La
«Nota» al volume del '38 specifica che «l'idea di questo libro nacque
nell'autore durante un suo soggiorno nell'Unione Sovietica»; frutto di quel
viaggio, compiuto per il quotidiano « La Stampa» nel '34, sono anche i servizi
giornalistici pubblicati nel volume I maestri del diluvio, da cui Alvaro
attingerà ampie parti per interpolarle nel corpo del romanzo. Tuttavia lo
scrupolo cronachistico-documentario, esibito nell'avvertenza, si accompagna a
una certa indeterminatezza dovuta, in parte, a questioni di opportunità
politica: «se altri volesse di tali fatti dar carico a persone realmente
esistenti, dichiaro trattarsi di mera coincidenza». La nuova edizione del
romanzo, uscita a Milano, mostra infatti vistose modifiche, tra cui
l'eliminazione della «Nota», ma mantiene inalterata, quando addirittura non
l'amplifica, quest'ambiguità di fondo.
L'allusione del titolo alla vigoria morale dell'uomo e agli sviluppi più o meno
utopici di palingenesi che ne derivano, è assai meno diretta di quel che si
potrebbe credere. Malgrado le varianti apportate al testo nel '44 lascino
intravedere, soprattutto nell'epilogo, uno spiraglio di speranza, il clima
diffuso in ogni pagina è piuttosto cupo. Il termine-chiave, «forte», ritorna
ossessivamente nel resoconto, riferito a un sistema di valori, alle
testimonianze della «nuova cultura del popolo», a tutti coloro che si
riconoscono nel progetto rivoluzionario della «città di (...)» e lo gestiscono.
Viceversa, l'antonimo «debole» non viene mai adoperato, per quanto sia proprio
questa la condizione in cui si dibattono protagonista e comprimari. Il rapporto
tra individuo e istituzioni è perciò centrale nella riflessione dello scrittore
calabrese, a sua volta imperniata su un tema caro al dibattito intellettuale già
dagli anni Venti: l'avvento di una società e di una dittatura di massa.
Tuttavia, l'elaborazione della materia è tale da proiettare la questione su uno
sfondo antropologico se non addirittura metafisico e metastorico. In proposito
la critica ha fatto spesso i nomi di Kafka e Dostoevskij come possibili
influenze, e lo stesso Alvaro, in uno scritto del '48, vi ha accennato
implicitamente: «se vogliamo prendere il mio romanzo come un segno dei tempi, la
città di (...) rappresenta una società senza forti ideali alla prova di una
società che i forti ideali si impone con la violenza. A un mondo non più
intimamente religioso si impone un mondo che ha una mistica. Comune a tutte e
due è un complesso di colpa e solo nella comune espiazione si potrebbero
incontrare. Penso che l'espiazione sia il tema profondo di tutta la vita
europea.»
In dieci capitoli di media lunghezza è concentrata la vicenda di Dale, un
ingegnere che rientra in patria, presumibilmente la Russia, dopo un'assenza di
quindici anni trascorsi in un paese occidentale. A spingerlo sulla via del
ritorno è il disgusto per un mondo corrotto, dove dominano l'affarismo sfrenato
e l'incontrollata affermazione dell'io. Alla constatazione del degrado morale si
contrappone l'idilliaco vagheggiamento di una società «sana» e giusta,
solidamente edificata sui valori più autentici. L'emblema di questo nuovo mondo
è una scultura in gesso: un uomo e una donna avanzano tenendosi per mano con
«passo forte», guardando sicuri davanti a sé. Ma la città che ritrova il
protagonista è teatro di guerriglia tra Bande e Partigiani, porta i segni di
«stragi», «fame» e «orrore», nonché dei «molti sacrifici compiuti», ed esibisce
il volto di chi ha sofferto e lottato e ha ancora nemici dappertutto. Ogni cosa
scatena in lui una «sensazione sgradevole» amplificata dall'odore «greve» che
trasuda da ogni edificio. La delusione è cocente: il nuovo assetto sociale vuole
abituare l'uomo a vivere per la collettività e non più per se stesso,
distruggendo tutto ciò che è intimo e privato; su ogni cittadino aleggia lo
spettro di un sistema totalitario che ha mille occhi per vedere, mille modi per
colpire e colpevolizzare. L'amore tra Dale e Barbara può solo avvizzire; tra i
due non è possibile alcuna intesa: l'uno, malgrado le buone intenzioni, è un
corruttore, simbolo di una società fondata sull'individualismo e il senso di
proprietà; l'altra cede dapprima al sentimento, poi, terrorizzata dall'enormità
della trasgressione, finisce per denunciare l'amante come «nemico del popolo»,
ormai preda di un delirio di espiazione. Il senso di colpa è dunque lo strumento
utilizzato dal Governo per condizionare le coscienze, rimuovere il libero
arbitrio e imprigionare l'uomo in una condizione d'impotenza, in un «mondo
fatale» e preordinato: «Noi ora abbiamo degli impresari straordinari che ci
inducono a fare ciò che rappresentiamo fisicamente. Il personaggio è sparito e
noi siamo delle maschere. Ma rappresentiamo una parte come se fossimo dei
personaggi. E non possiamo fare altrimenti». Coerentemente con questa
affermazione, fatta eccezione per i due protagonisti, la scena è popolata di
"tipi": la Segretaria, serva devota del sistema; l'Inquisitore, la suprema
volontà; il Direttore, il funzionario invecchiato prossimo all'avvicendamento,
reo di pericolose inclinazioni metafisiche. D'altra parte la "recita" è
immutabile come lo sono i suoi ruoli: nel tentativo di sottrarsi «alla necessità
fatale» del Potere, Dale l'asseconda; uccide il direttore e si dà alla fuga. Per
una serie di equivoci, viene prima ferito e poi acclamato eroe dai Partigiani;
coperto dalle bende, in un letto d'ospedale, ricomincia a progettare un nuovo
tentativo d'evasione.
L'opera, vincitrice del premio dell'Accademia d'Italia del 1940, fu oggetto di
molte polemiche. Da destra e da sinistra si rimproverò a lungo allo scrittore di
alludere a un'equivalenza tra dittatura fascista e dittatura sovietica. Dalle
pagine dell'«Unità» Giacomo Debenedetti lo definì «il più infelice e il più
sbagliato fra i romanzi di Alvaro». Giudizio più disteso quello di Geno
Pampaloni, che rilevava l'incapacità, per Alvaro, a «concludere quel periodo
settentrionale che per Verga era stato milanese e mondano e per lui
giornalistico ed europeo», così da restare sempre diviso «fra due correnti
opposte di nostalgia per la sua terra e la sua città e per il mondo complicato e
sfuggente che si chiama moderno». In un successivo intervento il critico
dichiarò il testo in anticipo di dieci anni su 1984 di Orwell, «ma in una
temperie meno politica e più vicina alle cadenze della poesia».
È nota la difficoltà di Alvaro, scrittore sempre tormentato e insoddisfatto, ad
approdare a un risolutivo ne varietur delle sue opere. Il testo definitivo del
romanzo è disponibile nel vol. I delle Opere.
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