CRITICA LETTERARIA: VITTORIO ALFIERI

 

Luigi De Bellis

 
 
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Giudizi e testimonianze attraverso i secoli

Individualismo e passionalità della tragedia alfieriana

Il linguaggio alfieriano della "Vita"

La struttura della tragedia alfieriana

Il "sublime" e la morte nella tragedia alfieriana

Caratteri della tragedia alfieriana





 


INDIVIDUALISMO E PASSIONALITA' DELLA TRAGEDIA ALFIERIANA

di  BENEDETTO  CROCE



Non nel Parini, ma nell'Alfieri, afferma il Croce, è il primo evidente segno di un rinnovamento nella letteratura italiana. L'individualismo esasperato e la violenza estrema delle passioni che sono alla base della sua ideologia e del suo atteggiamento di fronte alla vita contribuiscono a fare dell'Alfieri uno scrittore "protoromantico", assai vicino ad analoghe correnti e figure delle altre letterature europee; mentre lo tiene al di qua di un'autentica spiritualità romantica l'assenza di un senso religioso della vita e di un concreto interesse per le vicende particolari della storia. La tragedia alfierana è tutta alimentata dal furore della passione e da una inflessibile energia di propositi: di qui il suo stile che appare come il rovesciamento del linguaggio metastasiano, la sua parola che cade sulla pagina non come suono ma come azione; di qui, infine, il carattere essenzialmente oratorio più che intimamente poetico dell'opera dell'Alfieri.

È stato talvolta segnato l'inizio della nuova letteratura italiana nel Parini; ma il Parini è di mente e d'animo uomo del Settecento, del periodo razionalistico e delle riforme; e settecentesca sebbene elegantissima è l'arte sua, didascalica e ironica nei suoi toni maggiori, erotica e galante nei minori. Il vero inizio (quando si guardi al moto delle idee e alla qualità dei sentimenti) è in Vittorio Alfieri, che tocca corde le quali vibreranno a lungo nel secolo decimonono, dal Foscolo e dal Leopardi fino al Carducci: in Vittorio Alfieri, che io non posso considerare se non come strettamente affine ai contemporanei Sturmer und Drànger di Germania, i quali s'ispirarono come lui alle pagine di Plutarco e risentirono profonda l'efficacia del Rousseau, neanche a lui estranea. Al pari degli Sturmer und Dranger, egli è fortemente individualista; e individualismo è il suo amore per la libertà e il frenetico odio alla tirannia, così indeterminato nel suo contenuto politico, perché egli aborre con la stessa risolutezza re e demagoghi e patrizi di repubblica (l'«oscena libertà posticcia» di Venezia e le «sessanta parrucche d'idioti» di Genova), e non cerca nella sua vita altro stato, e non persegue nella sua arte altro ideale, che quello del «liber'uomo», che possa cioè muoversi, parlare, operare, attuare il proprio pensiero e la propria vocazione, non oppresso e soffocato da veruna forza estranea, non contrastato o impacciato da verun ostacolo. Come gli altri consapevoli o inconsapevoli roussoviani, moventi all'assalto delle bastiglie morali, le sue passioni sono estreme per violenza; e, quasi per dar loro qualche lenimento, egli ama la solitudine, si abbandona con voluttà alla malinconia, sente l'incanto degli spettacoli naturali, delle montagne, delle acque, delle spiagge. Il freddo intellettualismo, e Voltaire che lo rappresenta, gli ripugnano, e non sopporta il «lepido stile», la leggiera e facile prosa degli illuministi, ben adatta alla divulgazione, ma che per ciò appunto a lui sembrava che prostituisse « la viril nostr'arte ». E se egli non è tutto Shakespeare, come erano i suoi affini tedeschi, se presto intermise la lettura che aveva cominciata di quel poeta, non è già perché esso non gli piacesse, ma anzi perché gli piaceva troppo: «quanto più (scrive) mi andava a sangue quell'autore, tanto più me ne volli astenere»: cioè per non correre il rischio d'imitarlo, e per serbarsi spontaneamente shakespeariano.
Si deve dunque, a mio avviso, considerare l'Alfieri come un protoromantico: il che non vuol dire propriamente romantico, come ora si è preso il vezzo di chiamarlo, confondendo ben distinti periodi spirituali. Del romantico all'Alfieri mancarono tratti essenziali, li ansia religiosa sul fine e il valore della vita, l'interessamento per la storia, e il compiacimento per gli aspetti particolari e realistici delle cose. Anche la sua autobiografia sta sulla linea delle confessioni alla Rousseau, ricca di passione e scarsa di senso storico cosí rispetto al proprio tempo come alla sua vita medesima. Di questo suo limite, e della incapacità a ritrarre come diceva, «la vera e scalza triste natura nostra», la patologia individuale e sociale, ebbe consapevolezza. «E carmi e prose in vario stil finora lo scrissi, abil non dico, ardimentoso; Storie non mai...». L'epica, l'oratoria, la tragedia, la filosofia cioè le riflessioni morali e politiche: ecco il suo campo: «Arti tutte divine; in cui, ritratto L'uom qual potria pur essere, s'innalza Al ciel chi scrive e il leggitore a un tratto».

Tale, all'incirca, la collocazione dell'Alfieri nella moderna storia mentale e morale. Ma per intendere e giudicare l'arte di lui, per risolvere il quesito, anch'esso storico, del suo svolgimento estetico, bisogna farsi presente la particolare conformazione di quell'anima. Perché l'Alfieri, prima che poeta o al tempo stesso che poeta, era uomo di passione cosí ardente («furore» è la parola che più spesso torna nelle sue pagine) da rivolgersi diritto all'azione e alla pratica, guidato da inflessibile fermezza di proposito. Azione e pratica, la quale certamente non si attuava altrove che nella parola e nelle carte, ma azione era nondimeno, se tale è essenzialmente l'oratoria. L'anelito alla libertà e l'aborrimento per la tirannia gli avevano ingenerato nell'immaginazione un fantasma pauroso, il Tiranno, che non è già un fantasma poetico, ma un incubo passionale, una sorta di condensazione della più nera nequizia umana, che ha luogo in un determinato individuo non si sa perché, se non forse per incoercibile potere di attrazione e agglomeramento. Sono colpevoli i suoi tiranni? Non si oserebbe affermarlo; o non più colpevoli, certo; di chi ha la disgrazia di essere preso da un'infezione, dall'idrofobia o dal tetano. «Ah forse voi dite il vero!» - esclama il tiranno Timofane verso i suoi congiunti ed amici, che procurano di richiamarlo ai doveri del cittadino -, «ma non v'ha più detti, E sien pur forti, che dal mio proposto Svolger possanmi omai. Buon cittadino Più non poss'io tornare. A me di vita Parte or s'è fatta la immutabil, sola, Alta mia voglia: di regnar... Fratello, tel dissi io già: corregger me sol puoi Col ferro: invano ogni altro mezzo...». Un altro di queí tiranni, Polifonte, nella Merope, - anche lui non figlio, non sposo, non padre. «tutto tiranno», che non vede «altro che regno», - sospira alla fine del primo atto, stanco sotto il cumulo della sua propria ineluttabile malvagità: «Oh quanta è impresa il mantenerti, o trono!». Ad abbattere con un colpo di mazza ferrata il Tiranno, tanto più a lui odioso perché - se lo rappresentava in modo da dovergli riuscire necessariamente incomprensibile, l'Alfieri costrusse la sua tragedia, nella nota forma, senza confidenti, senza episodi, senza intermezzi di amori, scheletrica, precisa e rapida come una macchina, tagliente col ben noto stile. Stile che ha anch'esso del proposito, dell'intestamento; della fissazione; e poiché egli non tollerava, come si è visto, la lepidezza e la leggerezza della prosa illuministica, e poiché gli moveva nausea la correlativa poesia cantarellante di quel tempo, che in Italia, e non solo in Italia, era la metastasiana, il suo dramma e lo stile di esso sono il rovescio violento del melodramma metastasiano (come ebbero già a notare, credo pei primi, la signora di Staél e Guglielmo Schlegel); e le cabalette e ariette, con cui i suoi personaggi, al pari di quei del Metastasio, palesano se stessi, stridono in digrignamenti di denti e suoni aspri e rotti. E quando per avventura la sua ira si volge al sarcasmo e all'irrisione, come nelle satire e nel Misogallo, il cipiglio tragico si cangia in comico, ma resta pur sempre cipiglio: onde quel suo coniare, nel furor comicus, vocaboli grotteschi, parole bizzarramente composte o stranamente diminutive, e versi duri e ferrei non meno di quelli delle tragedie.
Non è a dire che, ammesso quel proposito, l'Alfieri non costruisca con vigore e sapienza; ma ciò che costruisce non è nel suo intimo poesia, è oratoria appassionata. Si ricorderanno le sue grandiose esortazioni e le invettive, com'è quella di Virginio nella Virginia:

 

O gregge infame di malnati schiavi;
tanto il terror può in voi? l'onore, i figli,
tutto obbliate per amor di vita?
Odo, ben odo un mormorar sommesso;
ma niun si muove. Oh doppiamente vili!
Sorte pari alla mia, deh! toccar possa
a ognun di voi; peggior, se v'ha: spogliati
d'aver, d'onor, di libertà, di figli,
di spose, d'armi, e d'intelletto, torvi
possa il tiranno un dì fra strazio lungo
la non ben vostra orrida vita infame,
ch'or voi serbate a cosí infame costo...

dove l'oratoria è altamente concitata, e nondimeno quel personaggio non è poetico. E perfette sono due delle sue tragedie, dal comune consenso dei critici più lodate, il Bruto I e il Bruto II: due saldi strumenti d'acciaio ben temprato e brunito: due di quei lucidi spadoni da carnefice che si vedono nei musei. Ma la poesia non è ordigno di acciaio. E le infinite e noiose dispute dei critici sul metodo adatto o disadatto seguito dall'Alfieri nelle sue tragedie, e le differenze notate verso il sistema greco o inglese e le somiglianze col francese, sono fallaci o superflue. Il difetto, come sempre in siffatti casi, non consiste nella tecnica tragica o altra simile cosa immaginaria, ma nella sostanza poetica.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it