DESCRIZIONE
Dal volume: Adamello: il tempo dei
pionieri di Vittorio Martinelli - ediz. Martinelli Povinelli - 1992
Quanto poco le imprese dei «pionieri» avessero influito sulla conoscenza dell’intero
massiccio, è dimostrato, per esempio, anche da un importante episodio che si
verificò nel 1866, durante la Terza Guerra d’Indipendenza.
Un decreto del 6 maggio aveva stabilito la formazione di battaglioni di volontari,
per costituire 10 reggimenti:
l’affluenza era stata tale che il Ministro della Guerra, non intendendo aumentare il numero
dei reggimenti, dovette stabilire che un reggimento fosse formato da quattro
battaglioni, anziché da tre. Il Generale Garibaldi, cui era stato affidato il
comando di tutti i volontari, s’era trovato alla testa di un corpo di oltre
35 mila uomini, quanti non aveva mai avuti prima ai propri ordini, così che costituiva
l’ala sinistra dello schieramento, destinato ad operare nel Trentino.
Una minaccia austriaca dallo Stelvio al Tonale aveva indotto il generale a mandare
in Val Camonica il 40° reggimento volontari e il battaglione
«Bersaglieri» (non si trattava dei notissimi soldati regolari dell’esercito
regio, ideati da Alfonso Lamarmora nel 1836, ma di volontari che, avendo
appartenuto ad una società di tiro a segno, erano esperti tiratori).
Nei pressi di Vezza d’Oglio c’era stato un duro combattimento, nel quale,
alla testa, non metaforicamente, del Battaglione «Bersaglieri», era caduto
il comandante, Maggiore Nicostrato Castellini di Rezzato (Brescia) trentasettenne.
Ma l’azione nemica aveva semplice carattere diversivo e gli austriaci, preoccupati
per le cattive notizie della guerra contro la Prussia, nostra alleata,
provenienti dalla Boemia, erano ritornati sui loro passi.
Garibaldi, vista svanire la minaccia, reputò assurdo lasciare inutilizzate in Val Camonica
forze che avrebbe potuto impiegare con molto profitto nel Trentino; sapeva
però che, se avesse fatto scendere quelle truppe fino a Breno e da qui,
attraverso il Passo di Crocedomini e Bagolino, le avesse avviate a Ponte
Caffaro, sarebbero arrivate troppo tardi per prender parte ai combattimenti:
a quell’epoca i soldati si spostavano a piedi e il carriaggio serviva solo
quale supporto.
Allora il generale ebbe una di quelle «pensate» che ancor oggi si definiscono appunto
«garibaldine»:
far passare i reparti attraverso le montagne e farli giungere inaspettati alle
spalle del forte austriaco di Lardaro, nelle Giudicarie, sarebbe stato un vero
colpo maestro. Sennonché Garibaldi non aveva considerato, o almeno non
aveva dato peso, a due aspetti importanti: che nessuno cosceva il percorso
(a quell’epoca le montagne erano ancora in gran parte
misteriose, le carte sommamente incomplete e imprecise); e che far muovere tremila
uomini, nessuno dei quali, tra l’altro, era abituato alla montagna ed
equipaggiato adeguatamente, in zone disabitate ed impervie, avrebbe creato
disagi enormi e difficoltà di vettovagliamento pressoché insolubili. Ma per
Garibaldi, questi non solo erano aspetti trascurabili, costituivano, anzi,
proprio uno degli elementi di forza della sua originale strategia, che spesso
gli consentiva vittorie stupefacenti.
Pertanto, il 14 luglio, da Storo, fece inviare in Edolo al comandante del 40° reggimento
il seguente dispaccio:
«Appena ricevuto il presente, la S.V. vorrà riunire il suo reggimento e marciare su
Roncon toccando i seguenti punti:
discenderà lungo l’Oglio sino a Cedegolo, d’onde, rimontando il torrente Poglia, toccando
Isola ed il Lago d’Amo, per Val di Fumo, rimontandola fino ai piedi del monte
Bagol, marcierà per Val di Roncon, avendo per obbiettivo il paese dello stesso
nome.
Prima di entrare in Val di Fumo mandi
avanti ad avvisare, perché lo stato maggiore, giunto a quel
punto, intende farle muovere incontro delle guide pratiche
molto delle località dalle quali potrà essere con sicurezza
diretto.
Essendo Roncon e le sue vicinanze occupato
fortemente dagli Austriaci fino al disotto di Lardaro,
nella marcia vorrà procedere colle dovute cautele, tenendoci
continuamente informati come ella stessa procede, e dove si
trovi.
Vorrà pure provvedere come meglio le sarà
fattibile per assicurarsi e trasportarsi i viveri necessari
per la marcia che possibilmente dovrebbe essere compiuta in due
giorni, ma che se riesce troppo disagevole potrà essere
ripartita in tre.
Una guida la terrà presso il corpo perché
le abbia a servire per scorta, l'altra la manderà tosto
portatrice della ricevuta del presente.
Il bagaglio del reggimento coi carri
relativi, scortati dagli uomini che a suo avviso non potrano
sostenere la marcia sopraindicata, ella li spedirà a Brescia, da
dove saranno diretti,mediante ordini che si daranno in seguito,
nel luogo in cui potranno raggiungere il reggimento.
D'ordine il primo capo di stato maggiore
E. GUASTALLA
Comandava il reggimento il tenente
colonnello Giovanni Cadolini, cremonese, trentaseienne,
un veterano che a diciannove anni, nel '49, aveva
combattuto alla difesa di Roma, dov'era rimasto ferito,
poi era sfuggito per miracolo alla forca di Belfiore, era stato nel '59 con i
«Cacciatori delle Alpi in Sicilia nel ‘60 con Medici.
Ricevuto l’ordine, incominciò ad eseguirlo.
Una prima perplessità gli derivò dal fatto che nel dispaccio non si parlava
del battaglione «Bersaglieri»:
ritenne che al comando se lo fossero.., dimenticato, perché non pareva possibile che si
volesse affidare soltanto ad esso la difesa della Val Camonica:
decise pertanto di portarlo con sè e fece bene.
Verso l’imbrunire, si scatenò una tremenda
bufera che imperversò tutta la notte, impedendo di far pervenire subito gli
ordini alle varie compagnie, ch’erano disseminate tutt’intorno, su alture
diverse. Perciò solo alle 5 del giorno 16 i reparti furono in grado di
mettersi in marcia da Edolo verso Cedegolo; qui, tra una gran confusione,
abituale del resto in quei corpi volontari, si pose il problema dei trasporti:
si sarebbero dovuti requisire dei muli, ma i proprietari di Edolo s’erano
abilmente sottratti alla ricerca e a Cedegolo non ce n’erano in numero
sufficiente.
Comunque, furono fatti proseguire per Brescia i carriaggi, i
cavalli degli ufficiali, gli ammalati e quanti non apparivano idonei ad
affrontare una marcia in montagna lunga e faticosa. Verso Brescia s’indirizzò
anche, per equivoco, un gruppo di «Bersaglieri» liguri; fu una delle consuete
«bizzarrie» dei volontari:
quando si vedevano costretti a marciare senza sapere dov’erano diretti, dapprima
mugugnavano, poi tiravano ad indovinare e convinti di guadagnare tempo, s’avviavano
avanti per proprio conto; se poi la supposizione era sbagliata, perdevano,
naturalmente, contatto con il reparto.
Fatto sta che soltanto alle 19 i 2600 uomini del 40° reggimento in testa e i 400 del
battaglione «Bersaglieri» dietro, si misero in marcia da Cedegolo (407 m) sulla
strada sassosa di allora che, partendo dal vecchio Ponte di Cedegolo, passava
dalla Chiesa di San Nazzaro, dove oggi c’è il cimitero di Andrista, frazione
di Cevo, poi proseguiva per Pozzuolo, un gruppo di poche case, lungo la riva
destra del torrente Poia (a quell’epoca lo si... italianizzava anche in Poglia);
seguivano i muli che portavano le munizioni e quelli dell’ambulanza.
Dopo mezz’ora, la strada si fece tanto stretta che i muli dell’ambulanza vennero
fatti tornare indietro, senz’avvertire il colonnello. Presto fu buio, la notte
era oscurissima e nella boscaglia fitta la visibilità venne a mancare; ad
ogni caposquadra era stato consegnato, sì, un pezzo di candela, ma ben presto
quei fiochi lumi si spensero e fu giocoforza sostare e pernottare nel bosco. I
«Bersaglieri», costretti a sdraiarsi dov’erano passati i «Rossi» (così erano
chiamati) del reggimento, trovarono sul terreno scrisse uno di loro, Ottone Brentari
«delle bene ingrate sorprese... che nulla hanno a
che fare con la poesia della guerra».
La marcia fu ripresa alle prime luci del 17. Cadolini, giunto al bivio di Fresine,
anziché prendere a destra per Isola, come risultava dall’ordine, informato che
il percorso di sinistra per Valle, frazione di Saviore, era più agevole, òptò
per quest’ultimo. In quella località (1110 m) ordinò una sosta, in attesa dei
viveri, che però giunsero a mezzogiorno, ma senza il vino.
Solo alle 15 la colonna si rimise in marcia, all’inizio su una discreta mulattiera; ma
dopo meno di due chilometri, alla Rasega (1158 m) il percorso piegava a destra,
passava il torrente Poia e si trasformava in un sentiero ripido e malagevole,
appena discernibile nella caotica congerie di massi erratici, «una
disastratissima scala», disse Cadolini, che mise in difficoltà perfino i muli. Il
colonnello si rese conto subito che quella circostanza avrebbe messo in crisi gravissima i
rifornimenti, ma, ligio all’ordine, decise senz’altro di proseguire.
Scrisse più tardi:
«Nel rivolgere indietro lo sguardo da quelle elevate cime da cui scorgeva la
lunga e sterminata fila vermiglia che, svolgendosi in cento spire, segnava il
sentiero che percorreva il corpo, io pensavo, prevedendolo, al martirio e ai
sacrifici a cui quella gioventù, lieta dalla speranza d’incontrare il nemico,
andava incontro e mi confortava nella sicurezza che essa, forte com’era di virtù
e di patriottismo, avrebbe saputo sostenere con abnegazione ogni contrarietà;
e non m’ingannai». (Nota 15)
A sera i reparti raggiunsero la quota 2110; i soldati grondavano sudore e il
colonnello ordinò che scendessero a passare la notte sui prati ad oriente del
Lago d’Arno, più riparati dal vento; ma la fila era lunga più di quattro
chilometri, per cui due sole compagnie poterono eseguire l’ordine, le altre
dovettero rimanere disseminate lungo il sentiero, mentre una fu fatta proseguire
fino al Passo di Campo, per parare eventuali sorprese austriache. Faceva molto
freddo, i garibaldini erano privi dei cappotti, i «Bersaglieri» delle
mantelline e fu penoso per tutti trascorrere quella notte.
Il mattino del 18, Cadolini e il capitano Oliva, comandante i «Bersaglieri»,
salirono al Passo di Campo. Scrisse Brentari:
«Il Passo di Campo (2288 m) interrompe l’alta cresta montuosa che va dalla Cima
del Can o Monte Campellio (2807 m) a nord sino al Re di Castello (2883 m) a
sud, e che separa la pittoresca conca del Lago d’Arno ad ovest da quella del
Lago di Campo ad est. E, sino dagli antichi tempi, un valico assai frequentato
tra la Valcamonica e la Valle del Chiese; e dopo che il Lorentz e l’Haller lo
ebbero passato il 18 agosto 1865, dandone poi relazione (si veda il capitolo 3 n.d.A.),
quel valico fu superato di frequente anche da geologi e da alpinisti.
Sotto il passo, ad oriente, si presentò al loro sguardo il bacino del Lago di Campo,
circondato da cime nevose che si specchiavano nelle placide acque. A mezzodì del lago
sorgono le scogliere che formano gli speroni settentrionali del Re di Castello;
più ad oriente la conca è chiusa da altre rocciose alture, che s’aprono appena
per dare il passaggio al ruscello scaricatore del bacino; a settentrione di questo
si eleva un lieve pendìo che, sebbene sparso di grossi massi precipitati dai monti vicini,
poteva però offrire la possibilità di stabilirvi un accampamento.
Di là dalle rocce che chiudono il bacino, si scorge dal passo la forte depressione
dell’alta valle del Chiese, che qui scende da nord a sud, prendendo il nome di Val di Fumo
nella parte sua più alta e di Val di Daone nella più bassa.
Il Cadolini e l’Oliva si persuasero che sino a questo punto non avevano sbagliato
strada, e che qui avrebbero dovuto fermarsi in attesa di quelle «guide
pratiche» che avrebbero dovuto indicare il resto della via; e perciò
ritornarono indietro ad ordinare di continuare la marcia».
Scalzato, rovesciato e fatto ruzzolare allegramente lungo il pendìo il cippo del confine
che esisteva sul passo, i volontari sconfinarono e scesero fino al lago. A mezzogiorno,
i «Bersaglieri» occuparono l’altura sulla destra della gola che scende al
Chiese, in modo da dominare la valle: si sistemarono nel bosco di abeti e di
larici, fra i massi e le zolle coperte di rododendri, di acconiti, di genziane,
di ogni sorta di fiori alpini.
I «Rossi» s'accamparono intorno al lago, mentre una loro compagnia, a turno, fu inviata ad
occupare l'altura sulla sinistra. Da lassu i volontari vedevano la lunga catena di alte
montagne innevate che si stendeva loro di fronte e il lago, le cui rive erano
tutte un'ampia distesa di papaveri, sulla quale la brezza faceva scorrere come delle
piccole onde frementi, vive.
Nei pressi del lago, allora come oggi, c'era soltanto una misera capanna nota come
«Malga di Campo di Sopra» nella quale i mandriani si ricoverano nei tre mesi all'anno
privi di neve: 1ì il colonnello pose il «quartier generale».
Fatto I'appello, la «forza» risultò la seguente: reggimento n. 2610 battaglione «Bersaglien»
426 Doganieri 48. In totale n. 3084
Furono requisite due mucche (per pagarle ai mandriani, «essendo esausta la cassa del
reggimento - scrisse Cadolini - si dovettero mettere a contribuzione le borse degli ufficiali»)
e con i pochi viveri sopraggiunti dalla Val Saviore si riuscì a distribuire
a ciascuno soltanto un quarto della razione di pane, carne, formaggio e ruhm.
Nella malga c'erano molti formaggi, che Cadolini aveva deciso di utilizzare solo quale
risorsa estrema; ma non aveva fatto i conti con l'appetito e l'ingegnosità dei garibaldini:
una volta scoperto il deposito,non fu troppo difficile, infilando le lunghe,
sottili baionette a mo' di spiedo, tra le assi
sconnesse della malga, far sparire tutti i formaggi, proprio alle spalle del colonnello,
il quale solo a gran fatica nuscì a salvare almeno le assi della baita, che i volontari
avrebbero adoperato ben volentieri per accendere il fuoco.
I «Bersaglieri», ch'erano i piu lontani dal sentiero proveniente dalla Val Saviore da dove
giungevano i magri approvvigionamenti, si resero subito conto con raccapriccio che,
per poco che i viveri avessero scarseggiato,i «Rossi» se li sarebbero tutti
accaparrati e a loro non sarebbero arrivate nemmeno le briciole.
Non foss'altro che per tener viva almeno la speranza, il tenente Cantoni, con alcuni
«bersaglieri», discese giu per la valle, in cerca di provviste: per quel giorno,
infatti, i soldati si nutrirono;.. solo di speranze.
Cadolini trascorse l'intera giornata del 18 in grande ambascia, nel leggere e rileggere il
famoso dispaccio e si scervellò nel cercare d'interpretarlo.
Un punto solo era chiarissimo: passare nella Valle di Roncon e scendere a quel paese per
prendere alle spalle il forte di Lardaro, che però, in quanto di costruzione recente,
non era neppure indicato sulla vecchissima carta in possesso dell'ufficiale.
(Non v'era di che meravigliarsi: quattro giorni prima, per esempio, una
ventina di giorni dopo Custoza, il Consiglio dei Ministri
aveva deliberato di «procurarsi le miglion carte dell'impero austriaco»: nessuno aveva pensato a farlo
prima della guerra!).
Incominciò il lungo dramma del povero colonnello dei volontari. Ora che poteva vedere i
luoghi con i propri occhi, Cadolini non nusciva a raccapezzarsi: non capiva come, per
giungere a Roncone, dovesse «rimontare» la Val di Fumo (come disponeva
l'ordine) anziché discendere la val Daone, come diceva l'evidenza delle cose; la chiave del mistero
doveva certotrovarsi nell'ubicazione del misterioso «Monte Bagol»,che tuttavia non risultava nella carta e
che nessuno dei montanari interpellati aveva mai nemmeno udito nominare, per cui c'era perfino da dubitare
della sua esistenza (in realtà, il Monte Bagol esiste, a sud-est del Re di Castello).
Cadolini guardava la lunga catena di alte montagne cariche di neve, culminanti nel
Carè Alto, che lo fronteggiava e pensava che, certo, di là non sisarebbe dovuti passare,
non foss'altro che per l'impossibilità dei rifornimenti. Se si fosse allungata fino a quel punto
la distanza dalla Val Saviore, i reparti sarebbero certo rimasti del tutto privi di
viveri ed un bel momento sarebbero stati costretti a scendere a valle,arrendendosi agli
austriaci per fame.
Ma allora? Le guide che avrebbero dovuto provenire dalle Giudicane non arrivavano, il tempo
passava e Cadolini continuava ad inviare inutilmente messaggi su messaggi verso Cedegolo. Intanto i
rifornimenti, che erano effettuati soltanto a mezzo di gerle portate a spalla da montanari
camuni, scarseggiavano sempre piu; rifornire lassu tremila uomini non era
impresa da poco; alcuni montanari, è vero, salivano talvolta per vendere viveri,
ma i volontari che, quando da casa ricevevano vaglia, venivano pagati in biglietti,
non avevano spiccioli: come si poteva acquistare una
libbra di paneo un po' di formaggio con biglietti da 100
lire (oltre 500 mila lire d'oggi)o da 50, che, del resto i
montanari non volevano?
Poi ci si mise anche il maltempo. Già la sera del 19 cadde una pioggia dirotta che durò fino al
mattino, accompagnata da un vento violentissimo, il quale spense i fuochi e abbatté i miseri ripari di
ramaglie ch'erano stati eretti con tanta cura e tante fatiche.
I volontari, all’aperto, formarono capannelli di sei-otto persone, ritte l’una accanto
all’altra, per ripararsi e riscaldarsi a vicenda e costituirono un «tetto» comune con le
coperte riunite. Nonostante lo scrosciare della pioggia, l’infuriare del vento
e l’oscurità, cantavano le loro canzoni di guerra.
Gli ammalati, sempre più numerosi, dovettero esser fatti retrocedere verso la valle di Saviore.
I giorni passavano, noiosi, la fame, sempre meno soddisfatta, aumentava, le uniformi cadevano a
brandelli, le scarpe erano rotte; delusione e malumore cominciarono a serpeggiare.
Scrisse qualche decennio dopo Giulio Adamoli, comandante la seconda compagnia
«Bersaghen»:
«In quel tempo non era peranco diffusa l’abitudine e la passione dell’alpinismo, e s’incontrava molta gente
colta, non solo inesperta, ma paurosa della montagna.
La maggior parte non aveva neppure imparato ad apprezzare la bellezza grandiosa delle Alpi, e imprecava alla
purezza dell’aria, (il miglior farmaco moderno ad ogni malanno) perché metteva
in corpo un appetito, che non si riusciva a saziare. Gli stessi giovani che
formavano il battaglione, oggi troverebbero cosa naturalissima ascendere al
mattino il Campellio e alla sera il Monte Castello, divertendosi non poco,
mentre allora, avvezzi soltanto alla pianura, impacciati fra le foreste e le
roccie, trovavano in ogni ricognizione una fonte perenne di brontolii.
Famosa fra tutti rimase la ricognizione condotta dal Tolazzi che avendo seguito un sentiero da capre giù
per certi scogli alti e scoscesi, portò l’intera compagnia sull’orlo di un precipizio,
ove non sapeva andare avanti e tanto meno risalire. La relazione di
quell’impresa e di altre analoghe, il cui risultato invariabile si era di non
scoprire mai né un nemico, né un amico, e nemmeno un indigeno, forniva poi il
tema a commenti, intramezzati da certi moccoli che a noi ufficiali conveniva
proprio fingere di non udire.
A calmare per poco il generale malumore giovò il ritorno del Cantoni (l’ufficiale che era
partito alla ricerca dei viveri n.d.A.) alla testa di una carovana di montanine
cariche di molte provviste, fra cui il tabacco, tesoro inestimabile, che procurò
un'ovazione al nostro tenente, il quale sorrideva modesto insaccato in un costume
di sua invenzione fatto da una coperta di lana a grandi scacchi, da lui rinvenuta
fra quelle baite.
Avevamo per fortuna vari passatempi. Una banda di sedici
camosci (ci riuscì contarli) si aggirava fra le cime circostanti, e teneva in
emozione gli animi dei numerosi cacciatori che militavano nelle file
garibaldine. I bersaglieri, con le carabine di precisione, fecero fiasco; uno
dei rossi, invece, di sentinella agli avamposti, col suo fucilaccio da guardia
nazionale, ne ammazzò uno, che donò al suo colonnello.
Quando brillava un raggio di sole i più gagliardi si gettavano nelle gelide acque
del lago, in cui moriva il ghiacciaio, che credo si chiami «Vedretta di Saviore».
Nei riguardi della grande scarsità di viveri il Colonnello Cadolini si consolava pensando
che, in fin dei conti, «chi non vuol soffrire deficienza di viveri non deve fare la guerra e
soprattutto non deve farla agli ordini del generale Garibaldi»; e non aveva
torto, specialmente se si considera che là tutti erano volontari.
Ma per quanto riguardava il da farsi proprio non si dava pace.
Scrisse Brentari:
«Il Cadolini passava le sue giornate nel cercar di decifrare il famoso messaggio
che gli riusciva sempre più misterioso quanto più cominciava ad orizzontarsi nel
territorio in cui si trovava; egli, e gli altri ufficiali attendevano, con ansia
ognor maggiore, ordini dal quartier generale, che venissero a toglierli dalla penosa
situazione; il capitano Oliva, comandante dei Bersaglieri, su sul suo dosso,
montato sopra un masso, solennemente drappeggiato nell’ampio mantello sbattuto
dal vento, teneva ai suoi soldati calorosi ed eloquenti discorsi, loro accennando
la misteriosa catena di monti che avrebbero dovuto attraversare, e di là dalla quale
avrebbero potuto finalmente misurarsi col nemico; il capitano Micali cercava di tener sollevato
il morale delle sue truppe con ischerzi ed arguzie; ma quel morale andava
sempre più abbassandosi, e cominciava a rendere inquieti gli ufficiali, che
temevano di non poter presto più conservare nemmeno quell’ombra di disciplina
che è possibile nei corpi di volontari.
Se nulla capiva il comandante, se nulla capivano gli ufficiali, figuratevi un po’
che cosa, di tutto quel mistero, potevano capire i semplici soldati! Essi andavano chiedendosi: E
che diavolo si fa quassù? E perchè non si scende o da una parte o dall’altra? E
quanto ci lascieranno quassù a soffrire la fame ed il freddo senza un costrutto
al mondo? E chi ci ha mandati qui? E chi ci ha condotti? E chi ha sbagliato? Ma
come si fa a dimenticare cinque battaglioni in cima ad un monte? Ma come si fa
a condurre 3000 uomini nel deserto?»
Uno dei tanti esempi dello stato di incredibile confusione nel quale vennero condotte
quelle operazioni è dato dal foglio che il colonnello Cadolini, esterrefatto,
ricevette il 23 luglio al lago di Campo per la solita via della
Val Saviore. L’aveva spedito da Brione (a 5 chilometri da Condino, nelle
Giudicarie) il colonnello Corte, comandante la 4°brigata,
al 40° reggimento, indirizzandolo «a Storo (!) o dove si trova»:
chiedeva a Cadolini di comunicare «con la massima precisione» dove
si trovasse! Da notare che, sia pur molto irregolarmente, rifornimenti e
dispacci continuavano ad arrivare al lago di Campo dalla Val Saviore.
Era trascorsa un’intera settimana, in luogo dei due-tre giorni previsti dall’ordine
originario. La notte sul 25 luglio fu un vero inferno: alla pioggia s’aggiunsero la
grandine e perfino la neve, non pochi volontari, attanagliati dalla fame, si diedero
a mangiarne.
A portare un tocco umoristico in quella situazione ormai pressoché tragica, fu,
il mattino del 25, il padre del capitano Adamoli, Domenico, il quale,
«seguendo il campo garibaldino come dilettante, giunse solo soletto al Passo
di Campo». Ma il bello si era che non proveniva dalla Val Saviore; era partito
il mattino precedente da Daone, era passato impunemente vicino ad una pattuglia
austriaca, aveva trascorso la notte in una baita e era salito a trovare il figlio
Giulio ed a portargli la lieta novella della vittoria di Bezzecca.
La vicenda pareva destinata a continuare indefinitamente, quando, alle 14 del
giorno 26, arrivò al Lago di Campo un volontario del Corpo «Guide a cavallo»
(Nota 7) Cristoforo Frizzi, noto come «Tofolin», perché era basso e
mingherlino, farmacista di Trento. Così raccontò la sua avventura:
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IMMAGINI
pozza e lago d'Arno, dal passo di Campo
pozza d'Arno e Re di Castello
valle Adamé dal monte Campellio
corno della Vecchia
dal monte Campellio
lago d'Arno
lago di Campo e di malga Bissina
monte Campellio e passo di Campo
passo di Campo
lago d'Arno
passo del Gatto (sega d'Arno)
Val Malga
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Escursioni al Baitone
«Facevo parte del secondo plotone (comandato dal conte Francesco Martini)
secondo squadrone delle Guide. Ero una delle 24 addette al quartier generale ed
allo stato maggiore. Alle ore 1 di notte del 25 luglio, quando eravamo a Storo,
fu comandato il buttasella, e ci fu dato l’ordine di accompagnare il generale.
Sei di noi, come il solito, precedevano la carrozza di Garibaldi, e gli altri
la seguivano. Si fece il giro di tutti gli avamposti. Giunti a Condino che era
stato il giorno antecedente occupato da noi ci si fermò un poco fuori del paese,
e poi si continuò sino a Daone, pure sgombrato dagli Austriaci, che s’erano
ritirati a Lardaro. Garibaldi col suo stato maggiore e colle guide si fermò fuori
del paese. Dopo una breve sosta, verso le 7 un ufficiale di stato maggiore si voltò
verso le guide dicendo:
Una guida col cavallo fresco, subito! avanzai io, non perché avessi il «cavallo fresco»
(si cavalcava tutti da sei ore!), ma perché ero il più vicino a quell’ufficiale.
Giunto presso la carrozza di Garibaldi, il generale Fabrizi, che gli sedeva a sinistra,
porgendomi un dispaccio mi disse queste precise parole: Recapitatelo al
colonnello comandante il quarto reggimento. Entrate in Daone, e salite sulle
montagne a sinistra, fino a che troverete il quarto reggimento comandato da
Cadolini.
Presi il dispaccio, salutai, e via, affatto ignaro della strada che avrei dovuto percorrere.
Entrai in Daone, e m’imbattei sulla piazzetta in alcuni paesani, fra i quali il capocomune; e
pregai questo di trovare un contadino che mi servisse di guida. Intanto che lo
si cercava, entrai in una botteguccia a comperarmi un po’ di pane ed
acquavite. Venuto il contadino, si parti tosto da Daone (767 m), su per la
carrareccia che sale lungo la sinistra del Chiese.
Giunto alle Seghe dei Glisenti, scesi da cavallo, e mi presentai al direttore delle seghe,
un gentile e bravo giovane bresciano. Egli mi disse che quella mattina stessa era giunta sino lì
una pattuglia dei nostri Bersaglieri, comandata dal tenente Fontanari di
Trento, e che era poi ritornata in su, senza aver incontrato il nemico. La mia
guida mostrò il desiderio di ritornare indietro; ed io perciò le feci un buono
e la lasciai andare. Chiesi a quel direttore un uomo che mi guidasse per il
resto della strada, e tosto lo ebbi. Gli domandai pure se avrei potuto
proseguire a cavallo; ma mi rispose di no, perché si doveva, di lì in avanti,
continuar a salire ora di qua ed ora di là del torrente, di sasso in sasso; e mi
offri un suo muletto. Accettai con gratitudine, e lasciai lì il mio cavallo,
dicendo che speravo di trovarlo al mio ritorno.Sì rispose sorridendo quel direttore
se non verranno gli Austriaci a condurselo via!
Dalla schiena del cavallo la sella passò a quella del mulo; saltai in arcione; e via.
Dopo altri tre quarti d’ora di salita dovetti persuadermi che
non era possibile andar avanti in quel modo, sul mulo che doveva saltar di sasso in sasso e fra
sasso e sasso. Smontai.
E che facciamo del mulo? - chiesi al contadino. É una cosasemplicissima - egli mi rispose. Gli
allentò il sottopancia, gli uni le staffe sulla schiena, lo voltò, gli
diede un calcio; ed il mulo se ne andò, e tornò soletto alla sua
stalla. Noi proseguimmo a piedi.
E su, e su! Presto cominciò una pioggia torrenziale, che ci inzuppò da capo a piedi.
Sulla vasta spianata di Boazzo (1214 m), tutta sparsa di massi erratici mezzo sepolti
nel terreno, e di bellissimi abeti e larici, incontrammo due malghesi,ai quali chiesi:
Che si fa? Essi mi risposero: Che si fa? Si muore di fame! Non si può andare in su
perché ci sono gli Italiani, non si auò andare in giu perché ci sono gli Austriaci.
Li consolai, dicendo loro che ormai sarebbe stato affare di poche ore, perchè s'era conclusa la
sospensione d'armi.
Da quei due montanari seppi che s'erano viste pattuglie di Austriaci.
Proseguii. Ero tutto Inzuppato; avevo gli stivaloni pieni d'acqua; dovevo portare, oltre alla
rivoltella, il pesante squadrone napoletano (lunga sciabola che armava i
militari a cavallo n.d.A.); ero poco pratico della montagna, perché avvezzo soltanto ad
andare a cavallo; e certamente non fu quella una gita piacevole.
Ai pascoli della malga Campo di Sotto
piegammo a sinistra, e salita la valletta, giungemmo al ciglio della conca di Campo
di Sopra. I primi che incontrai furono due amici, due trentini, due Bersaglieri: il dott. Carlo de
Pretis ed il prof. Vigilio Inama... che, secondo le notizie dei giornali, doveva essere morto!
Da tutte le parti dell'accampamento sorse il grido: Una guida,una guida! Numerose camicie rosse e
Bersaglien corsero a circondarmi, festeggiarmi, interrogarmi; si gridava, si plaudiva, si
suonavano pazzamente le trombe. Al fracasso, saltò fuori dalla baita il tenente colonnello
Cadolini. Mi presentai,e gli consegnai il dispaccio, pregandolo di scusare se, in causa
della pioggia, era tutto bagnato. Lo spiegò tosto, lo lesse, e voltosi ai suoi ufficiali disse: É
l'ordine di partenza. La voce si diffuse tosto per l'accampamento, dove tutti sembravano
frenetici di gioia, e si accinsero ai preparativi per la partenza.
Saranno state le 14. Fui condotto nella catapecchia che erasede del quartier generale, e mi si diede
brodo, pane, vino, sigari; ed ero servito da un maggiore!
Il Cadolini ordinò tosto la partenza per le 17, sebbene io lo informassi sulla lunghezza
e difficoltà della via; ma egli non voleva più a lungo trattenere i suoi soldati in mezzo a quei disagi.
Fece distribuire le poche provvigioni che ancora gli erano rimaste;
e dopo le 17 si partì.
Il Cadolini, io, la guida davanti; quindi il reggimento dei Rossi; e infine il Battaglione dei
Bersaglien, ai quali servivano di guide il tenente Fontanari ed i soldati che, come dissi,
erano già scesi la mattina sino alle Seghe dei Glisenti.
É tremenda la strada , andava ripetendo il Cadolini, balzando giu per quel sentieraccio.
Quando incominciava ad imbrunire, e che andavano perciò aumentando le
difficoltà della discesa, io proposi al Cadolini di andar avanti con qualche uomo,
scendere in fretta sino alle seghe, ed ivi far accendere un grande fuoco, che servisse ad
illuminare un po' la via, e ad indicare la meta. Egli annuì; io corsi
avanti; trovai alle seghe il mio cavallo, ed il muletto che se ne
era ritorato pacificamente alla greppia; e, dietro ordine del direttore, molti uomini accatastarono
rottami di legno e rami, ed accesero un gran fuoco. Dopo circa 45 minuti giunse il
Cadolini con altri ufficiali e con alcuni Bersaglieri. Bravo, tutto andò bene; egli mi disse.
La notte era nuvolosa, oscura; ma tuttavia, e malgrado la stanchezza, io chiesi il permesso di
partire, perché dovevo riferire al quartier generale l'esito della mia missione.
Partite, ma domattina venitemi incontro per portarmi notizie, mi disse il colonnello. - Verrò se mi verrà
ordinato, risposi. - No, dovete venire, egli ripetè. Gli chiesi la parola d'ordine. Partii,
a cavallo. Il buio era scomparso, ed illuminava la via; ma produceva anche ombre paurose; ed io solo,
a vent'anni, scendevo col cuore che palpitava, e di quando in quando gridavo: Chi va là? Non mi rispondeva che
l'eco dalle rupi.
E scendi e scendi, giunsi agli avamposti.
Chi va là? mi si gridò. - Guida. - Parola d'ordine? - Dissi
quella che mi era stata indicata. - No, alt! Era passata la
mezzanotte, e la parola d'ordine era stata cambiata. Si avanzarono
sei camicie rosse, guardandomi: Non muovetevi! Non ci fu
verso di far intendere la ragione a quella gente. Sono una guida,
ho ordini urgenti da portare al generale, andavo dicendo. Non
si passa, mi si rispondeva.
Giunse finalmente un pattuglione comandato da un sergente, veneto, il quale sentito il
caso, sentenziò:
Lassélo pur passar!
Quando giunsi a Pieve di Bono erano le prime ore del mattino. Entrai nella casa ove dormiva
Garibaldi. Nella camera contigua a quella da letto del generale trovai un tenente, al quale
riferii quello che avevo fatto e visto. L'ufficiale entrò nella stanza; ne uscì poco dopo; e mi
congedò. Uscii dalla casa; e, trovato aperto un mulino ove si lavorava, entrai; mangiai un po'
di pane e latte; e mi buttai a terra nella vicina stalla, sullo strame. La mattina raggiunsi
i miei compagni.
Dissi al mio capo che avevo avuto l'ordine del Cadolini di andargli incontro. Furono invece mandati
altri; la mia missione era compiuta; ma d'allora in poi, dai miei compagni,non fui piu
chiamato solamente Frizzi, bensi "Frizzi alla ricerca del quarto reggimento".
Alla malga Boazzo i reparti furono riordinati perché non sfigurassero troppo quando sarebbero
entrati nel paese. A Creto, i Bersaglieri, si diedero alla pazza gioia.
Scrisse Adamoli:
«... trovammo, bene o male, di che sfamarci, dopo così lungo digiuno; ma soprattutto
di che dissetarci.
Il battaglione in massa, capitani e gregari, si diede il lusso, e non a torto, di una
sbornia, gaia, tenera, espansiva, in cui furono affogati tutti i dispiaceri di Lago di Campo;
una sboniia, però, che uno scellerato di contadino ci fece digerire male, aprendo le
chiuse del suo prato, da noi invaso, nonostante le sue proteste, e quindi inondandoci
mentre russavamo beatamente. Un vero tiro birbone, che all'autore, se
l'agguantavamo, sarebbe costato caro».
Secondo Cadolini «la vera e più grave sciagura pel 4° reggimento si fu la sospensione
d'armi, la quale, al momento in cui esso avrebbe dovuto muovere contro il nemico, gli impedì di
agire, che è quanto dire gli tolse di raggiungere la meta proprio quando stava per
toccarla. Il reggimento era ancora saldamente ordinato, e se la campagna avesse dovuto
continuare, avrebbe dimostrato coi fatti quel che potea valere».
A Creto, Cadolini si presentò a Ganbaldi: cordiale, sereno, anzi olimpico come al solito,
costui disse d'essere stato «in qualche trepidazione d'animo» per loro. E poiché il
colonnello gli assicurò che la maggior pena di quei giorni era stata quella di non poter
essere d'aiuto agli altri corpi, il generale, per consolarlo, disse che la loro marcia
aveva molto contribuito al buon esito delle operazioni nelle Giudicarie.
Ma fu soltanto una gentile, innocua bugia.
lago di malga Bissina
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