Negli anni 1935-36, a causa dell'attività antifascista, condotta in particolare
con il movimento «Giustizia e libertà», Carlo Levi venne condannato al confino
in Lucania. Tra il dicembre del 1943 e il luglio del 1944, a Firenze - dove era
tornato dopo un lungo periodo passato in Francia - l'ancora giovane medico e
pittore scrisse Cristo si è fermato a Eboli.
Il libro rievoca il periodo trascorso al confino a Gagliano (oggi Aliano) in
provincia di Matera, in Lucania (odierna Basilicata), insieme con i ricordi di
un precedente confino in un altro paese della provincia materana, Grassano.
Attraverso gli episodi di cui è stato testimone, Levi descrive la vita e il modo
di pensare della popolazione di quella terra contadina del Sud, una delle
regioni più arcaiche d'Italia, offrendo in parallelo una interessante
documentazione sugli atteggiamenti del fascismo e sulle reazioni che il suo
potere e i suoi "trionfi" in Etiopia suscitavano nella gente del luogo: «I
signori erano tutti iscritti al Partito, anche quei pochi, che la pensavano
diversamente, soltanto perché il partito era il Governo, era lo Stato, era il
Potere, ed essi si sentivano naturalmente partecipi di questo potere. Nessuno
dei contadini, per la ragione opposta era iscritto, come del resto non sarebbero
stati iscritti a nessun altro partito politico che potesse, per avventura,
esistere».
Il titolo Levi lo ricavò proprio da un modo di dire dei contadini lucani: «"Noi
non siamo cristiani, - essi dicono, - Cristo si è fermato a Eboli". Cristiano
nel loro linguaggio vuol dire uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante
volte ripetere, nelle loro bocche non è forse nulla più che l'espressione di uno
sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo
considerati uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che bestie, i
fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro vita diabolica o angelica».
La condizione dei contadini della Lucania non si può definire secondo i canoni
comuni di "realtà", cioè di civiltà; essa si iscrive, invece, nell'alone magico
e pagano di un'altra Storia, anarchica, una Storia in cui Cristo non ha mai
messo piede. È però proprio questa Storia vissuta ai «confini» del mondo, in un
«altro» mondo, che permette a Levi di stringere un sodalizio «fraterno» con i
contadini. Essi lo vedono come «uno di loro», un «esiliato»: «Questa fraternità
passiva, questo patire insieme, questa rassegnata, solidale, secolare pazienza è
il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma naturale».
I contadini di Levi non conoscono Stato né potere, proprio come lui non si
riconosceva né in quello Stato italiano né in quel potere che lo aveva
condannato: «Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno,
perché sta sempre dall'altra parte. Non importa ad essi di sapere quali siano le
opinioni dei confinati, e perché siano venuti quaggiù: ma li guardano benigni, e
li considerano come propri fratelli, perché sono anch'essi, per motivi
misteriosi, vittime del loro stesso destino. "Un esiliato?" - I contadini qui
non dicono confinato, ma esiliato - "Un esiliato? Peccato! Qualcuno a Roma ti ha
voluto male"».
Le numerose tipologie di personaggi che so no inserite nello sfondo mitico
dell'ambiente costituiscono uno degli elementi fondamentali dell'intera
narrazione. All'inizio della permanenza nella «stanza della vedova», per
esempio, c'è una lunga descrizione di un «Ufficiale Esattoriale» che, per una
notte, rimarrà a dormire con lui e la cui ambizione «era un'altra, era la musica
studiava il clarino soffiava, indeciso e fragile, le note di una canzonetta; i
cani l'accompagnavano brontolando». Personaggi invisibili e avvolti di mistero
come i briganti si mescolano alla gente del posto, come Faccialorda, un
bracciante tornato dall'America, i cui «denti d'oro brillavano anacronistici e
lussuosi nella larga bocca contadina», o il grottesco Arciprete Don Trajella che
- dice il medico Levi - aveva «emorragie intestinali, ma, nella sua misantropia,
non ne parlava, e continuava a passeggiare per il paese, senza curarsi». Il tema
del dipingere è costante: «Nei dintorni del cimitero non andavo soltanto per
ozio, in cerca di solitudine e di racconti. Era quello l'unico luogo, nello
spazio consentito, dove non ci fossero case, e qualche albero variasse la
geometria dei tuguri uscivo, quando il sole cominciava a declinare, con la tela
e i colori, piantavo il mio cavalletto all'ombra di un tronco d'ulivo o dietro
il muro del cimitero, e mi mettevo a dipingere». In questa atmosfera di nuovi
affetti e nuove abitudini, la narrazione si approssima alla sua ultima pagina,
dove si descrive la partenza del confinato da Gagliano (e vi si legge il
languore di un innamorato che si sta allontanando dal luogo, dalle cose, dalle
persone che ama).
Il fascino del testo sta soprattutto nella sensibilità e nell'amore con cui
l'autore partecipa alla vita che lo circonda, e nell'alone di mistero suggerito
da costumi, credenze e sentimenti antichissimi, che sembrano vivere immutabili
ed eterni sullo sfondo dell'arido paesaggio lucano. Ecco cosa scrive, per
esempio, l'autore a proposito dei mitici tesori nascosti dai briganti: «Di
tesori dei briganti, ne vidi uno io stesso assai modesto. Ma, per i contadini,
queste non sono che briciole degli immensi tesori celati nelle viscere della
terra. Per loro i fianchi dei monti, il fondo delle grotte, il fitto delle
foreste sono pieni di oro lucente, per sapere dove sono, non ci sono che le
ispirazioni dei sogni, se non si ha avuto la fortuna di essere guidati da uno
degli spiriti della terra che li custodiscono, da un monachicchio. il tesoro
appare in sogno al contadino addormentato, in tutto il suo sfolgorio».
L'opera presenta forti analogie con la narrativa neorealista, soprattutto per
l'analisi documentaria e l'impegno sociale e civile; ma la sintonia non va
oltre. Levi, infatti, dipinge una realtà alla quale egli non appartiene, e
questa condizione accentua in lui l'interesse per gli aspetti sociologici, ma
anche la tendenza a mitizzare la cultura arcaica e contadina del Sud e a
proporla come modello ideale di una vita ricca di valori umani, sebbene povera
di mezzi economici. L'importanza del libro deriva dunque dal valore sociale,
oltre che letterario, che esso presenta. A Levi è stata riconosciuta una grande
sensibilità di osservatore, «nata dalla passione di vivere» (Jean-Paul Sartre),
che si accorda con un'accorata partecipazione ai temi affrontati, e con la
capacità di trasformare episodi contingenti in spunti di una meditazione più
generale sul destino degli umili. Lo specchio della polimorfa tematica del libro
è peraltro riscontrabile nella stessa forma letteraria, caratterizzata da
un'omogenea mescolanza di generi: una forma pressoché sconosciuta nel panorama
letterario di quegli anni. Al genere più propriamente memorialistico si
affiancano il diario (genere che testimonia un'attività narrativa legata a un
tempo non ordinario, lineare, bensì intimo, profondo, viscerale), il saggio
storico e sociologico, la meditazione e, in ultimo, la descrizione paesistica:
«Il cielo era rosa verde e viola, gli incantevoli colori delle terre malariche,
e pareva lontanissimo. Un vento continuo faceva asciugare anche i corpi degli
uomini: le giornate passavano in una luce senza pietà, monotone nell'attesa del
tramonto e del fresco della sera». A questo registro di scrittura Levi è
doppiamente legato, poiché il suo talento artistico è volto anche alla pittura.
Il libro ha raggiunto una fama mondiale; ne sono state curate anche edizioni
scolastiche ridotte e commentate. Del 1979 è un'omonima riduzione
cinematografica, diretta da Francesco Rosi; sceneggiatura di Francesco Rosi e
Tonino Guerra; interpreti Gian Maria Volonté, Paolo Bonacelli, Alain Cuny, Lea
Massari, Irene Papas, Antonio Allocca.
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