Edito nei «Saggi» con una copertina disegnata dall'autore e un suo sonetto, il
romanzo è nuovamente uscito nel 1974.
La storia, suddivisa in dodici capitoli - articolati, a loro volta, in ulteriori
unità narrative -, ha per protagonista lo stesso autore ed è ambientata nel
secondo dopoguerra (anni 19471950), a Roma e a Napoli.
A risvegliare i ricordi di Levi è l'orologio regalatogli dal padre: «lo tenni un
poco in mano, e lo avvicinai all'orecchio, prima di posarlo sul tavolino accanto
al letto. Sentivo il suo ticchettio regolare, e pensavo che il tempo
dell'orologio è del tutto l'opposto di quel tempo vero che stava dentro e
attorno a me. È un tempo senza esitazioni, un tempo matematico, continuo moto
materiale senza riposo e senza angoscia. Non fluisce, ma scatta in una serie di
atti successivi, sempre uguali e monotoni». Durante la notte Levi sogna di
essere derubato del suo orologio e poi di ritrovarlo, ma rotto. Al mattino,
risvegliandosi, per una disattenzione lo fa cadere realmente e si accorge che -
come nel sogno - il vetro è ìn frantumi, il quadrante scheggiato, le lancette
spezzate e la cassa d'oro ammaccata da un lato. Per le vie di Roma, comincia
allora una lunga ricerca di un orologiaio che sia in grado di aggiustarlo. Da
questo momento in poi la narrazione trascorre tra presente e passato,
affiancando ricordi privati e pubblici, nei quali compaiono i protagonisti della
storia italiana del dopoguerra.
Torna alla memoria dell'autore, per primo, il suo esordio al giornale del
Partito d'Azione, «L'Italia libera», nel 1945. Il giornale era in piena
decadenza e gli entusiasmi di molti redattori sopiti. Dopo un anno di nuova
direzione, tutto cambia: nonostante la povertà dei mezzi, due giovani, Casorin
(il «filosofo», il «critico», l'«uomo politico») e Moneta (il «letterato», il
«Don Chisciotte, l'eroe eterno e immortale delle terre contadine» del Sud) hanno
rivitalizzato l'ambiente. Sono giorni importanti quelli che l'Italia sta
vivendo: il governo Parri è stato rovesciato e la crisi si protrae. Dalla sua
risoluzione dipende il destino di quel movimento popolare nato dalla Resistenza
che rischia, per giochi politici, di essere seppellito tra i ricordi, come
un'ormai conclusa «esperienza morale». La caduta di Parri sembra a Levi il
segnale funesto che stia per tramontare definitivamente quel tempo in cui la
comunicazione tra i diversi strati della popolazione era spontanea e facile: i
piani e le strategie politiche stanno prendendo, a poco a poco, il posto degli
ideali. Diverso da tutti gli altri è Parri: «Il Presidente camminava su una
piccola terra, e non sapeva e voleva veder altro che i geloni di Teresa, il viso
di Teresa, e le facce e le mani di tutti quelli che incontrava sulla sua strada,
e si fermava a parlare con loro, dimenticando ogni altra cosa; e piangeva delle
loro lacrime». Dal IV al VI capitolo lo scenario cambia: l'autore decide di
sprofondare nella folla romana e si ferma ad ascoltarla e a osservarla
all'osteria; poi, con un amico, fa un giro in jeep e giunge al quartiere della
Garbatella, alla ricerca di una misteriosa donna, Fanny, amante dell'amico. Qui
la desolazione sconvolge lo scrittore e il suo amico: «si vedevano ancora taluni
archi grigiastri di cemento, che, prima del bombardamento, avevano dovuto
reggere una volta, o un soffitto di vetro. Non si vedeva pavimento, né, se non
qua e là, i resti delle macerie di un tetto. Il terreno era tutto coperto da uno
strato, spesso forse qualche metro di rifiuti, di sterco, diventato solido e
grigio, a monticciuoli separati da pozze di liquido nerastro».
Dall'VIII al IX capitolo torna al centro la politica, con i suoi avvenimenti.
Levi si reca al Viminale insieme con gli altri giornalisti, per ascoltare il
discorso di dimissioni di Parri, e con due colleghi analizza la situazione: sono
Andrea Valenti e Carmine Bianco. È Andrea, che è stato comunista, a formulare la
teoria interpartitica già contenuta in «Giustizia e libertà». Secondo lui, la
divisione in classi elaborata dal comunismo non "legge" in profondità la società
complessa dell'Italia del dopoguerra; ma, se è proprio necessario contrapporre
due blocchi, allora è meglio sostituire, a capitalisti e proletari, altre due
categorie: i «Contadini» e i «Luigini». I «Contadini» sono «quelli del Sud, e
anche quelli del Nord. Quasi tutti; con la loro civiltà fuori del tempo e della
storia, con la loro aderenza alle cose, con la loro vicinanza agli animali, alle
forze della natura e della terra, con i loro dei e i loro santi è l'oscuro fondo
vitale di ciascuno di noi»; ma sono assimilabili ai «Contadini» anche la
borghesia viva e imprenditoriale, i proprietari che sanno far rendere la terra,
gli operai, insomma «i produttori». I «Luigini» (da «quel Luigino, podestà e
maestro di scuola di un villaggio meridionale che tu sai», e cioè un personaggio
di Cristo si è fermato a Eboli) sono, invece, coloro che «dipendono e
comandano», parassiti e improduttivi.
Al giornale la delusione per le dimissioni di Parti è molto forte. Si parla di
un governo Orlando, e liberali e comunisti sarebbero d'accordo. Tutti si
lamentano dell'immobilismo romano.
Dal X al XII capitolo la scena si sposta a Napoli: Levi è avvertito da un
telegramma che lo zio Luca è molto grave e parte subito in treno per la città
partenopea. Quest'uomo, per lui un maestro e quasi un padre, era un medico
originario di Torino, ma si era stabilito nella città della moglie. D'altra
parte - aggiunge Levi -, per lui una città o l'altra non era importante, perché
ciò che gli interessava era l'uomo: «era un uomo di un altro tempo: un sapiente
medievale, intento a scoprire la chiave del mondo, bianca o gialla essa fosse».
A questo zio, alla sua casa grande e misteriosa sono legati ricordi
dell'infanzia di Levi. Egli narra, in particolare, un tenero episodio: a Carlo
bambino la governante Mariona aveva dato, di nascosto dallo zio, una scatola di
pastelli. Egli - usandoli con entusiasmo perché mai ne aveva visti prima - ne
aveva rotto uno. Terrorizzato dalla possibile reazione dello zio, il bambino
scoppiò a piangere. Ma, quando entrò nella stanza dove era Carlo e lo vide in
lacrime, il «dottore» non lo rimproverò affatto, anzi gli regalò tutti i colori.
Così «seppi, nello stesso giorno, che cos'era la pittura; e che cos'era la bontà
e che, per l'una e per l'altra le cose inaccessibili sorridono».
Dopo un rocambolesco viaggio, lo scrittore arriva a Napoli e trova lo zio morto:
la vecchia governante Mariona gli mostra tutti gli scritti che il medico gli ha
lasciato e un orologio d'oro, un Omega, del tutto simile a quello che il padre
aveva regalato a Carlo.
Levi riparte per Roma insieme con due ministri del governo dimissionario Colombi
e Tempesti. L'ultima immagine del romanzo è quella notturna della città, vista
dal palazzo dove lo scrittore abita: «La città si stendeva, e viveva, e
respirava, nel vago della luna, con il brusio indistinto di una foresta d'alberi
antichi, appena mossi dal fiato leggero del vento».
L'opera è stata recentemente riscoperta dalla critica come uno dei più
significativi romanzi di Levi: «ogni capitolo è una scatola che ne contiene
cento altre, ogni motivo frondeggia a creare l'impressione dominante, che è di
fecondità, di larghezza e generazione costante, a getto continuo, di una vena
diffusa di pagina in pagina» (Giorgio Zampa).
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