La
vita di Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo
(1861-1928), è in gran parte sintetizzabile nel
binomio affari e letteratura. Ma il rapporto tra
letteratura e affari è tutt'altro che pacifico,
tanto che il binomio rischia di risolversi in
un'antitesi, e l'adozione di uno pseudonimo nella
ratifica di un rapporto conflittuale e di
un'intima scissione che vede l'impiegato e uomo
d'affari Ettore Schmitz divergere assai nettamente
dal letterato Italo Svevo.
Svevo non fu soltanto romanziere. Fu anche autore
di un diario, di saggi e fiabe e soprattutto di
racconti e di commedie. In particolare i racconti
sono spesso opere assai interessanti: ricordiamo
il volume postumo La novella del buon vecchio e
della bella fanciulla e altri scritti (1929) e la
raccolta Corto viaggio sentimentale (1949). La
commedia per molti versi fu il genere prediletto
da Svevo, che vi si dedicò per tutta la vita: fra
i testi più importanti ricordiamo La
rigenerazione, Un marito e Inferiorità. Il teatro
sveviano è, come quello pirandelliano, «un teatro
di pensiero e di problemi, introspettivo ed
intimista» (Maier).
Quando nel 1892 esordisce con Una vita, Svevo
mostra di essere precocemente orientato verso
problematiche in qualche misura già
"novecentesche". Una vita però risente del romanzo
naturalistico e veristico, in particolare per la
struttura narrativa e per il ruolo assegnato
all'ambiente (la vicenda può ancora apparire «la
diagnosi di una vita d'un uomo, buttata
nell'ingranaggio della società circostante»). II
dato fondamentale che distacca quest'opera dal
naturalismo è l'inettitudine di Alfonso. Prima che
schiacciato dagli ingranaggi di una società
ingiusta o spietata, Alfonso è vittima di se
stesso e delle sue tortuosità psicologiche. La
società e l'ambiente per lunghi tratti rimangono
sullo sfondo per mettere in primo piano l'analisi
interna di Alfonso, che rivela tratti
significativi: le contraddizioni, i repentini
mutamenti di proposito e di stato d'animo, e
soprattutto la frattura tra comportamenti esterni
e sentimenti, tra propositi della volontà e stati
d'animo. Ciò fa di Alfonso un "inetto" più che un
"vinto".
Il motivo dell'inettitudine è ripreso e
approfondito nel successivo romanzo sveviano,
Senilità (1898), che progressivamente si stacca
anche dai moduli del romanzo naturalistico (senza
peraltro abbandonare ancora la struttura del
racconto a narratore esterno "impersonale"). Nel
nuovo romanzo l'analisi psicologica è approfondita
e resa assolutamente prioritaria rispetto al
meccanismo dell'intreccio e al rapporto individuo/
ambiente. «A Svevo ora interessa solo esplorare
l'interno della coscienza» (Baldi).
Soprattutto significativa appare l'analisi
degli autoinganni della coscienza messi
inconsapevolmente in atto dal protagonista, allo
scopo si direbbe di mantenersi in un precario
equilibrio tra opposti inconciliabili fra loro: da
un lato il tenace attaccamento alla propria
tranquilla inettitudine, alla condizione di
metaforica senilità e dall'altro il pericoloso
insorgere della passione (la "gioventù") che egli
non voleva suscitare e che soprattutto una volta
scatenata non sa controllare. Con i personaggi di
Alfonso Nitti e soprattutto di Emilio Brentani può
dirsi avviato, se non ancora definitivamente
compiuto, il processo di dissoluzione del
personaggio unitario ottocentesco.
Con La coscienza di Zeno l'indagine del
profondo dell'animo trova una ratifica e
soprattutto una forma ormai inequivocabilmente
novecentesca. Svevo ora adotta la tecnica del
narratore interno e la utilizza per produrre una
continua dialettica di punti di vista, di tempi e
di istanze narrative, ad es. tra lo Zeno vecchio
che scrive (io-narrante) e lo Zeno giovane, ovvero
i tanti Zeno che si succedono nel testo come
personaggi (io-narrato). Essa appare genialmente
funzionale a mettere in scena proprio la
dissoluzione del personaggio unitario ottocentesco
e la dissoluzione del tempo lineare e della
causalità e consequenzialità logica degli eventi.
Augusta, la donna che Zeno sposa per ripiego,
rappresenta la salute e la normalità borghese.
Zeno è "malato"; la sua è una malattia
psicologica, esemplarmente descritta nell'episodio
del fumo. E' l'ultima incarnazione
dell'inettitudine a vivere. Ma l'inettitudine ora
si dissocia dalla tragicità: la vita di Zeno è
solo relativamente fallimentare. Inoltre dalla
stessa scelta strutturale di fondo (una narrazione
rigidamente soggettiva) consegue che nessuno ci
possa garantire che Augusta stessa non viva
turbamenti e contraddizioni simili, per natura se
non per intensità, a quelli che vive Zeno. La
morale è che la malattia di Zeno non è in fondo,
se non per diversa intensità, una condizione
eccezionale e anormale, ma una condizione comune e
inalienabile dell'uomo, che solo una catastrofe
inaudita che lo facesse scomparire dall'universo
potrebbe definitivamente eliminare.
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