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     Il mito dei gioielli di zia Maria (così la chiamano parenti e amici) corre tra le sue nipoti, le quali credono che ci siano, al riguardogià alcune disposizioni testamentarie, sempre suscettibili, comunque, di qualche ritocco.
     La zia non usa truccarsi il viso, secondo un costume che risale alle sue ave, ma ha una cura meticolosa dei capelli, che vengono regolarmente tinti, tagliati e acconciati da una parrucchiera di sua fiducia.
     In questa donna burbera e generosa, dura e fragile nello stesso tempo, sembrano convivere l'anima di una grande dama e quella di una portinaia: ora nobile e superiore nei giudizi e nei consigli, ora arrogante, insinuante e perfida, capace di parole perfino volgari. Il linguaggio è singolare, in questa donna, e deve trattarsi, anche per questo, di un fenomeno di natura ancestrale: è incredibile, infatti, la duttilità con cui lei passa, come Cicerone, dallo stile attico a quello asiano, da un parlare semplice, chiaro e affabile, ad uno solenne, biblico, infarcito di espressioni oscure, che disorienta chi la sta a sentire.
    Convinta di essere sempre nel giusto, non distingue tra bene e male, per cui può beneficare o colpire con la stessa imperturbabilità, certa di avere, sempre, operato per un buon fine, e secondo i suggerimenti di un'anima superiore: un atteggiamento che le deriva, forse, dalla boria di famiglia, ma anche dall'esperienza di una vita in cui non sono mancati gli ostacoli, che lei ha affrontati e risolti quasi sempre da sola.
    I suoi occhi bovini si stringono fino a diventare simili a fessure quando lei indaga a fondo, per capire, o rimesta nel pozzo profondo della sua memoria.
    In questi momenti il viso della donna, che ha lineamenti classici quasi belli, si indurisce nella maschera di un idolo minaccioso, immerso nel gorgo oscuro dei suoi pensieri.

* * *

    Quell'anno il compleanno di zia Maria fu festeggiato con particolare solennità. Il colore scelto per l'abito fu il verde: un verde nitido, smagliante. Come gioielli furono scelti gli smeraldi. La zia sembrava un grande albero nel pieno della sua fogliatura: una quercia, un abete, un faggio secolare.
    Lei stessa si sentiva come una pianta con le radici ben piantate nella terra, e la cima svettante verso il cielo. Perché era al cielo, allo spazio libero e pulito, che la sua anima, segretamente, aspirava.
    Era il ventisei di luglio; cielo tersissimo. Fin dalle prime ore del mattino giunsero i doni. Un gigantesco ramo di orchidee, carnose, avide di vita e di luce, fu collocato, in un vaso di cristallo, sul canterano del salotto. Presto gli furono accanto astucci e scatole infiocchettate, biglietti e telegrammi. Prima di pranzo arrivò, da Milano, il fratello di Maria, Giorgio. Senza di lui non c'era festa.
    Medico dentista, era l'espressione del genio di famiglia, anche se alla figura tipo degli antenati aveva apportato qualche ritocco.
    Di natura pigra ed edonistica, non aveva avuto, nella professione, lo slancio aggressivo, capace anche di sacrificio, proprio dei suoi predecessori. Lui non aveva inteso immolarsi sull'altare del lavoro. Dello studio dentistico, che il padre aveva provveduto ad attrezzargli, aveva fatto uso solo per qualche tempo; presto si era stancato di quel lavoro noioso e ripetìtivo, per cui aveva preferito affidarlo ad un giovane medico, avendone in cambio una parte del guadagno.
    Aveva quindi dato avvio alla sua vita da gattopardo, per la quale era particolarmente tagliato.
    Uomo bellissimo, era stato costantemente assediato dalle donne, che non stimava e di cui temeva l'invadenza attentatrice alla sua libertà. Tuttavia si era sposato, senza troppo entusiasmo, e aveva messo al mondo due figli, un maschio e una femmina, di cui, rimasto vedovo, fu per lunghi anni distratto custode.

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