La prima edizione, con ventidue disegni di Giorgio Morandi, era composta di
dodici prose e nove liriche già stampate in giornali e riviste; nell'anno
successivo ottenne il terzo premio Bagutta. In una lettera a Emilio Cecchi del 5
aprile 1929 Cardarelli scriveva, riferendosi al volume in corso di stampa: «È un
titolo che non ha nessun significato, non l'ho trovato neppure io», alludendo
forse a una scelta dell'editore Longanesi. Nell'edizione definitiva Cardarelli
eliminò tutte le liriche (tranne Santi del mio paese che apriva il volume)
aggiunse la prosa inedita Morte di re Tarquinio e il racconto Astrid ovvero
Temporale d'estate che era stato pubblicato a puntate sul quotidiano «Il Tevere»
nel 1926. Inoltre inserì le otto prose autobiografiche che aveva stampato a
Milano nel 1948, presso le Edizioni della Meridiana, con il titolo di Villa
Tarantola, volume che aveva ottenuto quello stesso anno il premio Strega.
Le ventidue prose raccolte in Il sole a picco danno forma letteraria tra
memoria, romanzo e leggenda - all'autobiografia di Cardarelli nei suoi due poli
spazio-temporali, l'infanzia trascorsa nella Maremma di Corneto Tarquinia e la
giovinezza bohémienne nella Roma d'inizio secolo; l'intermezzo lirico paesistico
di Lago e Le campane di Firenze, con tratti capricciosi e macchiettistici come
in Soggiorno in Toscana, La comacina e Capri, introduce al quadro grigio dei
quartieri umbertini dove il poeta vive gli anni maturi, tra camere in subaffitto
e passeggiate solitarie nella città spettrale. Astrid chiude il volume con
l'ironico racconto, carico di umori misogini, del breve amore tra il poeta
trentenne e una giovanissima ragazza norvegese.
La caratteristica di queste prose, che solo in parte rientrano nel gusto
dell'autobiografismo vociano, consiste nel fatto che il protagonista,
necessariamente al centro del racconto, appare sfocato rispetto all'evidenza
assoluta del quadro che lo circonda: Cardarelli affonda nella memoria come nel
sonno, mentre i suoi ricordi, «ombre troppo lunghe», «strascico di morte» che
l'uomo sopporta come minaccia e condanna, emergono giganteschi. L'autore, è
noto, teorizza l'indifferenza, la salutare impassibilità di fronte al tragico,
pena il rischio di invereconde mascherate; la memoria è sempre trattenuta con
mano ferma e scrittura impeccabile al di qua dell'effervescenza sentimentale.
C'è, dunque, un'attrazione mista a ripulsa per il paese natale, l'etrusca
Corneto nominata da Dante come memorabile rifugio di bestie selvagge, terra
riarsa battuta dai venti e percorsa dai briganti, dove la tarantola sta in
agguato e provoca con il suo morso uno stupore mortale. Come i suoi antichi
abitatori, la Maremma conserva un misterioso e profondissimo legame con la morte
anche nei momenti più ridenti e vitali. Così il proverbio cornetano in epigrafe
al volume lega scherzosamente bellezza e dolore; così certi eroi grotteschi,
macchiette paesane come il «caporale» Alessandrone o «re Tarquinio», antico
militare decaduto e beone, sono inghiottiti da una fine improvvisa e maligna. Il
ragazzo, giovanissimo suonatore di corno nella banda del paese, vede riflessa la
storia italiana nelle vicende del piccolo municipio (il partito dei vecchi
liberali sostituito da quello clericale capace di «portare l'acqua» in paese);
la riattivazione della ferriera abbandonata; le prime manifestazioni socialiste
e la fondazione dei Fasci. Il mondo cornetano è dominato dalla figura gigantesca
del padre del poeta, arrivato in Maremma dopo una giovinezza avventurosa e
randagia, che gestisce con passione e assoluta dedizione il buffet della
minuscola stazione ferroviaria. Ruvido e taciturno, egli morirà solo, «come un
albero secco mangiato dalle formiche», in un ospedale di Roma, città
«crudelissima». Qui l'autore giunge, a diciannove anni, povero, autodidatta,
animato dall'idea socialista. Fa diversi mestieri - addetto a un deposito di
orologi, scrivano e contabile, redige a pagamento tesi di laurea, scrive sotto
falso nome testi di economia... - prima di diventare cronista a «L'Avanti»,
giornalista e scrittore di qualche notorietà e brillante frequentatore della
terza saletta del Caffè Aragno. Roma prima del 1911, «in una specie di vita
anteriore, al tempo del tranve a cavalli e dei lumi a gas», è osservata con
sguardo asciutto ed un tocco d'ironia: «È duro il cammino d'un giovane che,
oltre a farsi una cultura, deve provvedere, possibilmente, a non morire di
fame».
Una notte, sul grande sterrato dove sarà costruita la Galleria Colonna, il poeta
vede apparire Gordon Craig avvolto in un gran mantello nero, inseguito e preso a
schiaffi da Isadora Duncan. Questa Roma sparisce con la giovinezza di
Cardarelli. Dopo la guerra e il soggiorno «importantissimo» a Settignano, egli
si stabilisce nel quartiere moderno, privo di storia, dei Prati. Il Tevere segna
il confine tra la città barocca della giovinezza disordinata e il cortile
silenzioso, popolato di gatti, dove affaccia la stanza del poeta già vecchio.
Attraversarlo al tramonto, verso il centro (per incontrare gli amici e
intrattenersi con loro in interminabili conversazioni al caffè) è ormai faticoso
come passare l'Acheronte; al ritorno, nelle prime luci dell'alba, quello stesso
fiume è il Lete. Il poeta lo riattraversa lasciandosi alle spalle ricordi e
rimorsi, nella speranza di un riposo che per lui, tormentato dall'insonnia,
giunge solo quando il rumore della città che si mette in movimento allontana dal
suo cuore l'angoscia della morte.
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