Il libro fu concepito e composto tra il 1923 e il 1928. Dopo la prima edizione,
fu ripubblicato nel 1952 con l'aggiunta di quattro nuovi brani: La casa bianca
del Cormons, San Giovanni di Manzano, Corsi allievi ufficiali, Sul Grappa.
L'edizione definitiva, riveduta dall'autore, è uscita nel 1960.
L'opera, che riguarda la guerra in tutto il suo arco temporale, è strutturata in
cinque parti, i cui titoli originali («I. Entrata in guerra», «II. Nella zona di
guerra», «III. La battaglia di Caporetto», «IV La battaglia del Montello», «V
L'ultima battaglia») sono stati sostituiti da semplici indicazioni annalistiche:
«1914», «1915», «1916», «1917», «1918».
È la rievocazione autobiografica, in forma diaristica, dell'esperienza vissuta
dall'autore al fronte durante la prima guerra mondiale. Il racconto ha inizio
verso la fine del 1914, con la chiamata alle armi e l'improvvisa partenza da
Onigo di Piave per raggiungere il reggimento del genio di stanza a Firenze -
presso il quale Comisso era stato destinato - e poi proseguire in direzione del
fronte, in Veneto e in Friuli. La guerra si presenta al giovane Comisso senza
l'alone dell'impresa eroica, bensì con i tratti dell'imprevisto, come
un'evasione dal grigiore della vita piccolo-borghese della città e della
famiglia. A dominare, fin dalle prime pagine, è infatti il sentimento di
un'insolita avventura, rischiosa ed emozionante, vissuta a contatto con la
natura nell'incanto della giovinezza. Anche quando la violenza della guerra si
impone, la sofferenza s'intreccia con il sentimento gioioso dell'ignoto:
«sorridevo all'avventura che d'immaginaria poteva farsi verace».
Anche di fronte agli aspetti più drammatici del conflitto, Comisso rivela una
particolare capacità di trasfigurazione (come alla vista dei feriti in transito:
«Dolci negli occhi, fatti sereni, felici di essere portati via»), che si
trasforma in fuga, come nell'episodio della fucilazione di un soldato disertore:
«non volevo vedere di più e mi precipitai dall'altra parte della collina,
impastoiato nei passi, sul punto di cadere a ogni istante, sperando di arrivare
in tempo per non sentire». Per qualche tempo, sistemati in una villa a Cormons,
i soldati godono di una quiete quasi idillica: «spenta ogni luce del tramonto ci
si dimenticava della fame per buttarci con le giacche sbottonate sull'erba del
prato davanti alla villa, dove una fontanina zampillava circondata da statuette
di terracotta. Con le mani prendevamo le lucciole che ci giravano attorno».
La natura si presenta ricca di scorci e di momenti straordinari che procurano
felicità e smemorata beatitudine: «Presto gli alberi furono tutti meravigliosi
ciliegi con frutta gonfia dolcissima non vendemmiata dalla popolazione che era
fuggita. Ci si arrampicava con tutto il nostro slancio e da sopra buttavamo giù
ciocche di ciliegie al nostro ufficiale che ci diceva: "Su, su, presto" e
sorrideva. Nessun colpo di cannone intorno, il sole ardente, il luogo deserto,
quelle ciliegie straordinarie: eravamo beati».
L'attenzione agli aspetti dolorosi della guerra è attenuata dal senso di una
partecipazione più immediata alle manifestazioni della vita quotidiana: il
cameratismo, il piacere del cibo e la sensualità dell'amore. La stessa
imprevista varietà di situazioni offerta dalla guerra contribuisce a rendere più
eccitante il gusto di occasioni irripetibili, come nell'episodio del bagno
d'estate al Natisone («un'allegria infantile aveva preso quegli uomini, come se,
tolto il vestito militare, si fossero ritrovati ragazzi»), o l'ascensione al
monte Polunik («Per molto tempo mi trovai chiuso tra la solitudine degli alberi,
tanto grande da farmi dimenticare e guerra e divisa e obbligo di tornare per la
sera al comando di divisione»), o la visita al Rombon, a quota 1200, che gli
ispira sentimenti di nostalgia e di tenue lirismo: «tenevo lo sguardo fisso alla
fune d'acciaio che mi reggeva e al cielo che si alzava tra le nere cime dei
monti. Sorse qualche pensiero. Vidi le gallinelle, le stelle che per la prima
volta, da bambino, mi furono insegnate da mia madre. Il salire così verso il
cielo mi dava una malinconia protesa lontano verso la mia casa, mi disponeva al
pianto».
Anche la drammatica disfatta di Caporetto nel 1917 - che l'autore, nominato
sottotenente, annota come uno dei «limiti estremi e decisivi» della vita - non
esclude il gusto dell'avventura. La ritirata attraverso i paesini della Carnia
si colora di toni fantastici e malinconici, con l'alternarsi di visioni rovinose
e ricordi dell'infanzia vissuta al Montello. A Treviso, nella casa paterna ormai
abbandonata, egli ospita soldati e donne in un'atmosfera di allegra gozzoviglia;
anche la città deserta gli appare «d'una bellezza che mai avrei potuto
immaginare». Il passato torna a riaffacciarglisi alla memoria come una «felicità
tutta generata da sensazioni suscitate in coincidenze incredibili»; quando si
accinge a una rischiosa missione sul Montello, egli si estrania dal presente,
rivivendo il ricordo di una gita domenicale al tempo dell'infanzia: «Mi sentivo
come allora e i miei soldati mi parevano i miei compagni di scuola». Verso
l'autunno del 1918, si diffonde il presentimento della fine delle ostilità; e a
guerra conclusa, nel tripudio della vittoria, l'autore sente che si è consumata
anche l'irripetibile stagione della sua giovinezza, cogliendone l'ultima eco nei
giovani feriti, che rimpiange di non poter più rivedere: «sfiniti nel volto, ma
accesi di sangue alle labbra e di vita negli occhi, cercai di imprimerli nella
memoria, perché ero ormai certo che aspetti simili non sarebbe stato possibile
rivedere più».
Nel panorama della memorialistica sulla prima guerra mondiale, Giorni di guerra
si distingue per l'immediatezza dello stile. Il libro, costruito come un
giornale retrospettivo, cerca di restituire il fluire mobile e sfuggente
dell'esperienza interiore attraverso la precisa registrazione di singoli momenti
della vita quotidiana; il narrato si frantuma in una scrittura poco articolata.
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