CRITICA LETTERARIA: VITTORIO ALFIERI

 

Luigi De Bellis

 
 
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Giudizi e testimonianze attraverso i secoli

Individualismo e passionalità della tragedia alfieriana

Il linguaggio alfieriano della "Vita"

La struttura della tragedia alfieriana

Il "sublime" e la morte nella tragedia alfieriana

Caratteri della tragedia alfieriana





 


IL "SUBLIME" E LA MORTE NELLA TRAGEDIA ALFIERIANA

di  MARIO  FUBINI



Il momento tipico della tragedia alfieriana è quello della catastrofe irreparabile: in questo momento il suo linguaggio raggiunge i toni più alti e nuovi, supera i limiti del gusto settecentesco per approdare al livello del « sublime » che colloca i personaggi al di là dei confini della vita comune, al cospetto della morte. La morte è il grande tema della poesia alfieriana che il critico illustra in alcune situazioni fra le più intense e significative; ma il poeta non si limita a un vagheggiamento stanco e decadente della morte, poiché proprio dinanzi ad essa le figure della sua tragedia esprimono una indomabile vitalità ed energia.

La tragedia alfieriana si presenta al poeta nell'aspetto di una grandiosa irreparabile catastrofe, né a caso, come è stato osservato, le scene più poetiche si trovano di solito negli ultimi atti. Ma per giungere a quella catastrofe, che è il motivo primo e profondo dell'opera, l'autore va congegnando più d'una volta l'azione con un procedimento intellettualistico; più d'una volta il suo linguaggio sotto l'apparente concisione e concitazione si avviluppa in un frasario scolastico e talora, nonostante le intenzioni del poeta, più che drammatico, melodrammatico. Ma quando i suoi eroi hanno dinanzi a sé la visione della propria rovina, la loro parola si fa nuda ed essenziale e la loro figura s'innalza statuaria dinanzi a noi. Risuona in quelle parole il « sublime », aspirazione di tanti critici e lettori del Settecento, il « sublime » che dischiude all'animo lo spettacolo di un mondo senza confini. Dov'è la varia società del secolo, la sua « commedia dell'amore », che sembrava essere l'unico soggetto dell'arte settecentesca? Siamo sbalzati, e non già perché così lo richieda il genere tragico, fuori dai confini della vita di tutti gli uomini; fuori non soltanto dal piccolo mondo settecentesco, ma da ogni mondo terreno, sul limite tra la vita e la morte, poiché gli eroi tutti dell'Alfieri stanno su quel limite, e dal mondo in cui vivere per loro non è possibile, sono condotti ad affidarsi alla morte. «Non posso Esser tua mai; che val ch'io viva?». La morte, è stato detto, è la grande realtà della tragedia alfieriana; per i suoi tiranni il cui regno assoluto e totale non è cosa di questa terra e che sono costretti per ottenerlo a fare il vuoto intorno a sé chiudendosi in una solitudine mortale e non trovando in questa solitudine la pace; per i suoi eroi e per le sue eroine a cui la tirannide toglie prima ancora della vita, la volontà di vivere, e nel pensiero della morte trovano un rifugio, un sostegno, un conforto. Non vi è verso nell'opera dell'Alfieri in cui la morte sia nominata, che non palpiti di poesia, quasi che con quella parola il poeta avesse toccato la corda piú intima e più sensibile della propria ispirazione. Quel motivo che sembrerebbe monotono e privo di sviluppi si rivela ricco di infinite risonanze: ché i personaggi nel desiderio della morte liberatrice infondono tutto il loro ardore vitale, le loro passioni, il loro carattere. E le parole di Carlo che ha penetrato l'animo del padre e sa che nulla deve sperare per sé e si presenta nel suo orgoglio di uomo libero destinato al sacrificio, sono differenti dalle parole di Antigone, che nella morte cerca la liberazione dalla vergogna della sua famiglia, la vittoria sul tiranno, e più ancora su se medesima, sulla sua debolezza, sulla sua colpa; e da lei differisce la mite Romilda che alla sua implacabile nemica rivolge l'appassionata preghiera perché l'amato suo morendo sappia che con lui, degna di lui, essa è morta:

 

Deh! fa che a un tempo anzi il morire ei sappia,
che a forza niuna io non soggiacqui; e ch'io,
degna di lui, sicura in me, trafitta
non d'altra man che della mia, qui caddi:
e qui, chiamandolo a nome spirai;

e dall'una e dall'altra differisce Ottavia, che nulla può attendere ormai se non il supplizio e l'infamia immeritata e pur non sa vincere in sé un istintivo timore della morte desiderata, e volge il suo sguardo sospiroso a Seneca maestro del morire: « La morte, è vero, io temo: E pur la bramo; e sospiroso il guardo A te, maestro del morire, io volgo », e più innanzi nell'imminenza della catastrofe a lui riluttante chiede supplichevole un veleno che la sottragga allo strazio troppo atroce del supplizio

 

... Da lunghi anni
uso a mirar dappresso assai la morte,
tu stai sicuro; io non cosí; d'etade
tenera ancor, di cor mal fermo forse;
di delicate membra; a virtú vera
non mai nudrita; e incontro a morte cruda
ed immatura, io debilmente armata:
per te, se il vuoi, fuggir poss'io la vita;
ma di aspettar la morte io non ho forza.

E Saul dopo avere vagheggiato come una liberazione dal cerchio chiuso in cui si va rivolgendo, la morte in battaglia per mano dei nemici, cade, grande come mai non è stato, grande di fronte all'insolente vincitore, di fronte a Dio stesso, per mano sua, da re: ma Mirra alla morte guarda per tutta la tragedia con l'angoscia lagrimosa di una fanciulla, sola con la coscienza di una colpa inespiabile, e muore infelice come nessun'altra eroina alfieriana sentendo che vana è stata la sua lotta eroica e vana la morte stessa.

«Maestro», e poeta, «del morire» è dunque anche l'Alfieri, il vate che chiama a nuova vita i connazionali? E' questa di persuasore di morte la parola ultima della sua poesia? Disse il De Sanctis del Leopardi che «non crede al progresso e te lo fa desiderare: non crede alla libertà e te la fa amare; chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtú e te ne accende in petto un desiderio inesausto»: una considerazione simile si può fare, mutatis mutandis, per il nostro poeta che del poeta dei Canti è come il maggiore fratello. Non in lui il melodioso lamento del Leopardi, nel quale si effonde la nostalgia invincibile per tutti i beni negati ed essi vi sono fatti in certo qual modo presenti; non il chiaroscuro del Foscolo, che in ogni verso chiude sempre una duplicità di sentimenti, lo strazio e il conforto, e la coscienza tragica della vita sublimata nella poesia dell'armonia; ma una tensione estrema, nella quale si confondono ardore di vita e ardore di morte e lo stesso verso, la stessa parola suonano insieme assoluta disperazione ed esaltazione di una forza eroica più che umana. L'impeto titanico che si incarna nei suoi tiranni non può essere se non distruttore (il titanismo alfieriano ha sempre in sé la coscienza del proprio limite); il furore che trasporta personaggi come quelli dell'Oreste si risolve in un'azione frenetica che a cagione della sua stessa violenza in breve si esaurisce per placarsi infine in una calma funerea; l'amore stesso non è per i suoi personaggi espansione dell'animo, benefico calore che avviva e consola anche se combattuto e doloroso, ma sempre, per Carlo ed Isabella, per Antigone, per Clitennestra, per Mirra, amore vietato, sentimento che essi non possono né fuggire né appagare e che si asside immoto nel loro animo come forza distruggitrice. Eppure l'orrore e l'angoscia di quei drammi non spengono il sentimento tonificante di una singolare energia: cosí è in ogni tragedia, così nelle sue maggiori, che nel ritmo più ampio e pacato permettono al poeta di dare voce più esplicita e più chiara a quel che nelle precedenti era indistinto e puntuale. Perciò Saul suscita insieme la nostra pietà e la nostra ammirazione: se vani e incoerenti sono i suoi atti e si esauriscono in puri gesti, noi sentiamo in quegli atti, in quei gesti di una volontà spezzata, un'energia unica, la quale avrà la sua apoteosi quando tutto sarà caduto intorno al re ed e-gli affermerà la propria grandezza nel suicidio; e Mirra, che invano combatte contro un sogno peccaminoso, invano si dibatte per nascondere la sua colpa, incapace ormai di salvarsi vivendo la vita degli altri uomini, destinata fin dal principio alla disfatta, dimostra in quella lotta un eroismo del quale essa stessa in qualche momento si esalta. Non è certo dell'Alfieri un decadentistico vagheggiamento della morte, dell'angoscia, del nulla: non cerca egli e non cercano i suoi eroi un'evasione, bensí la loro disperata negazione è ancora un'affermazione di vita.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it