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Conferenza
stampa
La conferenza stampa è, dopo le
cavallette, settima, e il rinnovo del contratto, ottava,
la nona piaga dei giornalisti. S’ignora cosa spinga
chicchessia a preferire la formula della conferenza a
quella più agevole del comunicato. Tanto non c’è
differenza, anche se il risultato al termine della
conferenza è nettamente inferiore.
L’unica cosa che
spinge un giornalista a presenziare a una conferenza
stampa, oltre agli ordini di servizio, è la possibilità
di trovare gadget o, al limite, di rimediare un bloc notes e
una penna. Se il gadget è un portachiavi (come nel 99%
dei casi) comunque il cronista sarà insoddisfatto del
proprio lavoro e lo manifesterà apertamente nel proprio
pezzo.
Una conferenza stampa si compone di quattro fasi.
1) Atrio della sala stampa in attesa dei relatori.
I colleghi si scambiano informazioni su cosa avrebbero
potuto fare di più e di meglio invece di attendere uno,
nella migliore delle ipotesi, più, in caso di
catastrofe, persone che ‘tanto si sa già cosa hanno
da dire’. I cineoperatori bivaccano ai lati
appoggiati mollemente ai treppiedi, scambiandosi
eloquenti occhiate ogni qualvolta il ‘proprio’
giornalista apre bocca.
Dopo una vita dedicata all’arte visiva i
cineoperatori conoscono solo il linguaggio degli occhi.
Palpebre chiuse: ‘adesso comincia’. Doppio battito di palpebra: ‘te l’avevo detto…
ascoltalo e sappimi dire’. Occhi al cielo: ‘non
lo ferma più nessuno’. Occhi al cielo, sospiro e
cenno del capo verso il collega dell’emittente
concorrente: ‘cazzi tuoi…chi è quel cretino
che gli dà spago?’ Occhi al cielo e scassata di
testa: ‘te l’avevo detto che il mio è peggio
del tuo…’.
A salvare la situazione squilla il primo cellulare.
E’ la redazione con nuove indicazioni (o un amico
che viene fatto passare per redattore capo, in modo da
consentire un briciolo di professionalità).
I cellulari
squillano ininterrottamente. Chi non viene chiamato cerca
di darsi un contegno. I maschi decantano le meraviglie
dell’ultima macchina comprata a rate, le donne si
guardano con odio, studiando domande sempre più
difficili e complicate per far fare brutta figura alla
collega.
Con un buon margine di ritardo, mentre ormai
l’addetto stampa ha esaurito tutte le sue cartucce
(‘Hai scritto un pezzo meraviglioso’, ‘Ti
dovevo richiamare per dirti una cosa che forse ti
interessa…’, ‘Dio mio, ma cosa hai fatto,
sembri più giovane di vent’anni?’, ‘Non
ti hanno dato, la cartella? Scusami, arrivo
subito…’, ecc.), arriva o arrivano i relatori.
2) Blocco totale sulla porta, per
assecondare le necessità delle televisioni. I
cineoperatori imbracciano le telecamere, i giornalisti
televisivi e radiofonici i microfoni, gli altri si
uniscono al gruppo con registratore o blocco
d’appunti, così ‘magari si va via prima’
(non si sa mai si riesca anche a fare la spesa prima di
rientrare in redazione). L’intervistato ripete in
viva voce quanto già scritto nel comunicato
d’invito alla conferenza e quindi, chi vuole, può
entrare in sala.
3) L’intervistato ripete in viva voce
quanto già scritto nel comunicato d’invito alla
conferenza. Se aggiunge ‘Sarò breve’, i
giornalisti seduti vicino alla porta (solitamente quelli
con maggiore anzianità di servizio e posto fisso)
guadagnano l’uscita con la scusa di una sigaretta.
Nelle prime file siedono nell’ordine: i parenti, gli
amici, eventuali dipendenti, giornalisti neoassumibili,
giornaliste. Carrellata dei cineoperatori sulla
segretaria del relatore che prende appunti e su due
cronisti che si stanno scambiando l’indirizzo del
rivenditore di auto. Al termine della conferenza segue
imbarazzante pausa, preceduta dalla fatidica frase:
‘Ci sono domande?’
4) Purtroppo sì. C’è sempre qualcuno, nel
variopinto mondo del giornalismo, che non ha ancora
capito che se i relatori hanno qualcosa da dire di
veramente interessante non lo diranno mai pubblicamente
e, soprattutto, non lo diranno a tutti, ma solo a chi fa
loro comodo.
E che, per quanto la domanda possa essere
intelligente e articolata, dopo un’ora di sala
stampa, privi d’aria e frastornati di parole, i
colleghi sognano solo di riconquistare la libertà.
Finite le domande l’addetto stampa autorizza
l’uscita, stringe le mani di tutti (con le solite
mezze frasi: ‘Mi raccomando…’, ‘Ci
conto…’, ecc.) e lancia occhiate allusive a
coloro che, sopravvissuti alla noia, hanno a disposizione
quella mezz’ora, privata, per porre domande serie
al/ai relatori. O saluta chi, con la scusa del ritardo,
si beccherà l’intervista in esclusiva.
Interviste
L’intervista, come fonte di notizia, è quanto
di più arduo esista nel giornalismo. Prevede infatti
l’esistenza di due soggetti, oltre
all’intervistato (che si presuppone debba aver
qualcosa da dire) l’intervistatore ossia il
giornalista.
E’, in pratica, una forma particolare
di seduta psicoanalitica per cui valgono le stesse regole
in uso in terapia. Assecondando la propria indole e in
particolare quella del direttore, il giornalista potrà
adottare tecniche freudiane, junghiane o lacaniane.
Esistono poi due varianti metodologiche di stampo
esoterico, non codificate dalla medicina ufficiale: il
marzullismo e il biagismo.
Tecnica freudiana. Ciò che interessa
all’intervistatore freudiano è il ‘surrealismo
psicologico’. L’intervistato viene lasciato
libero di rivolgere la mente dove vuole, senza
obbligatoriamente mettere in ordine nelle sue idee, senza
legarle logicamente tra loro.
All’inizio è naturale
che vi siano esitazioni o silenzi, perché il soggetto
intervistato lotta tra ciò che gli passa per la testa e
l’immagine che vorrebbe dare di sé. Bisogna si
renda conto che l’intervistatore è del tutto
neutro, che non si meraviglia mai di ciò che ascolta
perché tutto è per lui normale.
L’intervistatore freudiano dunque non pone
domande. Apre il registratore e prende appunti,
interrompendo il monologo dell’intervistato solo in
caso di discorsi assolutamente incomprensibili o per
incensare l’interlocutore.
Spesso pensa ai fatti
propri, quando non si assopisce. Qualunque cosa gli dica
l’intervistato mantiene l’aria di chi ‘lo
sa già’. Quando l’intervistato proclama
‘e questo è tutto’, magari aggiungendo
‘per oggi’, chiude taccuino e registratore,
ringrazia e se ne va.
A questo punto il suo lavoro si fa veramente duro. In
primo luogo perché l’intervistatore nel 90% dei
casi non riesce a capire che cavolo ha scritto negli
appunti ed è quindi costretto a sbobinarsi la cassetta.
Poi perché scopre che l’intervistato non ha detto
nulla, ma proprio nulla, di quanto non si sapesse già.
E al quel punto è tardi per porgli domande. Raccatta
dunque alla bell’e meglio i passaggi che gli
sembrano più significativi, li riordina sulla base di
domandine semplici (soggetto, predicato e complemento
oggetto) e consegna l’intervista al capo redattore,
che si congratula per l’equilibrio del lavoro
svolto.
E’ la tecnica in voga nel giornalismo parlamentare
o, più in generale, in quello di testate locali, dove
s’intervistano solo gli amici dell’editore.
Tecnica junghiana. S’inserisce in
quella corrente di pensiero caratterizzata dal ritorno al
soggetto e tende a ricollocare nella persona il momento
primo della sua alienazione sociale e il suo possibile
recupero.
L’intervistatore junghiano intende fondare
nell’uomo le radici affettive di una nuova immagine
di sé che superi il limite della particolarità egoica
per abbracciare il divenire storico e sociale
dell’umanità.
In tal senso l’intervistatore porrà domande della
durata di venti minuti, in cui ripercorrere, a partire da
Adamo e Eva, l’intera storia dell’umanità in
tutte le sue sfaccettature. L’intervistato ha di
fronte due sole possibilità: affermare o negare. Ma di
solito s’è già addormentato.
La tecnica junghiana, molto in voga tra i giornalisti
rampanti, porta a conclusioni sorprendenti. Inseguendo il
proprio ragionamento e le proprie conoscenze, sfiancando
magari l’avversario, pardon l’intervistato, il
giornalista junghiano è capace di far ammettere a
Berlusconi o a Andreotti di aver avuto contatti con la
mafia.
Quando l’intervista diventa pubblica (ci vogliono un
paio di giorni, perché è difficile sintetizzare le
domande e trasferire parte del proprio discorso
all’interlocutore, che magari ha solo annuito con un
cenno del capo) l’intervistato s’incavola di
brutto, nega tutto e sporge querela. La causa si
trascinerà per anni nei tribunali anche perché i
magistrati faticano a sbobinare il tutto senza andare in
catalessi.
Tecnica lacaniana: quello che conta è
come l’intervistato parla, non cosa dice. Pertanto
il tempo dell’intervista può durare pochi secondi o
in eterno visto che ciò che interessa
all’intervistatore è il ritmo entro il percorso dei
significanti.
E’ la tipica tecnica da talk show
televisivo, dove la mimica spesso assume più importanza
dei contenuti (inesprimibili dal momento che ci sono
almeno una decina di ospiti da intervistare). Si tratta
d’interviste che si possono seguire anche senza
audio e che servono all’intervistato per dire
‘Hai visto, da Costanzo c’ero
anch’io…’.
Tecnica marzulliana: si rifà al nome
del suo fondatore, Gigi Marzullo, che, secondo alcune
scuole di pensiero, l’ha desunta direttamente dai
telegiornali locali e dai quesiti dell’orale agli
esami di giornalismo.
Consiste nel porre domande talmente
semplici da indurre l’interlocutore a credere che si
tratti di alta filosofia. Spiazzato, l’intervistato
cercherà di dimostrarsi all’altezza della
situazione, fornendo risposte che superano ogni limite
del grottesco. Il risultato è lo straniamento totale di
fruitori e attori, raggiungibile in altri settori solo
dagli esperti di Sufi.
Tecnica biagiana: pochissimi in Italia
sono in grado di applicare le tecniche biagiane. Solo
Enzo Biagi, Bruno Vespa e Enzo Bettiza. Eppure si tratta
di un lavoro elementare: basta trovare una casa editrice
disposta a pubblicarti 52 libri all’anno e
recuperare 52 personaggi importanti disposti a
raccontarsi.
Dal momento che il biagismo è in voga da
decenni, fatto un rapido calcolo, 52 (i libri) x 10 (gli
anni, in difetto) x 3 (gli autori) si superano
abbondantemente le 1500 persone intervistate. Al momento
attuale il mercato è ovviamente saturo.
Per quel che riguarda l’impostazione delle domande
vale nel giornalismo la ‘regola delle 3 C’:
domande compiacenti, compiaciute e ‘culo’. In
quest’ultimo caso intese come dettate dalla fortuna
(si chiede e nella risposta c’è quanto nessuno
avrebbe mai osato chiedere), più spesso suggerite
dall’ultimo tratto dell’intestino.
Gli informatori
Ogni bravo giornalista ha i suoi informatori.
I giornalisti delle testate politiche ne hanno talmente
tanti (tutti i politici, gli iscritti e i simpatizzanti
del partito) che la notte s’addormentano sognandosi
paparazzi di Novella Duemila all’inseguimento di
Mara Venier in topless.
Gli informatori, nella vita di tutti i giorni, sembrano
persone normali. In realtà da ragazzi divoravano spy
story e, una volta cresciuti e diventati amici di un
giornalista, non lo mollano più.
Per riconoscere un
informatore basta attendere che ti contatti con la tipica
espressione gergale ‘Qua te lo dico e te lo
nego’. Il giorno seguente ti consegnerà un baule di
carte al motto di ‘Io non ne so nulla’.
Si suggerisce di fotocopiare via via che dalla lettura
dei dossier emergono particolari interessanti. Fare
fotocopie alla fine equivale a perdere materiale
prezioso, fotocopiare tutto a perdere tempo. Non
fotocopiare proprio è da idioti, perché poi non
c’è nulla da consegnare al giudice quando,
inevitabile, arriverà l’ora del giudizio.
L’informatore infatti è un pericoloso individuo che
gode nel mettere nelle rogne i giornalisti. Come
replicante conosce cose che gli umani non potrebbero
nemmeno immaginare, ma ben se ne guarda
dall’apparire, avendo trovato un gonzo che lo fa di
mestiere.
Un bravo informatore è anche un abile
comunicatore. Butta con nonchalance frasi tipo
‘So come incastrarlo’ o ‘Io ho visto le
carte’ per solleticare l’ormai spenta
curiosità del giornalista. Fornisce a pizzichi e
mozzichi concetti che lasciano intendere, senza equivoco
alcuno, che è a conoscenza dei fatti più e meglio di
chi li ha compiuti.
Stuzzica le più basse fantasie del
cronista che, al suono delle sue parole, già si vede
vincitore del Pulitzer. Sa motivare come nessun direttore
è in grado di fare.
E quando il pollo è cotto lo abbandona per sempre al suo
destino, senza nemmeno salutarlo quando l’incontra
per strada. Questi informatori non costano nulla solo in
apparenza. Le loro notizie, tra avvocati e carte bollate,
raggiungono cifre stroboscopiche.
Più onesti gli informatori
esteri, soprattutto se appartenenti ai paesi in ‘via
di sviluppo’. Essendo già stipendiati dai regimi si
accontentano di briciole di valuta straniera e, in alcuni
casi, uniscono l’utile al dilettevole, rallegrando
piacevolmente le notti trascorse lontani da casa e
focolare domestico.
Gli informatori cresciuti secondo i dettami della
‘scuola di Mosca’ sono cortesi, poliglotti e
colti. Se non in casi eccezionali (tipo presupponenza e
ostinazione nel voler verificare di persona la fonte),
non si corrono rischi, né si fatica troppo. In aggiunta
lasciano libero il giornalista di fare ciò che vuole
della notizia venduta: tanto è comunque, sempre e solo
una palla madornale.
Il giornalismo su campo
Capita, per fortuna sempre più di rado, che il
giornalista fornisca notizie di prima mano raccolte su
campo. Questa pessima abitudine, che in passato esponeva
la categoria a rischi anche vitali (il minore era
l’alcolismo e il tabagismo cronico, nonché il
ripudio di moglie e persino madre), è oggi saggiamente
ostacolata dall’impossibilità dell’ubiquità.
Se uno infatti deve trascorrere la sua giornata
lavorativa al desk a guardare le agenzie, fare pastoni e
passare i pezzi altrui, non può essere
contemporaneamente sul luogo del delitto.
E, mettiamo
anche ci sia, non ha più quella forma mentis che un
tempo l’avrebbe portato, una volta individuato
l’assassino tra la folla, a tampinarlo per un mese
senza conoscere né sonno né fame, in piena complicità
tra inseguito e inseguitore. Torna tranquillamente in
redazione e attende che, prima o poi, la polizia invii il
suo mattinale (o che telefoni la segretaria del
magistrato per ‘un aperitivo’).
Se poi si tratta di un collaboratore che, non avendo un
posto di lavoro, girovaga alla ricerca disperata di
notizie, è necessario porre molta attenzione:
solitamente sono persone infide, apparentemente
disinteressate agli spiccioli che elemosinano, ma capaci
di piantarti una causa per assunzione quando meno te
l’aspetti. Meglio mantenere prudenza, in fondo di
una mancata notizia non è mai morto nessuno e ci si può
sempre ritornare in seguito.
Anche per quel che riguarda le inchieste
molto è cambiato rispetto al passato. Oggi si può
contare sul valido aiuto dell’Istat e soprattutto
dei sondaggi. Grazie ai sondaggi è possibile avere il
polso della situazione e conoscere in anticipo gli
interessi dei lettori.
Ad esempio, se un’azienda di sondaggi fornisce i
dati sul consumo di prosciutto o mortadella in Italia è
ovvio che gli italiani (e non solo la multinazionale di
salumi che l’ha commissionata) non desiderano altro
che sapere se fan parte di quella fetta di popolazione,
di destra, che si strafà di crudo o di quell’altra,
di sinistra, storicamente fedele alla mortadella.
L’intervento di un bravo psicologo- che spiega che
il Parma e il San Daniele in parte della popolazione
rappresentano la virilità e quindi incentivano
stereotipi machisti, mentre i pistacchi e le bolle di
grasso nella mortadella richiamano a un ritorno
all’utero materno e quindi al partito in senso
leninista- farà piazza pulita di tante dicerie sul
consumo degli insaccati in epoca moderna. Fatto che
consente a tutti di dormire tra due fette di guanciale.
I tempi di Mario Soldati sono lontani e anche la cucina
non necessita più di prese dirette. Al limite, se
proprio si vuol essere alternativi, basta consultare i
sondaggi sull’inarrestabile ascesa della
macrobiotica e sul tracollo Mib della fiorentina.
Dicevamo che può comunque succedere che, per
congiunzioni astrali particolarmente sfavorevoli, un
giornalista si trovi proprio sulla notizia. Se non è
fortemente disturbato, se la nonna non lo picchiava da
piccolo, se non sta maniacalmente pensando al suicidio
seguirà il suo istinto e s’unirà al branco. Dei
giornalisti.
Il branco dei giornalisti
sulla notizia, come recentemente ricordato in
una trasmissione di Piero Angela, ricorda molto il
comportamento delle antilopi nella savana.
All’apparire dell’avvocato della difesa gli
corrono tutti incontro.
Sbatte una porta, esce
dall’altra parte quello dell’accusa, e il
branco inverte la rotta. Si sente il ruggito del
magistrato e le bestiole, stordite, cercano di sfidare il
leone, mentre nel contempo la leonessa, madre
dell’accusato, spalanca le fauci a nuove
dichiarazioni.
Più in là, protetta dall’oscurità dei corridoi
del palazzo di giustizia, siede una giovane donna vestita
di nero. Un’antilope stanca la raggiunge per
condividere la panca e fumare una sigaretta.
Lascia il
branco e trova lo scoop. E’ una parente della
vittima, presente in aula: ricorda parola per parola non
solo le requisitorie, ma anche tutte le testimonianze.
Elenca le prove. Consegna quanto può. Il giornalista
uscito dal branco, con lo scoop in tasca, se ne va
rallegrandosi con se stesso per non aver mai smesso di
fumare...
I mezzi d’informazione.
Cos’è e come si fa un giornale
Un giornale è un’opera d’ingegno
collettivo che ha nel direttore colui che
s’assume l’onere di esserne autore e
nell’editore l’uomo che si fa carico del
rischio di creare e vendere il prodotto. Questa è la
risposta giusta da dare all’orale dell’esame di
giornalismo. Riduttiva come ogni risposta da manuale. Un
giornale può infatti essere molto di più.
In caso di trasloco, ad esempio, con cosa riempireste gli
scatoloni del vasellame, se non con carta di giornale?
Cosa fornite al pittore che vi chiede qualcosa per
proteggere il pavimento?
E vi siete mai domandati perché
i vetri delle case e delle auto americane brillano più
di quelli nostrani? Hanno l’Herald Tribune, prodotto
con un tipo di carta che non graffia e assorbe
perfettamente l’umidità, lasciando le superfici
libere da acqua e detersivi.
Avete mai visto la casa di una comunista? La si riconosce
dalle tracce di colore sui vetri lasciate da Liberazione
o dalla nuova Unità. Volete uova fresche dal contadino?
Un bel cartoccio con le copertine di Espresso o Panorama
e ogni singolo ovetto avvolto in carta di quotidiano
permettono di non fare la frittata anzi tempo.
Si tratta, ovviamente, della fine ultima di un giornale
che, come opera d’ingegno collettivo, viene
sfruttata come un tempo si faceva col maiale. Prima di
raggiungere l’edicola, infatti, un giornale serve a
vivacizzare le notti degli insonni nelle rassegne stampa
televisive.
E’ poi una simpatica abitudine mattutina
che consente di affrontare la giornata: un caffè e una
brioche al bar, se accompagnate dalla distratta lettura
del quotidiano, ammazzano la solitudine di fronte ‘a
un nuovo giorno’ (Gigi Marzullo).
Messi assieme tanti giornali, il peso della borsa del
burocrate si riequilibra, scongiurando il mal di schiena
sempre in agguato. Un giornale (solitamente sempre lo
stesso) serve sempre, più di un Pin, di un tatuaggio, di
un piercing a identificare un adolescente con velleità
intellettuali.
E il vecchio pensionato, senza un’opera
d’ingegno collettivo, non solo non potrebbe rendersi
conto di essere un sopravvissuto (uno sguardo ai
necrologi), ma non prenderebbe mai coscienza di essere un
peso sociale (l’altro alle cronache).
Per non
parlare di chi a metà giornata cerca di programmare la
serata tra cinema e televisione. L’opera
d’ingegno collettivo insomma è parte integrante
della vita degli italiani.
Avete mai visto una casalinga sbucciare patate su un
telegiornale? Caso mai segue un Tg, gettando le bucce sul
giornale. Siete ecologisti? Un giornale si ricicla
sempre, un Tg solo in tarda serata.
Questa premessa lascerebbe intendere che i giornali non
li legge nessuno. Il che non è vero. I giornali si
leggono. O, almeno, chi non li fa li legge e chi li fa
legge quelli degli altri, ma non il proprio (niente è
più teneramente patetico del collega della tua stessa
testata che, citandosi, spera di trovare conferma di
quanto ha scritto, niente è più oscenamente ruffiano
dell’elogio del collega della testata concorrente
che ha letto quanto hai scritto).
Prendiamo dunque in mano il prodotto
dell’ingegno collettivo. Ha un nome, detto testata,
una gerenza (ossia un riquadro da cui desumere chi è il
proprietario, chi dirige quel blocco di pagine e dove è
situato e, di solito, chi sono i kapò), una sua
specificità fisica che lo rende oggetto più o meno
gradevole, detta formato, e una sua struttura peculiare,
detta impostazione grafica.
Il nome può essere accompagnato da banner pubblicitari
che trasformano appena impercettibilmente la testata. Il
quotidiano ‘Libero’ ad esempio è noto come
‘Infostrada- Libero- Infostrada’, la nuova
Unità come ‘Telecom- L’Unità- Telecom’.
E’ una formula innovativa che porterà sicuramente a
sviluppi imprevedibili, salvo restando che ‘La
Stampa’, per motivi di dignità, non si chiamerà
mai ‘Fiat- La Stampa- Fiat’. Sarebbe banale e
l’Avvocato è un editore di classe.
Esistono poi settimanali che, al nome della testata
uniscono una foto, a garanzia del marchio. Diffidate
dunque da periodici che si chiamano ‘Panorama’
o ‘Espresso’ se in copertina non c’è né
una tetta, né un culo o da ‘Oggi’,
‘Gente’ e ‘Chi’ se non appare un
Savoia o un Grimaldi o un Carrisi. Si tratta di
imitazioni.
Poco pubblicizzate, ma molto vendute,
sono anche alcune minuscole testate, spesso edite in
provincia. Si tratta di prodotti di ingegno collettivo in
tutti i sensi, con ampi servizi su ammucchiate o rapporti
interpersonali e di gruppo (non editoriale).
La loro
esistenza, se fa piangere la Federcasalinghe, risolleva
comunque da sempre le sorti dell’editoria italiana
e, talvolta, anche quelle di qualche giornalista che,
sotto pseudonimo, recupera quanto sottrattogli
dall’ultimo contratto firmato dalla FNSI.
In ogni caso la testata è il marchio che garantisce la
qualità del prodotto editoriale. Lo si capisce se il
cellophan in cui è incartato il giornale fissa il gadget
almeno sotto il titolo d’apertura.
Se il gadget
però è un pacco di croccantini per gatto, bisogna
fidarsi e comprare il giornale a scatola chiusa. Cd, Cd-
rom e videocassette rimangono gadget ideali perché poco
ingombranti. Un’automobile sarebbe il regalo più
gradito, ma pare che alla proposta si siano opposte sia
le concessionarie, che l’associazione edicolanti (e
poi costa troppo incellophanarla). Hanno una discreta
tiratura le borse per la spesa firmate e gli articoli da
spiaggia gonfiabili.
Il Sole 24 Ore ha poi ideato gli inserti
speciali che sono in pratica dei giornali gadget
allegati, nel loro bravo cellophan, al giornale
principale. Compri un quotidiano e ne porti via anche due
o tre, tutti rigorosamente sigillati. Separare la carta
dalla plastica richiede tempo, ma trattandosi del
principale quotidiano economico nazionale ogni azienda di
un certo rilievo ha provveduto ad assumere un
extracomunitario addetto alla preparazione alla lettura.
Più agile invece l’acquisto degli altri giornali,
anche se gli edicolanti infilano al posto del settimanale
allegato al quotidiano nazionale il fascicolo Guida alle
meraviglie d’Italia di quello locale o viceversa.
Grazie a queste iniziative, comunque, non c’è
famiglia italiana che non abbia almeno un opuscolo
sull’Abruzzo, Basilicata e Campania, anche se va
ricordato che la Regione Valle d’Aosta è fortemente
penalizzata, incominciando per V. In tal senso s’è
mossa anche la FNSI, invitando gli editori a produrre
guide e manuali partendo dalla zeta.
La FIEG ha assicurato interventi immediati sulla
mobilità alfabetica in cambio della disponibilità
globale alla mobilità giornalistica. L’argomento
verrà discusso in una delle prossime riunioni
all’Hotel Ergife -i cui dipendenti hanno annunciato
una mobilitazione nel caso si ripresentassero i
giornalisti.
Formato tabloid o lenzuolo, pagine tante o poche, un
giornale si caratterizza, oltre che per la testata, per
l’impostazione grafica, ossia la disposizione dei
‘moduli’, unità di misura della pagina.
I
moduli, per i collaboratori, vengono tradotti in
‘righe’. I collaboratori affermati e
professionali non discutono nemmeno più
sull’argomento, ma contrattano direttamente le
cifre. ‘120 per 60? Ok?’ I più anziani
continuano con le cartelle (‘2 o 3 cartelle?’),
i giovanissimi stanno sulle battute (‘Van bene
18.000? Sennò 7.200?’).
A un’ora non meglio precisata (se
lo fosse, al giornale non ci sarebbe nessuno) si convoca
la riunione di redazione. E’ un rito che risale ai
tempi della Santa Inquisizione e che a suo tempo portò
all’eresia albigese e catara.
Il direttore convoca i
capo redattori e i giornalisti presenti (o almeno quelli
che non sono riusciti a sigillarsi negli angusti spazi
dell’erogatrice del caffè) e getta le basi per il
numero a venire.
Esteri? Risponde il responsabile :‘Arresto di
Milosevic. Richiamo in prima, 120 per 60, più boxino,
foto e spalla’. ‘Perfetto’. Ma si pone
subito un problema: la manchette. Se la spalla è un
articolo che, messo in alto a destra, ha una sua valenza,
la manchette ne ha di più perché è un annuncio a
pagamento.
Quindi o si elimina la spalla o la manchette o la foto o
si arriva a 60 per 60 (misure che, per un pastone- ossia
il copia incolla di tutte le agenzie soprattutto in un
momento definito ‘storico per la democrazia
europea’- sono veramente scarse) o si getta il
boxino, che però è essenziale, anche perché già
preannunciato dalle agenzie.
La discussione solitamente
si fa violenta, ma alla fine vince lo spazio
pubblicitario, anche perché se la notizia c’è
sempre, lo sponsor va e viene.
Se i giornalisti sono psicofisicamente pronti alla
riunione di redazione (ossia si sono già autosedati con
Lexotan, il più amato dalla categoria, Valium e sette
tipi diversi di prodotti omeopatici o fiori di Bach) la
seduta scivola liscia tra righe, cartelle e battute. Può
succedere, però, che qualcuno abbia saltato
l’incontro col terapeuta e senta il bisogno di
sfogarsi.
Oppure che sia presente un neoassumibile, magari
ambizioso. La riunione di redazione, in questo caso,
assume connotati da thrilling. Lo sfasato o
l’ambizioso spostano la conversazione sui contenuti,
risvegliando il basso istinto giornalistico sedato da
ogni serio professionista.
Spiazzano il direttore (che è diventato tale perché da
decenni evita le notizie, conoscendone tutte le insidie),
dribblano la segretaria di redazione (che è tale perché
da anni si occupa delle notizie), fottono i colleghi (che
sono così perché tra ‘sapere evitare’ e
‘sapere e evitare’ c’è di mezzo il mare)
e si rifilano il più bell’autogol della storia di
‘Quelli che…’.
Dopo un’ora di stressante dibattito vincono la
partita. Si beccano (oltre la maledizione eterna dei
colleghi evergreen) il richiamo in prima, 18.000 battute,
boxino, foto e fondo e neanche uno spazio pubblicitario,
come richiesto.
Corrono a disegnare la pagina e
contattano le più belle firme del paese. Selezionano
foto, recuperando capacità estetiche dimenticate dai
tempi del liceo, e titolano con arguzia.
Un attimo prima
di passare la pagina apprendono, con stupore, che, per
necessità dettate da quel prodotto d’ingegno
collettivo che è un giornale, si dovranno far carico di
una manchette nuova di zecca, che non può stare da
nessun’altra parte.
C’è chi si mette in malattia per sei mesi e chi
ritorna al Valium. I neoassumibili capiscono che non
c’è speranza, si tingono la faccia col lucido da
scarpe e chiedono un posto come extracomunitari
all’azienda che ha comprato lo spazio sottratto alle
notizie.
Proviamo ora a sfogliare
un giornale. La prima cosa che balza agli occhi
sono i titoli, per definizione una sintesi che precede ed
evidenzia la notizia. Nella parte alta abbiamo
l’occhiello, summa delle circostanze del fatto,
segue il titolo vero e proprio e quindi un sommario, che
sintetizza la notizia.
Questa struttura permette ai lettori, se i titoli sono
ben fatti, di non leggere l’articolo senza ledere il
diritto ad essere informati. Esistono addirittura
giornali dove, una volta fatto il titolo, si chiude la
redazione e tutti sono liberi di andare a casa (si tratta
di quotidiani, spesso politici, che escono in
un’unica copia ad uso e consumo delle rassegne
stampa televisive). Un buon titolo è garanzia di
rilancio di una notizia, che non necessariamente deve
avere, come già detto, qualità particolari.
E’ chiaro dunque che si
tratta di mettere in gioco tutta la creatività, la
cultura e la fantasia dei giornalisti, evitando
banalità, luoghi comuni e frasi fatte. Ma è la
capacità di sintesi la principale dote di un buon
giornalista alle prese coi titoli. E un bravo giornalista
la manifesta sin dall’inizio, quando chiede al
collega di raccontargli a grandi linee che cavolo ha
scritto, in modo da metterlo nel titolo.
Facciamo finta che
Massimo D’Alema, rischiando il tutto per
tutto, si candidi solo per il maggioritario, evitando
seggi ‘paracadute’ nel proporzionale e
sostenendo che è ora di finirla con le spartizioni. E
facciamo finta che Veltroni non sia d’accordo.
Un titolo classico potrebbe essere “D’Alema:
‘Basta con le spartizioni’” oppure
“Basta con le spartizioni dice D’Alema” o
ancora “Le spartizioni? Stop di D’Alema”.
Segue sommario classico: “Veltroni: Scelta
individuale, non può essere regola” oppure
“Scelta individuale, non può essere regola, dice
Veltroni” ossia (discorsivo) “Per Veltroni una
scelta individuale non può essere una regola”.
Precede occhiello classico: “Il presidente dei Ds
rifiuta il ripescaggio in Parlamento col proporzionale e
mette in imbarazzo la Quercia” oppure “ In
imbarazzo la Quercia per il rifiuto del presidente dei Ds
del ripescaggio in Parlamento col proporzionale” o
“Nessun ripescaggio col proporzionale in Parlamento
per il Presidente dei Ds. Imbarazzo nella Quercia”.
Capita che qualcuno, per eccesso di zelo creativo, titoli
“La Quercia rifiuta le proporzioni del ripescaggio
in Parlamento e mette in imbarazzo il presidente dei Ds.
Basta con D’Alema dicono le spartizioni. Per una
scelta individuale Veltroni non può essere una
regola”, ma in tal caso ha tre ore di tempo per
rivolgersi alla Fnsi e ottenere il permesso di pagarsi un
avvocato.
E’ chiaro che la creatività deve porsi dei limiti,
ma, dal momento che il giornalismo è il mondo del
possibile, non è strettamente necessario che tutte le
testate titolino come i principali quotidiani nazionali.
In questo caso esistono spunti spiritosi che permettono
varianti interessanti.
Prendete ad esempio
la parola ‘seggi paracadute’:
“D’Alema in caduta libera” è un ottimo
titolo per qualsiasi giornale non desideri altro che
vederlo sfracellarsi al suolo ancor prima delle elezioni.
Oppure ‘ripescaggio’: a un bravo giornalista
verranno subito in mente le nozze di Cana e la
moltiplicazione dei pani e dei voti, intesi come pesci.
Da uno spunto così dotto- niente niente- nasce anche un
editoriale o un fondo (commento ai fatti più o meno
firmato) o un corsivo (solitamente presentato in rassegna
stampa come ‘corsivo corrosivo’, micidiale nota
polemica in cui un giornalista, solitamente considerato
arguto, anzi il più arguto –per la stampa post
comunista Il Migliore ossia il lider maximo del partito
-, stigmatizza la situazione).
Abbiamo già accennato al fatto
che non tutti i giornalisti possono aspirare a diventare
editorialisti o corsivisti. Bisogna avere doti
particolari che non si apprendono neanche in
quarant’anni di onesta professione.
In linea di
massima un direttore è sempre un ottimo editorialista,
anche se gli unici pezzi pubblicati sono quelli di saluto
e di commiato dai lettori ad ogni cambio di testata.
Scrivono splendidi fondi i professori universitari di
ruolo (possibilmente con una casa editrice alle spalle,
di cui sono anche consulenti) e tutti i segretari di
partito, ma il meglio viene dai corsivisti corrosivi
professionisti.
Si sconsiglia, a
chiunque intenda intraprendere la professione
giornalistica, di affrontare la dura strada del
corsivista. Si tratta di un lavoro che solo
apparentemente si limita alla stesura di un vibrante
fondello sulla degenerazione dei costumi, sulle linee di
tendenza del baratro in cui sta precipitando il paese (in
discesa verso destra, centro, sinistra, a seconda delle
testate) e sulla rinascita di qualche mostro del passato.
La giornata del
corsivista inizia all’alba, con un
intervento radiofonico di presentazione e commento delle
prime pagine dei giornali a cui seguono le registrazioni
(mattutine) dei talk show in onda la sera.
Per evitare di
perdere tempo negli studios, di solito i corsivisti
escono di casa alle sei truccati di tutto punto -tanto
che nei quartieri di residenza circolano voci molto
discutibili sulle loro abitudini sessuali.
Nel primo pomeriggio raggiungono il camerino nella
redazione del giornale dove si fanno raccontare
dall’estetista le ultime novità, sfogliano la
posta, dettano le risposte, imbastiscono
l’editoriale del giorno e ricevono il direttore e
l’editore (di solito al momento della manicure).
Neanche il tempo di un caffè e sono di nuovo in pista
per presentare l’ultimo libro (loro o altrui) e
firmare autografi.
Nella breve pausa che precede la soirèe, rientrano in
redazione e stilano di gran carriera un vibrante fondello
sulla degenerazione dei costumi e sulle linee di tendenza
del baratro in cui, ecc., mentre il barbiere e
l’estetista provvedono a rivitalizzare il look,
ustionandosi col riflesso della lampada al quarzo.
Fino
alle due o alle tre del mattino l’editorialista è
presente a cene, spettacoli, serate per pochi, contati e
contanti intimi. Come fa? Secondo i maligni si fa. Ma in
modo assolutamente legale, sniffandosi ogni ora
un’ascella.
Oltre ai titoli e
all’editoriale, un giornale di solito
contiene anche articoli (scritti frutto dell’ingegno
individuale messo a disposizione del prodotto collettivo)
e servizi (indagini esaustive di un argomento o, quanto
meno, di tutti i dati dell’ultimo sondaggio
sull’argomento).
Può ospitare pure note politiche
(una bella velina arrivata fresca fresca al direttore da
Montecitorio sul senso della giornata politica),
resoconti (la cronologia degli eventi prodotta dalle
agenzie) e persino pallini, ossia notizie senza titolo
messe lì per caso soprattutto se si è sbagliato a
disegnare la pagina (attività che consiste nel
tematizzare i moduli, ordinare misure diverse per
argomenti simili).
La pagina di cultura,
un tempo la ‘terza’, si apre con un elzeviro
ossia un testo incomprensibile che spieghi ai lettori
che, per quanti sforzi facciano, per quanto tentino di
studiare, leggere e documentarsi scienza e arte sono pane
per pochi eletti. A ricordare inoltre che la cultura è
un genere in via d’estinzione, tutelato dal WWF,
subentrano i coccodrilli.
Quotidianamente gli archivi dei giornali, infatti, si
liberano di articoli scritti decenni prima, in occasione
delle prime avvisaglie del male incurabile che
crudelmente finisce col tempo per sottrarre alla
comunità bravi pittori di 96 anni, indimenticabili
scrittori di 94 anni, insostituibili registi e attori di
89 anni. Senza lasciare al mondo eredi degni di cotanto
cognome.
Ogni coccodrillo ha una
sua storia, ignorata dai lettori. Verso i
cinquant’anni –minimo quarant’anni fa- il
grande dell’arte comincia ad accusare vaghi
disturbi. Circolano così le prime voci che lo danno per
perso. Esce dalla clinica –prima disintossicazione-
più giovane, più bello e più creativo che pria e così
il primo coccodrillo viene consegnato
all’archivista. Fungerà da base per il grande
coccodrillo finale.
Al ritmo delle entrate e uscite dalle cliniche verrà
aggiornato con nuove opere o interpretazioni, con nuovi
matrimoni o figli. Foglio sbiadito nella parte iniziale,
battuta con la Lettera 24, cui sono stati aggiunti nuovi
fogli stampati a computer, con vistose macchie di muffa,
tra le bestemmie delle tastieriste, verrà ribattuto
integralmente e firmato dal cronista di turno al momento
dell’arrivo della notizia d’agenzia.
L’artista sarà pianto dal mondo intero. I dieci
giornalisti che negli anni hanno contribuito a
magnificarlo in punto di morte non verranno nemmeno
menzionati. Sic transit gloria mundi.
(Il Manuale
del Giornalista continua sul Barbiere
il giorno lunedì 18 giugno con "Le fotografie")
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-Il
Manuale del buon giornalista-
Copyright 2001 Chiar.mo Prof. C. Magrìt - Il Barbiere della Sera
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