Luigi
De Bellis

 


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Cristo si è fermato a Eboli

 
 

 

 
 

L'orologio

 
     
     

 





Carlo Levi



L'OROLOGIO: Romanzo


Edito nei «Saggi» con una copertina disegnata dall'autore e un suo sonetto, il romanzo è nuovamente uscito nel 1974.
La storia, suddivisa in dodici capitoli - articolati, a loro volta, in ulteriori unità narrative -, ha per protagonista lo stesso autore ed è ambientata nel secondo dopoguerra (anni 19471950), a Roma e a Napoli.
A risvegliare i ricordi di Levi è l'orologio regalatogli dal padre: «lo tenni un poco in mano, e lo avvicinai all'orecchio, prima di posarlo sul tavolino accanto al letto. Sentivo il suo ticchettio regolare, e pensavo che il tempo dell'orologio è del tutto l'opposto di quel tempo vero che stava dentro e attorno a me. È un tempo senza esitazioni, un tempo matematico, continuo moto materiale senza riposo e senza angoscia. Non fluisce, ma scatta in una serie di atti successivi, sempre uguali e monotoni». Durante la notte Levi sogna di essere derubato del suo orologio e poi di ritrovarlo, ma rotto. Al mattino, risvegliandosi, per una disattenzione lo fa cadere realmente e si accorge che - come nel sogno - il vetro è ìn frantumi, il quadrante scheggiato, le lancette spezzate e la cassa d'oro ammaccata da un lato. Per le vie di Roma, comincia allora una lunga ricerca di un orologiaio che sia in grado di aggiustarlo. Da questo momento in poi la narrazione trascorre tra presente e passato, affiancando ricordi privati e pubblici, nei quali compaiono i protagonisti della storia italiana del dopoguerra.
Torna alla memoria dell'autore, per primo, il suo esordio al giornale del Partito d'Azione, «L'Italia libera», nel 1945. Il giornale era in piena decadenza e gli entusiasmi di molti redattori sopiti. Dopo un anno di nuova direzione, tutto cambia: nonostante la povertà dei mezzi, due giovani, Casorin (il «filosofo», il «critico», l'«uomo politico») e Moneta (il «letterato», il «Don Chisciotte, l'eroe eterno e immortale delle terre contadine» del Sud) hanno rivitalizzato l'ambiente. Sono giorni importanti quelli che l'Italia sta vivendo: il governo Parri è stato rovesciato e la crisi si protrae. Dalla sua risoluzione dipende il destino di quel movimento popolare nato dalla Resistenza che rischia, per giochi politici, di essere seppellito tra i ricordi, come un'ormai conclusa «esperienza morale». La caduta di Parri sembra a Levi il segnale funesto che stia per tramontare definitivamente quel tempo in cui la comunicazione tra i diversi strati della popolazione era spontanea e facile: i piani e le strategie politiche stanno prendendo, a poco a poco, il posto degli ideali. Diverso da tutti gli altri è Parri: «Il Presidente camminava su una piccola terra, e non sapeva e voleva veder altro che i geloni di Teresa, il viso di Teresa, e le facce e le mani di tutti quelli che incontrava sulla sua strada, e si fermava a parlare con loro, dimenticando ogni altra cosa; e piangeva delle loro lacrime». Dal IV al VI capitolo lo scenario cambia: l'autore decide di sprofondare nella folla romana e si ferma ad ascoltarla e a osservarla all'osteria; poi, con un amico, fa un giro in jeep e giunge al quartiere della Garbatella, alla ricerca di una misteriosa donna, Fanny, amante dell'amico. Qui la desolazione sconvolge lo scrittore e il suo amico: «si vedevano ancora taluni archi grigiastri di cemento, che, prima del bombardamento, avevano dovuto reggere una volta, o un soffitto di vetro. Non si vedeva pavimento, né, se non qua e là, i resti delle macerie di un tetto. Il terreno era tutto coperto da uno strato, spesso forse qualche metro di rifiuti, di sterco, diventato solido e grigio, a monticciuoli separati da pozze di liquido nerastro».
Dall'VIII al IX capitolo torna al centro la politica, con i suoi avvenimenti. Levi si reca al Viminale insieme con gli altri giornalisti, per ascoltare il discorso di dimissioni di Parri, e con due colleghi analizza la situazione: sono Andrea Valenti e Carmine Bianco. È Andrea, che è stato comunista, a formulare la teoria interpartitica già contenuta in «Giustizia e libertà». Secondo lui, la divisione in classi elaborata dal comunismo non "legge" in profondità la società complessa dell'Italia del dopoguerra; ma, se è proprio necessario contrapporre due blocchi, allora è meglio sostituire, a capitalisti e proletari, altre due categorie: i «Contadini» e i «Luigini». I «Contadini» sono «quelli del Sud, e anche quelli del Nord. Quasi tutti; con la loro civiltà fuori del tempo e della storia, con la loro aderenza alle cose, con la loro vicinanza agli animali, alle forze della natura e della terra, con i loro dei e i loro santi è l'oscuro fondo vitale di ciascuno di noi»; ma sono assimilabili ai «Contadini» anche la borghesia viva e imprenditoriale, i proprietari che sanno far rendere la terra, gli operai, insomma «i produttori». I «Luigini» (da «quel Luigino, podestà e maestro di scuola di un villaggio meridionale che tu sai», e cioè un personaggio di Cristo si è fermato a Eboli) sono, invece, coloro che «dipendono e comandano», parassiti e improduttivi.
Al giornale la delusione per le dimissioni di Parti è molto forte. Si parla di un governo Orlando, e liberali e comunisti sarebbero d'accordo. Tutti si lamentano dell'immobilismo romano.
Dal X al XII capitolo la scena si sposta a Napoli: Levi è avvertito da un telegramma che lo zio Luca è molto grave e parte subito in treno per la città partenopea. Quest'uomo, per lui un maestro e quasi un padre, era un medico originario di Torino, ma si era stabilito nella città della moglie. D'altra parte - aggiunge Levi -, per lui una città o l'altra non era importante, perché ciò che gli interessava era l'uomo: «era un uomo di un altro tempo: un sapiente medievale, intento a scoprire la chiave del mondo, bianca o gialla essa fosse». A questo zio, alla sua casa grande e misteriosa sono legati ricordi dell'infanzia di Levi. Egli narra, in particolare, un tenero episodio: a Carlo bambino la governante Mariona aveva dato, di nascosto dallo zio, una scatola di pastelli. Egli - usandoli con entusiasmo perché mai ne aveva visti prima - ne aveva rotto uno. Terrorizzato dalla possibile reazione dello zio, il bambino scoppiò a piangere. Ma, quando entrò nella stanza dove era Carlo e lo vide in lacrime, il «dottore» non lo rimproverò affatto, anzi gli regalò tutti i colori. Così «seppi, nello stesso giorno, che cos'era la pittura; e che cos'era la bontà e che, per l'una e per l'altra le cose inaccessibili sorridono».
Dopo un rocambolesco viaggio, lo scrittore arriva a Napoli e trova lo zio morto: la vecchia governante Mariona gli mostra tutti gli scritti che il medico gli ha lasciato e un orologio d'oro, un Omega, del tutto simile a quello che il padre aveva regalato a Carlo.
Levi riparte per Roma insieme con due ministri del governo dimissionario Colombi e Tempesti. L'ultima immagine del romanzo è quella notturna della città, vista dal palazzo dove lo scrittore abita: «La città si stendeva, e viveva, e respirava, nel vago della luna, con il brusio indistinto di una foresta d'alberi antichi, appena mossi dal fiato leggero del vento».

L'opera è stata recentemente riscoperta dalla critica come uno dei più significativi romanzi di Levi: «ogni capitolo è una scatola che ne contiene cento altre, ogni motivo frondeggia a creare l'impressione dominante, che è di fecondità, di larghezza e generazione costante, a getto continuo, di una vena diffusa di pagina in pagina» (Giorgio Zampa).

 

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