Stampato con la data 1905, era in commercio dal novembre dell'anno precedente, e
tre liriche erano già uscite su periodici.
La raccolta, che è costituita da dieci componimenti e reca una dedica al critico
e poeta Cesare Chiappa, esemplifica in maniera compiuta i modi e la vocazione
letteraria di Corazzini. Nei versi si manifestano, con varie sfumature, le
ragioni esistenziali e poetiche che giustificano l'appartenenza dell'autore al
crepuscolarismo romano del primo decennio del Novecento. Dalla frequentazione di
un cenacolo di amici letterati come Martini e Tarchiani, scaturisce il primo
nucleo dell'esperienza poetica dell'autore, che si discosta in parte dalle
atmosfere e dai paesaggi domestici, dalle situazioni che rispecchiano il
grigiore del mondo borghese - motivi tipici del crepuscolarismo piemontese -, in
favore di una ricerca conoscitiva e poetica ispirata direttamente
dall'inquietudine del proprio animo.
Fin dal sonetto d'apertura, il termine «anima» irrompe con un'anafora («Anima
pura come un'alba pura / anima triste [...] / anima prigioniera», Invito),
circoscrivendo lo spazio interiore del colloquio del poeta con se stesso in una
rassegnata accettazione del proprio dolore («sorella nel dolore», «vieni,
serella, il tuo martirio è il mio», Invito) e con una delicatezza che cela
nell'intimo la tragica consapevolezza di un destino - la morte per tubercolosi -
che lo attende; «Ho nel cuore una tristezza / intensa immensa come mai nessuna /
tristezza» (Cappella in campagna). E lungo questo monologo si sgrana un
autentico «rosario» di immagini che alludono in tono dimesso, ma incisivo, alle
«speranze perdute» (Toblack) simili a «fogne [...] / cadute eguali» (Sonetto
d'autunno) in autunno e ai «sogni infranti» (Toblack). Il «pianto triste», che
accompagna Corazzini alla «fossa ch'ogni [...] dolce speranza accoglie» (Il
cuore e la pioggia), è privo di riscatto e si riflette in un paesaggio che
diviene anch'esso espressione simbolica della sua «malinconia» (Cappella in
campagna; Sonetto d'autunno; la «piccola dolce casa» di Il cuore e la pioggia;
Toblack; L'isola dei morti). In questo percorso si aggiungono poi le descrizioni
di oggetti e luoghi che aprono un campo tematico eminentemente funebre: cappelle
e chiese sono contraddistinte da un'ossessiva frequenza di «bare», «ceri»,
«funerali»; dal sanatorio di Toblach, dove il poeta si era invano ricoverato, si
ode «qualche piccola fontana / che piange un pianto eternamente uguale / al
passare di ogni funerale» (Toblack).
E tutta questa congerie di ambienti (cappelle di campagna, ospedali, conventi) e
di figure a essi legate («frati», «suore», «beghine»), insieme con un materiale
dimesso («Il libro dimenticato / aperto», La chiesa venne riconsacrata...;
«portoni semichiusi» e «davanzali deserti», Toblack), sembra richiamarsi alla
lezione del tardo simbolismo franco-belga, in particolare alla poesia
"rinunciataria" di Francis Jammes. Anche l'universo della religione, con tutti i
suoi "strumenti" («L'acquasantiera di bronzo»; «il luminetto / a la Vergine
Maria»; «I confessionali, con le loro tendine verdi un po' sciupate», La chiesa
venne riconsacrata...), appare fortemente condizionato da un deliberato
abbassamento di tono e da una componente di rassegnazione. Le figurazioni
cristiane, sempre piuttosto esplicite («O piccolo cuor mio, tu fosti immenso /
come il cuore di Cristo»: «ostia che si spezzò», Rime del cuore morto; «l'Ave
Maria», La chiesa venne riconsacrata...), non assumono toni salvifici o almeno
confortanti, ma sembrano per lo più proporsi come garanti ulteriori del destino
di dissolvimento che accompagna l'esistenza del poeta («sono / perduto; così
sia», A Carlo Simoneschi; «Distinguo a pena la Madonna», Cappella in campagna).
Fondamentale, per comprendere appieno l'esperienza esistenziale e poetica di
Corazzini, la poesia Toblack (la grafia esatta sarebbe Toblach), che riassume
del dramma e della angosciosa rassegnazione che alimenta L'amaro calice. Nell'«Ospedal
tetro», luogo fisico e spazio mentale della sofferenza, si elabora e si risolve
un ambiguo e tremendo contrasto tra il paesaggio che sembra acconsentire al
«desiderio di convalescenza» del giovane ammalato e i segni, invece,
dell'inesorabile avvicinamento di una «morte che miete senza posa». Nella prima
parte di questa sorta di poemetto funebre, il cielo si dimostra ancora «pieno /
di speranza e di consolazione / ... buono come un occhio / di madre che rincuora
e benedice», ma i versi successivi si risolvono in una constatazione di rinuncia
e di perdita («preghiere vane»; «inutili parole»; «impossibili chimere»).
La descrizione del sanatorio riporta a una realtà «d'irraggiungibile / e di
perduto», dal suono rintoccato delle «terribili campane» al rumore costante
delle «monotone fontane», che non lasciano alcuna speranza: «Anima, vano è
questo lacrimare, / vani i sospiri, vane le parole / su quanto ancora in te
viveva ieri».
Il linguaggio - in consonanza con la poetica crepuscolare - procede sempre con
grande sobrietà: il succedersi di oggetti e situazioni privi di enfasi
richiedono una lingua semplice, che predilige parole comuni quasi sempre con una
connotazione negativa. E la sliricizzazione del registro poetico di Corazzini
perdura anche nei momenti di maggiore malinconia; il poeta non cede mai a
languori sentimentali o evocativi, ma si mantiene fedele a un tono dimesso e a
un andamento spesso prosastico. Dal punto di vista metrico, la raccolta
privilegia l'endecasillabo, generalmente nella forma del sonetto (singolare la
presenza anche di un sonetto in versi alessandrini, Il cuore e la pioggia).
Nell'edizione postuma delle Liriche, «a cura degli amici», Napoli, Ricciardi,1909
(in realtà del 1908) figurano solo cinque poesie dell'Amaro calice.
|