoluta, o di uno spazio assoluto, perché essa non si accordava con la sua idea di un Dio assoluto. In realtà accettò l’esistenza di uno spazio assoluto, anche se distinse da esso uno spazio relativo, concepito come dimensione mobile o misura dello spazio assoluto.

Inoltre tanto Aristotele quanto Newton credettero nel tempo assoluto. Essi credettero cioè che si potesse misurare con precisione l’intervallo di tempo tra eventi, e che questo tempo sarebbe stato lo stesso chiunque lo avesse misurato. Il tempo era completamente separato dallo spazio e da esso indipendente.

Alcuni filosofi si opposero strenuamente a tale concezione: tra questi HUME, il quale nel suo “TRATTATO SULLA NATURA UMANA” critica le idee tradizionali di spazio e tempo, ricondotte al nostro modo di ordinare le idee degli oggetti che compaiono nelle percezioni della mente. Da ogni impressione si origina un’idea, che può essere associata in modo vario alle altre e dare luogo così alle IDEE COMPLESSE. Queste non sono mai composte da un numero infinito di patri, che trascenderebbe la capacità percettiva della mente umana. Pertanto anche le idee di tempo e spazio sono riducibili ad un determinato numero di elementi, consistenti nelle idee associate agli oggetti reali e da noi unificate nel quadro generale dell’estensione e della durata. Con questa concezione Hume si contrappone tanto alla tradizione aristotelica dei “luoghi naturali” dei corpi, quanto all’affermazione newtoniana di uno spazio e di un tempo “assoluti”. Nello stesso tempo si contrappone anche a LEIBNIZ, che pur considerando spazio e tempo come risultato dell’ordine delle cose coesistenti o successive, li riteneva divisibili all’infinito e quindi composti di un numero infinito di spazio. In sostanza, Hume intende dimostrare come le coordinate spazio-temporali, entro cui si svolge la percezione del soggetto, non siano dei riferimenti oggettivi, ma solo il modo soggettivo di ordinare i dati percepiti.

Alla fine del ‘700 KANT cercò di conciliare le teorie di Newton con quelle di Leibniz. Uno dei problemi più rilevanti che trovò nel fare questo fu il problema della natura dello spazio e del tempo. Il problema fu ritenuto da Kant fondamentale, in quanto strettamente connesso sia con la scienza newtoniana sia con la metafisica leibniziana. Se infatti Leibniz sembrava vanificare l’oggettività dello spazio e del tempo, e quindi l’assolutezza dei principi della fisica newtoniana, Newton sembrava proporre un’ipotesi metafisica non fondata sull’esperienza.

Kant affronta il problema analizzando la natura della nostra conoscenza sensibile. Noi conosciamo sensibilmente in quanto siamo modificati dall’esterno, dagli oggetti che agiscono sulla nostra capacità di rappresentazione. La sensazione è l’effetto prodotto in noi da tale azione. Con la sensazione noi non conosciamo infatti gli oggetti come sono in se stessi, bensì come essi ci appaiono attraverso le modificazioni che producono in noi. Per questo l’oggetto della conoscenza sensibile è chiamato da Kant FENOMENO. Se così stanno le cose, spazio e tempo, che accompagnano necessariamente ogni nostra conoscenza sensibile, non possono essere una realtà oggettiva, come voleva Newton, e neppure une relazione propria degli oggetti in se stessi, come voleva Leibniz, bensì devono essere forme caratteristiche del nostro modo soggettivo di ricevere le modificazioni sensibili da parte degli oggetti. Essi vanno quindi considerati come forme della nostra sensibilità, che condizionano ogni nostro modo di conoscere sensibilmente.

Di conseguenza nella soluzione data da Kant lo spazio ha un’esistenza indipendente dalla materia, come per Newton, ma non è una sorta di entità metafisica, un grande “contenitore” infinito che esiste al di là dei fenomeni fisici che conosciamo in natura. Lo spazio non è né una realtà oggettiva in se stessa, né semplici relazioni fra oggetti. Esso è la “forma a priori” del senso esterno. Ciò significa che noi non disponiamo nello spazio, secondo rapporti e relazioni nostri, le cose che sono esterne a noi. Lo spazio come forma a priori perciò non può essere ricavato dall’esperienza: infatti, osservando due oggetti e la loro distanza, si presuppone già la loro collocazione in un ordinamento spaziale. Kant perciò lo definisce come la “forma di tutti i fenomeni dei sensi esterni, cioè la condizione soggettiva della sensibilità , sotto la quale soltanto ci è possibile l’intuizione esterna”.

Nello stesso modo il TEMPO non è altro che la forma del senso interno, cioè dell’”intuizione”  di noi stessi e del nostro stato interno. Ciò significa che noi ordiniamo nel tempo tutti i dati della nostra sensibilità, disponendoli unitariamente e stabilmente secondo l’ordine della coesistenza o della successione. Il tempo perciò non viene ricavato astraendo da una successione di fenomeni, ma, al contrario, è ciò che rende possibile che noi ci rappresentiamo determinato fenomeni in coesistenza o successione. Il concetto di tempo ha una portata più ampia rispetto a quello di spazio perché è una “intuizione a priori” che sta ala base di tutte le intuizioni empiriche. Infatti, se in modo diretto esso è la forma a priori del senso interno, in modo indiretto lo è anche del senso esterno, in quanto anche i dati del senso esterno ci giungono solo tramite le modificazioni del senso interno.

L’arrivo delle GEOMETRIE NON EUCLIDEE ha creato gravi problemi e per la fisica newtoniana e per la filosofia Kantiana.

Per la prima, perché il suo quadro dello spazio-tempo è collocato nello spazio euclideo: la linea lungo la quale l’interazione gravitazionale istantanea si propaga nel vuoto è una retta euclidea. Per la “filosofia trascendentale” Kantiana, la minaccia è ancora più grave. Kant presumeva che lo spazio euclideo in cui percepiamo i fenomeni di natura fosse una “forma di intuizione a priori” la cui struttura è data una volta per sempre dalla natura delle nostre facoltà cognitive: esiste perciò una sola geometria capace di descrivere questa struttura, che nessuna scoperta empirica può modificare.

EINSTEIN diede alla fisica matematica un nuovo paradigma, la TEORIA DELLA RELATIVITA’, che descrive spazio, tempo, moto e interazione entro un quadro non newtoniano, e il fenomeno della gravitazione con una geometria non euclidea e non come l’azione immediata a distanza di una forza. Lungi dall’essere una forma stabilita a priori della nostra intuizione dello spazio, la geometria euclidea non è nemmeno una descrizione veritiera della natura.

Fu proprio Einstein, grazie alla sua concezione filosofica del mondo, e grazie anche alla sua TEORIA DELLA RELATIVITA’ SPECIALE, che riuscì a fornire una spiegazione teorica delle proprietà delle “FORMULE DI LORENTZ”, arrivando alla conclusione che la velocità della luce è costante, non dipende dalla velocità dell'osservatore che la misura, mentre per tutti gli altri corpi si ammetteva come verità autoevidente che la velocità di un corpo varia al variare della velocità dell’osservatore. Per esempio, un viaggiatore che cammini su un treno in corsa apparirà muoversi molto più velocemente a un osservatore fermo a terra che non ai viaggiatori suoi compagni di viaggio. Einstein sostenne che proprio questa tesi apparentemente paradossale poteva servire come punto di partenza per una teoria rivoluzionaria, la TEORIE DELLA RELATIVITA’ GENERALE. Questa comportava una radicale modificazione dell’intera fisica e dava l’avvio a una nuova filosofia relativistica che, lasciati cadere i concetti assoluti di spazio e di tempo, considerava gli effetti fisici rispetto a spazi e tempi relativi all’osservatore. Con l’abbandono dello spazio assoluto e del tempo assoluto veniva a crollare il quadro concettuale in cui era iscritto l’ormai superato universo-macchina newtoniano. Si apriva una nuova era.