Martin Luther King - Un breve ricordo
a cura di Giuseppe Pugliese
VAI alla parte 2 dello speciale : "I have a dream"

TORNA A "PUBBLICA!"

 Il 4 aprile del 1968, su una finestra di un albergo di Memphis, veniva ucciso Martin Luther King. Pastore battista , leader della protesta nera, capo spirituale di una comunità oppressa, uomo impegnato nella difesa dei diritti civili.Il suo messaggio non violento rappresenta, al pari di quello di Ghandi, un manifesto per tutti coloro che lottano per un mondo migliore, più pacifico e giusto…Nel 35° anniversario della morte, il mondo sembra dimenticarsi di questo giorno. Nessun giornale, ad eccezione dell’Unità, ne ha parlato. Vorrei farlo io.
In un momento simile servirebbero uomini come questo. Ma il mondo pare aver dimenticato il suo messaggio. (di Giuseppe Pugliese, Aprile 2003) .

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Argomento correlato: trent'anni dopo Martin Luther King
"il caso Amadou Diallo"
nella canzone "American skin"(41 shots) di Bruce Springsteen



Manifestazione non violenta


Il discorso sul "tamburo maggiore", o "grancassa".
(Chiesa battista di Ebenezer ,  4 febbraio 1968)

clicca qui per la biografia

Ogni tanto, immagino, tutti noi pensiamo in modo
realistico al giorno in cui resteremo vittime di quello
che è il definitivo comune denominatore della vita:
quella cosa che chiamiamo morte.
Tutti noi ci pensiamo.
E di tanto in tanto, io penso alla mia morte
E al mio funerale.
Di tanto in tanto mi domando:
“Che cosa vorrei che dicessero ?”
Quel giorno mi piacerebbe che si dicesse:
Martin Luther King, ha cercato di amare qualcuno.
Vorrei che si dicesse:
Martin Luther King, ha cercato di dedicare la vita
A servire gli altri.

Vorrei che diceste, quel giorno, che ho cercato
Di essere giusto sulla questione della guerra.
Quel giorno vorrei che poteste dire che ho
Davvero cercato di dare da mangiare agli affamati.
E vorrei che poteste dire, quel giorno, che nella mia vita
Ho davvero cercato di vestire gli ignudi.
Vorrei che diceste, quel giorno, che  ho cercato
 nella mia vita, di visitare i carcerati.
Vorrei che diceste che ho cercato
Di amare e servire l’umanità.

Sì, se volete dire che sono una grancassa
Dite che sono stato una grancassa per la giustizia.

Dite che sono stato una grancassa per la pace.
Sono stato una grancassa per la rettitudine.
E tutte le altre cose di superficie non conteranno.
Non avrò denaro da lasciare dietro di me.
Non avrò le cose belle e lussuose della vita da lasciare dietro di me.
Ma io voglio avere soltanto una vita impegnata da lasciare alle spalle.
Ed è tutto quello che volevo dire.
Se riesco ad aiutare qualcuno mentre passo
Se riesco a rallegrare qualcuno con una parola o con un canto
Se riesco a mostrare a qualcuno che sta andando
 nella direzione sbagliata
allora non sarò vissuto invano.
Se riesco a fare il mio dovere come dovrebbe un cristiano
Se riesco a portare la salvezza a un mondo che è plasmato
Se riesco a diffondere il messaggio come il Maestro ha insegnato
Allora la mia vita non sarà stata invano…

Il 3 aprile 1968, Martin Luther King parla al Mason Temple di Memphis ai netturbini di Memphis in sciopero
che chiedevano il riconoscimento dei loro diritti di lavoratori. Sarà l’ultimo, profetico, discorso del leader nero: il giorno dopo verrà assassinato.

"I've Been To The Mountaintop"
Sono stato sulla Cima della Montagna
estratto da questo link

"...E sapete, se mi trovassi al principio dei tempi, e avessi la possibilità di godere della visione generale e panoramica di tutta la storia umana fino a oggi, e l’Onnipotente mi dicesse: "Martin Luther King, in quale epoca ti piacerebbe vivere?", io con la mente volerei sull’Egitto, e guarderei i figli di Dio compiere il loro meraviglioso tragitto dalle buie carceri dell’Egitto attraverso il Mar Rosso, nel deserto, e avanti verso la terra promessa.

E nonostante la magnificenza della visione, non mi fermerei.
Proseguirei verso la Grecia, e con la mente mi rivolgerei al monte Olimpo.
E vedrei Platone, Aristotele, Socrate, Euripide e Aristofane riuniti intorno al Partenone, e li guarderei passeggiare mentre dibattono gli eterni e grandi problemi della realtà.
Ma non mi fermerei.
Andrei ancora avanti, fino all’epoca della massima fioritura dell’impero romano, e vedrei come si svolgono gli eventi, da un imperatore all’altro, da un condottiero all’altro.
Ma non mi fermerei.
Passerei all’epoca del Rinascimento, per avere un rapido quadro di ciò che quel periodo ha fatto per la vita culturale ed estetica dell’uomo.
Ma non mi fermerei.
Vorrei anche percorrere i luoghi dove ha vissuto l’uomo di cui porto il nome, e osserverei Martin Lutero affiggere le sue novantacinque tesi sul portale del duomo di Wittenberg.
Ma non mi fermerei.
Poi arriverei al 1863, vedrei un presidente titubante di nome Abraham Lincoln arrivare finalmente alla conclusione di dover firmare il Proclama dell’emancipazione.
Ma non mi fermerei.
Tornerei ai primi anni Trenta, e vedrei un uomo lottare per risolvere i problemi provocati dallo stato di bancarotta della nazione, e uscirsene con una eloquente esclamazione: "Non abbiamo da temere nient’altro che la nostra stessa paura".
Ma non mi fermerei.
Cosa strana, mi rivolgerei all’Onnipotente e gli direi: "Se mi permetterai soltanto di vivere qualche anno nella seconda metà del Ventesimo secolo, sarò contento".
* Ebbene, é un’affermazione strana, questa, perché il mondo é tutto sottosopra.
Il paese é malato; la terra é in pena, c’é grande confusione.
E’ un’affermazione strana.
Ma in qualche modo io so che le stelle si possono vedere soltanto se é abbastanza buio.
E in questo periodo del XX secolo io vedo l’azione di Dio.
Nel nostro mondo accade qualcosa; le masse si stanno sollevando; e oggi, dovunque si radunino, che sia a Johannesburg in Sudafrica; a Nairobi in Kenya; ad Accra nel Ghana; a New York; ad Atlanta in Georgia; a Jackson nel Mississippi; o a Memphis nel Tennessee, il grido é sempre uguale: "Vogliamo essere liberi".
E c’é un’altra ragione per cui sono contento di vivere nel nostro tempo: siamo stati costretti ad arrivare a un punto in cui dovremo affrontare i problemi che gli uomini hanno cercato di risolvere lungo tutta la storia.
La sopravvivenza esige che li affrontiamo.
Da anni ormai gli uomini parlano di guerra e di pace; ma ormai non possono più limitarsi a parlarne.
A questo mondo non é più questione di scegliere tra violenza e nonviolenza; si tratta di scegliere: o nonviolenza o nonesistenza.
Ecco a che punto siamo oggi.
E anche nella rivoluzione dei diritti umani, se non si fa qualcosa, e in fretta, per far uscire i popoli di colore del mondo dai loro lunghi anni di povertà, dai lunghi anni in cui sono stati feriti e messi da parte, il mondo intero é destinato alla rovina.
Ebbene, io sono proprio contento che Dio mi abbia concesso di vivere in quest’epoca, di vedere lo svolgersi degli eventi.
E sono contento che mi abbia concesso di essere qui a Memphis.

*

Ricordo, ricordo bene quando i neri si limitavano ad andare in giro, come ha detto tante volte Ralph, grattandosi dove non prudeva e ridendo quando nessuno faceva loro il solletico.
Ma quei tempi sono finiti.
Adesso facciamo sul serio, e siamo determinati a ottenere il posto che ci spetta di diritto nel mondo che Dio ha creato.
E proprio qui sta il punto.
Non abbiamo intrapreso una campagna di protesta negativa, non abbiamo intrapreso discussioni negative con nessuno; diciamo che siamo determinati a essere uomini; siamo determinati a essere popolo.

Diciamo che siamo figli di Dio.
E se siamo figli di Dio, non dobbiamo vivere come siamo costretti a vivere.
E dunque, che cosa significa tutto questo nella grande epoca storica che stiamo vivendo? Significa che dobbiamo restare uniti.
Dobbiamo restare uniti e conservare l’unità.
Sapete, ogni volta che il faraone voleva prolungare il tempo della schiavitù in Egitto, per riuscirci ricorreva al suo espediente prediletto.
Quale era? Faceva in modo che gli schiavi combattessero fra loro.
Ma ogni volta che gli schiavi sono uniti, nella corte del faraone succede qualcosa, e lui non riesce più a tenere schiavi gli schiavi.
Quando gli schiavi si mettono insieme, comincia l’uscita dalla schiavitù.
Allora, conserviamo l’unità.
Non permetteremo ai manganelli di fermarci.
Nel nostro movimento nonviolento siamo maestri nel disarmare le forze di polizia; loro non sanno più che cosa fare.
L’ho visto succedere tante volte.
Mi ricordo a Birmingham, in Alabama, durante quella magnifica lotta, quando tutti i giorni partivamo dalla chiesa battista della sedicesima strada.
Uscivamo dalla chiesa a centinaia, e Bull Connor ordinava di sguinzagliare i cani, e i cani arrivavano.
Ma noi andavamo incontro ai cani cantando: "Non permetterò a nessuno di farmi tornare indietro".
Poi Bull Connor diceva: "Aprite gli idranti".
E, come vi dicevo l’altra sera, Bull Connor non conosceva la storia.
Conosceva una specie di fisica che non so perché non aveva nessun rapporto con la metafisica che conoscevamo noi.
Si trattava del fatto che esiste un genere di fuoco che nessun’acqua riesce a spegnere.
E noi andavamo incontro agli idranti.
Noi conoscevamo l’acqua.
Se eravamo battisti, o appartenevamo a qualche altra confessione cristiana, eravamo stati battezzati per immersione.
Se eravamo metodisti, o di qualche altra confessione, eravamo stati spruzzati: ma in ogni modo, conoscevamo l’acqua.
Non poteva fermarci.
Così, continuavamo a camminare incontro ai cani, e li guardavamo; e andavamo avanti, incontro agli idranti, e li guardavamo.
E non facevamo altro che continuare a cantare: "Sopra la mia testa, nell’aria, vedo la libertà".
E poi ci prendevano e ci mettevano nei cellulari, e a volte ci stavamo pigiati come sardine.
E ci buttavano dentro, e il vecchio Bull diceva: "Portateli via".
Loro lo facevano, e noi salivamo nel cellulare cantando "We Shall Overcome".
E di tanto in tanto finivamo in prigione, e vedevamo i carcerieri guardare attraverso gli spioncini e commuoversi per le nostre preghiere e per le nostre parole e le nostre canzoni.
C’era un potere in questo, al quale Bull Connor non riusciva ad abituarsi, e così abbiamo finito col trasformare Bull [toro] in un vitello, e abbiamo vinto la nostra lotta di Birmingham.
Dobbiamo dedicarci a questa lotta fino alla fine.
Non ci sarebbe tragedia peggiore che fermarsi a questo punto, a Memphis.
Dobbiamo andare fino in fondo.
Quando faremo la nostra marcia, dovete partecipare.
Anche se vuol dire lasciare il lavoro, anche se vuol dire lasciare la scuola, venite lo stesso.
Forse voi non siete in sciopero, ma o andremo sù insieme, o finiremo giù insieme.
Cerchiamo di sviluppare una specie pericolosa di altruismo.

*

Un giorno un uomo andò a trovare Gesù, perché voleva discutere con lui su argomenti riguardanti le questioni fondamentali della vita.
Voleva tendere un trabocchetto a Gesù, e dimostrargli che lui sapeva qualcosa di più di Gesù, per riuscire a confonderlo.
La questione sarebbe potuta senz’altro finire in una disputa filosofica e teologica.
Invece Gesù la fece subito scendere dalle nuvole, e la collocò nella situazione di una curva pericolosa della strada fra Gerusalemme e Gerico.
E si mise a parlare di un uomo che si era imbattuto nei briganti.
Ricorderete che un levita e un sacerdote passarono sull’altro lato della strada: non si fermarono per aiutarlo.
Alla fine, passò un uomo di un’altra razza.
Smontò dalla cavalcatura, e decise di non essere compassionevole per procura.
Si chinò su di lui, invece, gli prestò i primi soccorsi, aiutò quell’uomo nel bisogno.
Gesù conclude dicendo che era lui l’uomo buono, era lui il grande uomo, perché era capace di proiettare l’"io" nel "tu", e di prendersi cura del proprio fratello.
Ebbene, sapete, noi esercitiamo molta immaginazione nel tentativo di stabilire come mai il sacerdote e il levita non si sono fermati.
A volte diciamo che avevano fretta di arrivare a un’assemblea ecclesiale, a un raduno di religiosi, e dovevano affrettarsi verso Gerusalemme per non arrivare in ritardo alla riunione.
In altri casi possiamo ipotizzare che ci fosse una legge religiosa, per cui chi doveva svolgere una cerimonia religiosa non doveva toccare il corpo di un essere umano nelle ventiquattro ore precedenti la cerimonia stessa.
E in qualche caso cominciamo a chiederci se forse per caso non stessero andando a Gerusalemme, o piuttosto a Gerico, per fondare un’Associazione per il perfezionamento della strada di Gerico.
Potrebbe anche darsi.
Magari pensavano che fosse meglio affrontare il problema partendo dalle radici, dalle cause, invece che lasciarsi impantanare in un risultato su scala individuale.
Ma io voglio raccontarvi che cosa mi suggerisce la mia immaginazione.
Potrebbe darsi che quei due uomini abbiano avuto paura.
Vedete, la strada di Gerico é una strada pericolosa.
Ricordo quando sono andato per la prima volta a Gerusalemme, insieme alla signora King.
Avevamo noleggiato una macchina e viaggiavamo da Gerusalemme a Gerico.
E appena arrivammo su quella strada io dissi a mia moglie: "Ora capisco perché Gesù ha scelto questo posto per ambientare la sua parabola".
E’ una strada tutta curve; proprio l’ideale per un agguato.
E’ una strada pericolosa.
All’epoca di Gesù aveva preso il nome di "Passo del sangué.
E allora, capite, può darsi che il sacerdote e il levita abbiano gettato un’occhiata a quell’uomo steso in terra e si siano chiesti se i briganti fossero ancora nei paraggi.
Oppure, magari hanno pensato che l’uomo steso a terra facesse finta; che fingesse di essere stato derubato e ferito, per saltar loro addosso, che volesse attirarli per un assalto veloce e facile.
Ah, sì.
E quindi, la prima domanda che il sacerdote si fa, la prima domanda che il levita si fa, é questa: "Se mi fermo a soccorrere quest’uomo, che cosa mi capiterà?".
Ma poi é passato il buon samaritano, e ha rovesciato la domanda: "Se non mi fermo a soccorrere quest’uomo, che cosa gli succederà?".
Ecco la domanda che avete di fronte stasera.
Non é "se mi fermo a dare una mano agli operai della nettezza urbana, che cosa succederà al mio lavoro?".
Non é "se mi fermo a dare una mano agli operai della nettezza urbana, che cosa ne sarà delle ore che di solito passo nel mio studio di pastore tutti i giorni e tutte le settimane?".
La domanda non é "se mi fermo per soccorrere quest’uomo nel bisogno, che cosa mi accadrà?".
La domanda é: "se non mi fermo per aiutare gli operai della nettezza urbana, che cosa accadrà a loro?".
Questa é la domanda.
Questa sera alziamoci con maggiore disponibilità.
Prendiamo posizione con maggiore determinazione.
E continuiamo ad avanzare in queste giornate di grande potenza, in queste giornate di sfida, per far sì che l’America diventi come dovrebbe essere.
Abbiamo l’occasione di rendere l’America migliore.
E io voglio ringraziare Dio, ancora una volta, per avermi concesso di esser qui con voi.

*

Sapete, parecchi anni fa mi trovavo a New York per firmare le copie del mio primo libro.
E mentre stavo seduto tutto preso da dediche e autografi, si avvicinò una donna nera, un’alienata.
L’unica cosa che le sentii dire fu: "E’ lei Martin Luther King?".
Io guardavo in basso, perché stavo scrivendo, e risposi: "Sì".
E un attimo dopo sentii qualcosa che mi dava un colpo sul petto.
Prima che me ne rendessi conto, quella donna pazza mi aveva pugnalato.
Mi portarono di corsa allo Harlem Hospital.
Era un sabato pomeriggio, era già buio.
La lama era andata in profondità, e dalla radiografia si vide che la punta sfiorava l’aorta, l’arteria principale.
Se ti perforano l’aorta, anneghi nel tuo stesso sangue; sei finito.
La mattina dopo, sul "New York Times" scrissero che se avessi anche solo starnutito, sarei morto.
Ebbene, a tre o quattro giorni dall’operazione, dopo che mi avevano aperto il torace e avevano estratto la lama, mi permisero di andare in giro per l’ospedale sulla sedia a rotelle.
Mi lasciarono leggere un pò della posta che era arrivata per me: da tutti gli stati e dall’estero erano arrivate lettere gentili.
Ne lessi qualcuna, ma ce n’é una che non dimenticherò mai.
Mi avevano scritto anche il presidente e il vicepresidente, ma ho dimenticato che cosa dicevano i loro telegrammi.
Il governatore dello stato di New York era venuto a trovarmi e mi aveva scritto una lettera, ma ho dimenticato che cosa diceva la sua lettera.
C’era invece un’altra lettera, scritta da una bambina, una ragazzina che studiava al liceo di White Plains.
Io guardai la sua lettera e non la dimenticherò mai.
Diceva semplicemente: "Gentile professor King, frequento la quarta ginnasio nel liceo di White Plains".
E continuava: "Non dovrebbe avere importanza, ma vorrei dire che sono bianca.
Ho letto sul giornale della sua disgrazia e delle sue sofferenze.
E ho letto anche che se avesse starnutito, sarebbe morto.
E le scrivo semplicemente per dirle che sono tanto contenta che non abbia starnutito".
Vorrei dire che anch’io sono contento di non avere starnutito.
Perché, se avessi starnutito, non mi sarei trovato da queste parti nel 1960, quando in tutto il Sud gli studenti cominciarono a prendere posto ai banchi delle caffetterie.
E io sapevo che proprio mettendosi a sedere in realtà si stavano schierando a favore della parte migliore del sogno americano, e riportavano il paese a quelle grandi sorgenti della democrazia scavate dai padri fondatori nella Dichiarazione di indipendenza e nella Costituzione.
Se avessi starnutito, non mi sarei trovato da queste parti nel 1961, quando decidemmo di cominciare un viaggio per la libertà e per mettere fine al segregazionismo sui mezzi di trasporto da uno stato all’altro.
Se avessi starnutito, non sarei stato da queste parti nel 1962, quando i neri di Albany, in Georgia, decisero di drizzare la schiena: e ogni volta che uomini e donne drizzano la schiena, riescono ad arrivare da qualche parte, perché se stai diritto e non pieghi la schiena nessuno ti può montare addosso.
Se avessi starnutito, non sarei stato da queste parti nel 1963, quando la popolazione nera di Birmingham, nell’Alabama, é riuscita a risvegliare la coscienza di questo paese e ottenere l’approvazione della legge sui diritti civili.
Se avessi starnutito, un pò più tardi in quello stesso anno, in agosto, non avrei avuto l’occasione di raccontare all’America di un sogno che avevo avuto.
Se avessi starnutito, non sarei stato a Selma, nell’Alabama, e non avrei assistito al grande movimento che si é avuto in quella città.
Se avessi starnutito, non sarei venuto a Memphis per vedere una comunità che si stringe intorno ai fratelli e alle sorelle che soffrono.
Sono proprio contento di non avere starnutito.

*

Ho lasciato Atlanta stamani, e mentre stavamo per partire - sull’aereo eravamo in sei - il pilota ci ha detto, attraverso l’interfono: "Scusate il ritardo, ma abbiamo sull’aereo il professor Martin Luther King.
E per assicurarci che tutte le valigie fossero state controllate, e per essere sicuri che sull’aeroplano fosse tutto in ordine, abbiamo dovuto verificare con cura tutto quanto.
E abbiamo tenuto l’aereo sotto protezione e sorvegliato per tutta la notte".
Poi sono arrivato a Memphis.
E alcuni hanno cominciato a riferire le minacce, o a parlare delle minacce che erano state fatte, o a dire quel che mi sarebbe potuto accadere a causa di qualche nostro fratello bianco malato.
Ebbene, non so che cosa accadrò d’ora in poi; ci aspettano giornate difficili.
Ma davvero, per me non ha importanza, perché sono stato sulla cima della montagna.
E non m’importa.
Come chiunque, mi piacerebbe vivere a lungo: la longevità ha i suoi lati buoni.
Ma adesso non mi curo di questo.
Voglio fare soltanto la volontà di Dio.
E Lui mi ha concesso di salire fino alla vetta.
Ho guardato al di là, e ho visto la terra promessa.
Forse non ci arriverò insieme a voi.
Ma stasera voglio che sappiate che noi, come popolo, arriveremo alla terra promessa.
E stasera sono felice.
Non c’é niente che mi preoccupi, non temo nessun uomo.
I miei occhi hanno visto la gloria dell’avvento del Signore."





Il suo funerale



Solegemello consiglia: Arnulf Zitelmann "Non mi piegherete" Vita di Martin Luther King - Universale economica Feltrinelli "Onde"



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 MARTIN LUTHER KING

Breve biografia dell'uomo che aveva un sogno

Martin Luther King nacque nella città di Atlanta, nello Stato della Georgia, il 15 gennaio 1929. Il padre, Martin Luther King senior, era pastore della Chiesa battista, la mamma una maestra.
Nella primissima infanzia il piccolo Martin era solito giocare con i bambini bianchi del quartiere ma, con l'inizio delle scuole elementari, accaddero alcuni fatti incomprensibili che rattristarono il bambino negro: fu escluso dai giochi dei suoi vicini di casa e, addirittura, essi ebbero il severo divieto di parlare con lui. Martin non riusciva a farsene una ragione: non aveva fatto loro alcun dispetto, non li aveva offesi in alcun modo, perché lo allontanavano? Invano la mamma cercò di rasserenarlo parlandogli di cosa significasse essere di colore e vivere in uno Stato del Sud, gli raccontò delle lontane origini africane, della lunga e terribile schiavitù sopportata dalla sua gente, della Guerra di Secessione che aveva dato loro, almeno formalmente, la libertà.
Pochi anni dopo, mentre si recava con il padre ad acquistare un paio di scarpe, il commesso vietò loro di entrare dall’ingresso principale perché riservato solo "alla razza bianca" e, con disprezzo, ordinò loro di entrare dal lato posteriore: il pastore King fece osservare che non c'era alcuna differenza di colore tra i suoi dollari e quelli "dei bianchi", ma preferiva andarsene, se non poteva entrare dalla porta principale.
Martin era un bambino dall'intelligenza molto vivace, tutte queste circostanze umilianti ed incomprensibili lo portarono a formulare una domanda a cui non trovava una risposta e che non riusciva a porre al padre che lo intimidiva moltissimo: che cosa avevano di diverso i neri dai bianchi? Perché erano obbligati a vivere in condizioni subalterne? Perché erano oggetto di tanto disprezzo?
Negli anni seguenti studiò con passione, con rabbia, in scuole rigorosamente segregate, per porre un qualsiasi rimedio a quello stato di cose; sognava di diventare avvocato per essere di aiuto ai suoi fratelli di colore, nell'utopistica idea di una giustizia universale.
Durante l'adolescenza, mentre frequentava il "Morehouse College" grazie ad un insegnante, capì l'importanza della religione: solo la fede in Dio permetteva ai fratelli negri di sopravvivere e di credere che "Lassù Qualcuno li amava". Per il giovane questa frase fu una tale rivelazione che, dopo il liceo, s'iscrisse al Seminario di Chester, in Pennsylvania. Completò gli studi e, durante la preparazione della tesi di laurea (conseguita in seguito, all'Università di Boston), conobbe una ragazza, Coretta Scott Young, che studiava canto al New England Conservatory con la speranza di diventare soprano. La giovane donna proveniva da una famiglia di origini modeste (il padre era un falegname) che era stata oggetto di vessazioni da parte di alcune sette razziste; anche Coretta aveva il sogno di poter fare qualcosa per la gente della sua razza. I due giovani s'innamorarono e nel 1953 si sposarono a Marion, città natale della giovane, poi si trasferirono a Montgomery (Alabama) negli Stati del Sud, ove maggiore era l'intolleranza razziale: entrambi erano decisi a lottare per non essere più giudicati inferiori, ma cittadini come gli altri.
Martin L. King esclamava: "…L'America è la nostra patria, nell'esercito di George Washington, nella guerra per la nostra indipendenza, c'erano anche cinquemila soldati negri… Perché un essere umano deve essere disprezzato per il differente colore della sua pelle?" Il modello di lotta che ispirava la sua teoria era quello proposto da Gandhi: la non - violenza. (continua....)

Inserisco qui un piccolo scritto di Gandhi speditomi da Giuseppe Pugliese il giorno di Pasqua 2003 (Solegemello, ndr)

Un dono

Mahtma Gandhi
(politico della non violenza)


Prendi un sorriso,
regalalo a chi non l'ha mai avuto.
Prendi un raggio di sole,
fallo volare là dove regna la notte.
Scopri una sorgente,
fai  bagnare chi vive nel fango.
Prendi una lacrima,
posala sul volto di chi non ha pianto.
Prendi il coraggio,
mettilo nell'animo di chi non sa lottare.
Scopri la vita,
raccontala a chi non sa capirla.
Prendi la speranza,
e vivi nella sua luce.
Prendi la bontà,
e donala a chi non sa donare.
Scopri l'amore,
e fallo conoscere al mondo.


(...) Le sue prediche incominciarono a renderlo famoso tra i suoi fratelli di razza e non solo, la sua battaglia per i diritti civili stava attirando un numero di proseliti sempre più numerosi.

Nel dicembre del 1955 un fatto, in apparenza banale, dette una svolta alla lotta di King. Un'operaia negra salì su un autobus per tornare a casa: aveva lavorato tutto il giorno ed essendo molto stanca, cercava un posto per sedersi. Essendo occupati tutti i posti riservati ai negri, si sedette su uno, tra i molti rimasti liberi, riservato ai bianchi. Immediatamente le fu imposto di alzarsi, ma lei rifiutò, intervenne il bigliettaio, fu chiamata la polizia e Rosa fu arrestata per essersi seduta su un posto "per i bianchi". Fu la classica goccia che fece traboccare il vaso: King convocò una riunione di tutti i suoi seguaci stanchi di subire soprusi, anche peggiori di quello sofferto dall'operaia. In questa occasione fu lanciata l'idea di boicottare tutti i mezzi pubblici: nessun negro sarebbe salito sull'autobus fintanto che non fosse stata tolta la "spartizione dei sedili".
L'iniziativa ebbe un enorme successo: il giorno dopo le vetture pubbliche erano completamente vuote, non solo i negri ma anche i bianchi avevano aderito alla "Lotta non violenta".
La situazione continuò, immutata anche nei giorni seguenti, i mezzi pubblici rimasero vuoti e le autorità non cedevano e, non sapendo come risolvere la questione, citarono in tribunale Martin L. King per "aver danneggiato l'azienda dei trasporti pubblici", ma, mentre stava per iniziare il processo, arrivò la strepitosa notizia: la Suprema Corte degli Stati Uniti d'America aveva dichiarato "illegale" la segregazione praticata negli autobus. Fu un'enorme vittoria per King, ma il suo prezzo fu altrettanto alto: gli fecero esplodere una carica di dinamite davanti alla casa, egli stesso fu preso a sassate, picchiato ed aggredito dai cani della guardia nazionale; fu inoltre arrestato una ventina di volte durante le manifestazioni per la pace e, più di una volta, lo stesso John Kennedy, non ancora eletto presidente, pagò personalmente la cauzione per farlo uscire dalla prigione.
Nell'agosto del 1963 Martin L. King guidò un'enorme manifestazione interrazziale a Washington, ove pronunciò un discorso (unendo i criteri della non violenza e ideali cristiani) che iniziava con queste parole "I have a dream…", l'anno seguente gli fu assegnato il premio Nobel per la pace e il papa Paolo VI lo ricevette in Vaticano.
Purtroppo però doveva constatare che la lentezza dei poteri pubblici, il costante e profondo razzismo dei bianchi, non solo negli Stati del Sud, continuava ad esasperare i negri che si rivolgevano sempre più alle soluzioni estremiste, a lui ostili e sostenute da nuovi organismi rivoluzionari: i seguaci musulmani di Malcom X, Black Power, Black Panthers.
Nel mese di aprile dell'anno 1968 si recò a Menphis per partecipare ad una marcia a favore degli spazzini della città (bianchi e neri), che erano in sciopero. Mentre, sulla veranda dell'albergo, s'intratteneva a parlare con i suoi collaboratori, dalla casa di fronte vennero sparati alcuni colpi di fucile: Martin L. King cadde riverso sulla ringhiera, pochi minuti dopo era morto. Approfittando dei momenti di panico che seguirono, l'assassino si allontanò indisturbato. Erano le ore diciannove del quattro aprile.
Pochi giorni dopo, ad Atlanta, si svolsero le esequie di King, a cui intervennero migliaia di persone, tra le quali Marlon Brando e Nelson Rockefeller.
Il killer fu arrestato a Londra circa due mesi più tardi, si chiamava James Earl Ray ed aveva già dei precedenti per rapina, alcolismo e spaccio di dollari falsi. Al processo fu condannato a novantanove anni di reclusione, ma, qualche anno dopo, riuscì ad evadere. Dopo essere stato catturato nuovamente, rivelò che non era stato lui l'uccisore di Martin Luther King, anzi sosteneva di sapere chi fosse il vero colpevole. Nome che non poté mai fare perché venne accoltellato la notte seguente nella cella in cui era rinchiuso.
Ancora oggi il mistero rimane insoluto, alcuni sostengono che ci siano troppe analogie tra il caso King ed il caso Kennedy per trattarsi solo di semplici coincidenze; comunque, il o i colpevoli, se sono mai esistiti e se sono ancora vivi, continuano ad essere sconosciuti.


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"il caso Amadou Diallo"
nella canzone "American skin"(41 shots) di Bruce Springsteen
(gli articoli sono tratti da internet)
clicca qui
per il testo della canzone "American Skin" (41 shots) tradotto in italiano


Riabilitati gli assassini di Amadou Diallo

Non saranno puniti i quattro poliziotti bianchi che due anni fa a New York, nel quartiere del Bronx, uccisero Amadou Diallo, un giovane immigrato della Nuova Guinea, inerme e disarmato, sparando contro di lui 41 colpi. Lo ha annunciato il capo della polizia di New York, Bernard Kerik. In una conferenza stampa, Kerik ha reso noto i risultati di un'inchiesta interna, che ha stabilito che i quattro agenti, assolti l'anno scorso da un tribunale di Albany (capitale dello stato di New York), hanno fatto un errore sparando 41 colpi contro Amadou Diallo, ma non hanno violato le norme della polizia sull'impiego delle armi. I poliziotti rientreranno in servizio dopo alcuni corsi supplementari di addestramento.
Diallo, un venditore ambulante immigrato dall'Africa, fu ucciso all'ingresso del palazzo in cui viveva nel Bronx quando 19 dei 41 proiettili sparati dagli agenti in borghese lo raggiunsero il 4 febbraio '99. I poliziotti lo scambiarono per uno stupratore cui stavano dando la caccia. Fermato degli agenti, il ragazzo fece un movimento con il braccio per prendere il portafogli e mostrare i documenti. I legali dei quattro agenti riuscirono a convincere la giuria del processo ad Albany che gli imputati spararono quando videro Diallo che estraeva dalla tasca un oggetto che secondo loro poteva essere una pistola ma che in realtà era appunto un portafogli.
Il caso fece molto scalpore e la polizia finì sotto accusa sui quotidiani. Stupì soprattutto il gran numero di colpi sparato contro un uomo e il fatto che Diallo fosse un nero alimentò le tensioni. L'episodio è diventato un simbolo: nel quartiere del Bronx dove il ragazzo fu ucciso, è stato dipinto un grande murale con il volto di Diallo, mentre i quattro agenti sono rappresentati da altrettanti volti coperti con il cappuccio del Klu Klux Klan. Dopo l'assoluzione in tribunale degli agenti, ci fu una manifestazione nel Bronx. Il presidente Clinton si disse convinto che «la maggior parte degli americani, di qualunque razza, pensa che se Amadou fosse stato un ragazzo bianco di un quartiere tranquillo, tutto ciò non sarebbe successo». E alla vicenda Bruce Springsteen ha dedicato una canzone intitolata «American skin (41 shots)». Springsteen ha eseguito per la prima volta il brano nella tappa del suo tour 1999-2000, ad Atlanta, una delle città a maggioranza nera degli Usa. Pochi giorni dopo erano in programma una serie di date del suo tour a New York (dove aveva invitato anche i genitori di Diallo). Le associazioni della polizia newyorkese invitarono pubblicamente, a causa di quella canzone, a boicottare i suoi concerti, cosa che ovviamente non avvenne.

clicca qui per il testo della canzone "American Skin" (41 shots) tradotto in italiano

New York, i "ragazzi in blu" di Giuliani contro il Boss
per "Amerikan skin", una canzone per l'immigrato ucciso
La chitarra di Springsteen
un'arma contro la polizia
domani al Garden, il brano per Diallo
che fu ammazzato perché scambiato per un criminale


VITTORIO ZUCCONI

SHINGTON - Basta un accordo di chitarra per far tremare le code di paglia. Bastano una canzone, un titolo, un grande del rock per scuotere le coscienze inquiete di quella "tolleranza zero" che comincia a stancare l'America. Sbarca a New York Bruce Springsteen, il Boss, con una canzone nuova per i suoi dieci concerti al "Garden" e scoppia subito la guerra tra chitarre e pistole. Si chiama "American Skin", chiede se si possa ancora morire per la sola colpa di essere nati dentro la pelle sbagliata come morì quell'immigrato africano, Amadou Diallo, che i poliziotti di New York scambiarono per un criminale e uccisero con 41 proiettili.

La canzone risuona male, malissimo, nei commissariati, nelle autopattuglie, nelle strade cattive che i 28 mila poliziotti di New York devono battere e i "ragazzi in blu" dichiarano guerra a Springsteen, lo boicottano, rifiuteranno il servizio di sicurezza al Madison Square Garden, vorrebbero cacciarlo dalla loro città. E nello scontro fra parole e proiettili si sente il suono della fine di un'epoca, del mito della città stanca di essere l'OK Corral.

Eppure Springsteen era sempre stato un idolo di uomini e donne in divisa, con quella sua musica ruvida e profumata di asfalto, la sua voce da taverna, il patriottismo accanito e un po' disperato di chi grida d'essere "Born in the USA", nato in America con la voce arrochita. Se il sindacato degli agenti di New York arriva non soltanto a boicottarlo, ma ad accusarlo di "essere venuto al Garden per imbottrsi il portafoglio con i drammi della nostra città" è perché la polizia, qui come a Los Angeles, come in tutte le città investite dalla sbornia della "tolleranza zero" si sente sempre più abbandonata da politicanti che prima l'hanno lanciata in guerra contro i cittadini e ora cominciano a rinnegare quegli eccessi ai quali l'hanno incitata.

La canzone "American Skin" non fa nomi, ma non ce n'è bisogno: quando Springsteen canta dell'uomo che muore soltanto per "avere vissuto dentro la propria pelle americana", sotto uno sciame di quarantuno proiettili, tutti, a New York, sanno che canta del giovanotto africano completamente incensurato, ucciso nell'androne di casa soltanto perché tirò fuori dalla tasca un portafoglio che un gruppo di agenti in borghese scambiò per un'arma, la sera del 9 febbraio 1999.

I quattro agenti, quattro uomini delle Pattuglie Anti Crimine create da Giuliani, sono stati assolti da ogni accusa e la polizia di Manhattan vuole che la vergogna di questo omicidio sia dimenticata in fretta. Esattamente il contrario di quello che il pezzo di Springsteen, e i suoi dieci concerti già tutti esauriti al Garden, faranno.

Hanno paura che le liriche della sua canzone, la passione che The Boss sa suscitare in chi lo ascolta possano sollevare la polvere e gli animi, attorno a una serie ormai molto lunga di violenze commesse sotto la bandiera di una "tolleranza zero" che spesso era soltanto intolleranza per la pelle, il colore, l'accento, l'essere "straniero". Per l'omicidio di Diallo, per la tortura di Abner Louima, un haitiano al quale gli agenti di un commissariato si divertirono per ore a infilare manganelli nel sedere "perché tanto voi siete tutti froci", per i 30 mila arresti all'anno che il New York Police Department e le "Unità Stradali Anticrimine" compiono contro neri e sudamericani senza altro sospetto che la "presunzione razziale di colpevolezza", la città vive nella paura di una rivolta, come quella che squassò Los Angeles nel 1992 dopo il fermo e il pestaggio di Rodney King. E le note di Springsteen sembrano, ai poliziotti, cerini accesi buttati in un serbatoio di benzina.

Sono soprattutto la rabbia, il rancore, il senso di frustrazione e di confusione, le molle che hanno sollevato la polizia di Rudi Giuliani contro il piccolo dio del rock, improvvisamente nemico. A New York come a Los Angeles, dove un processo in corso ha sollevato la pietra sopra il verminaio della corruzione poliziesca e dei falsi arresti (73 detenuti già in carcere sono stati liberati perché gli agenti avevano "inventato" prove contro di loro) gli uomini e le donne della pubblica sicurezza sono chiamati a un'impresa impossibile: quella di prevenire, stroncare, combattere sui marciapiedi la guerra dell'ordine senza svelare lo sporco segreto che ogni politicante conosce e nessuno osa dire. Che "tolleranza zero" vuole dire "intolleranza razziale".

Nei ghetti neri di Harlem, di East L.A., di Watts, la polizia è il nemico, perché ogni ragazzo scuro all'angolo di una strada, ogni portoricano, ogni africano dinoccolato è un sospetto. Segretamente i dipartimenti di polizia usano il "racial profiling", gli stereotipi razzisti che fanno di ogni giovanotto nero un indiziato. Uno studio recente sulla brutalità poliziesca rivela che l'83 per cento di tutti gli arresti per "probabile causa", per sempilice sospetto, colpiscono afro americani e persino giornalisti, professori universitari, atleti di colore confessano di avere paura, quando guidano auto di lusso lungo autostrade, perché un nero che guida un'auto di lusso è, per definizione, un sospetto. Governatori, sindaci, sceriffi eletti con la promessa di "fare pulizia" chiedono arresti, statistiche, successi da vendere agli elettori, come i generali in Vietnam chiedevano il "body count", il conteggio dei caduti nemici, da vendere ai politici e ai giornali. Ma quando esplode lo scandalo, i politicanti- mandanti si uniscono all'indignazione. Pagano sempre i poliziotti da strada.

Ora che l'alta marea dell'economia ha ridotto il numero di crimini commessi - questa del rapporto fra disoccupazione e criminalità è la sola correlazione certa e dimostrabile in tutte le città e tutte le nazioni - il piedipiatti invocato come salvatore di ieri, diventa l'ingombrante, imbarazzante brutalizzatore di oggi. E questo spiega la collera dei "boys in blue" di New York contro Springsteen, la reazione violenta a una semplice, banale canzone.

A Los Angeles i poliziotti sono dati in pasto ai giudici, per tenere buone le masse di latinos e di neri. A New York, per ora, sono crocefissi alle chitarre di Bruce e della E Street Band, il suo gruppo. Ma il loro santo protettore, Rudi Giuliani, è malato, è, anche se guarirà, alla fine della sua carriera politica. I poliziotti hanno paura della vendetta di coloro che indossano dalla nascita l'"American Skin" sbagliata.

(11 giugno 2000)





American Skin (41 Shots)
Bruce Springsteen


41 shots
41 shots
41 shots
41 shots
41 shots
41 shots
41 shots
41 shots...
And we'll take that ride
'cross this bloody river
To the other side
41 shots... cut trought the night
You're kneeling over his body in the vestibule
Praying for his life

Is it a gun, is it a knife
Is it a wallet, this is your life
It ain't no secret
It ain't no secret
No secret my friend
You can get killed just for living
In your American skin

41 shots
Lena gets her son ready for school
She says "On these streets, Charles
you've got to understand the rules
If an officer stops you
Promise you'll always be polite,
that you'll never ever run away
Promise Mama you'll keep your hands in sight"

Is it a gun, is it a knife
Is it a wallet, this is your life
It ain't no secret
It ain't no secret
No secret my friend
You can get killed just for living
In your American skin

Is it a gun, is it a knife
Is it in your heart, is it in your eyes
It ain't no secret

41 shots... and we'll take that ride
'cross this bloody river
To the other side
41 shots... got my boots caked in this mud
We're baptized in these waters and each other's blood

Is it a gun, is it a knife
Is it a wallet, this is your life
It ain't no secret
It ain't no secret
No secret my friend
You can get killed just for living
In your American skin




Pelle americana (41 colpi)
Bruce Springsteen
(tradotta da Andrea Sardo)

41 colpi
41 colpi
41 colpi
41 colpi
41 colpi
41 colpi
41 colpi
41 colpi
E prenderemo quella strada
Attraverso questo fiume di sangue
Verso l'altra riva
41 colpi... tagliano la notte
Sei inginocchiato sul suo corpo nell'atrio di casa
Pregando per la sua vita

E' una pistola, è un coltello
E' un portafoglio, questa è la tua vita
Non c'è nessun segreto
Non c'è nessun segreto
Nessun segreto amico mio
Puoi essere ucciso anche solo perché vivi
Nella tua pelle americana

41 colpi
Lena prepara suo figlio per la scuola
Dice "Per queste strade, Charles
Devi imparare le regole che ci sono
Se un poliziotto ti ferma
Prometti che sarai sempre cortese,
Che non scapperai mai
Prometti alla mamma che terrai sempre le mani in vista"

E' una pistola, è un coltello
E' un portafoglio, questa è la tua vita
Non c'è nessun segreto
Non c'è nessun segreto
Nessun segreto amico mio
Puoi essere ucciso anche solo perché vivi
Nella tua pelle americana

E' una pistola, è un coltello
E' nel tuo cuore, è nei tuoi occhi
Non è un segreto

41 colpi... e prenderemo quella strada
Attraverso questo fiume di sangue
Verso l'altra riva
41 colpi... ho gli stivali incrostati di questo fango
Siamo stati battezzati in queste acque e nel sangue degli altri

E' una pistola, è un coltello
E' un portafoglio, questa è la tua vita
Non c'è nessun segreto
Non c'è nessun segreto
Nessun segreto amico mio
Puoi essere ucciso anche solo perché vivi
Nella tua pelle americana


(tradotta da Andrea Sardo)





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