Luigi
De Bellis

 


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Sergio Corazzini



L'AMARO CALICE: Raccolta di poesie


Stampato con la data 1905, era in commercio dal novembre dell'anno precedente, e tre liriche erano già uscite su periodici.

La raccolta, che è costituita da dieci componimenti e reca una dedica al critico e poeta Cesare Chiappa, esemplifica in maniera compiuta i modi e la vocazione letteraria di Corazzini. Nei versi si manifestano, con varie sfumature, le ragioni esistenziali e poetiche che giustificano l'appartenenza dell'autore al crepuscolarismo romano del primo decennio del Novecento. Dalla frequentazione di un cenacolo di amici letterati come Martini e Tarchiani, scaturisce il primo nucleo dell'esperienza poetica dell'autore, che si discosta in parte dalle atmosfere e dai paesaggi domestici, dalle situazioni che rispecchiano il grigiore del mondo borghese - motivi tipici del crepuscolarismo piemontese -, in favore di una ricerca conoscitiva e poetica ispirata direttamente dall'inquietudine del proprio animo.
Fin dal sonetto d'apertura, il termine «anima» irrompe con un'anafora («Anima pura come un'alba pura / anima triste [...] / anima prigioniera», Invito), circoscrivendo lo spazio interiore del colloquio del poeta con se stesso in una rassegnata accettazione del proprio dolore («sorella nel dolore», «vieni, serella, il tuo martirio è il mio», Invito) e con una delicatezza che cela nell'intimo la tragica consapevolezza di un destino - la morte per tubercolosi - che lo attende; «Ho nel cuore una tristezza / intensa immensa come mai nessuna / tristezza» (Cappella in campagna). E lungo questo monologo si sgrana un autentico «rosario» di immagini che alludono in tono dimesso, ma incisivo, alle «speranze perdute» (Toblack) simili a «fogne [...] / cadute eguali» (Sonetto d'autunno) in autunno e ai «sogni infranti» (Toblack). Il «pianto triste», che accompagna Corazzini alla «fossa ch'ogni [...] dolce speranza accoglie» (Il cuore e la pioggia), è privo di riscatto e si riflette in un paesaggio che diviene anch'esso espressione simbolica della sua «malinconia» (Cappella in campagna; Sonetto d'autunno; la «piccola dolce casa» di Il cuore e la pioggia; Toblack; L'isola dei morti). In questo percorso si aggiungono poi le descrizioni di oggetti e luoghi che aprono un campo tematico eminentemente funebre: cappelle e chiese sono contraddistinte da un'ossessiva frequenza di «bare», «ceri», «funerali»; dal sanatorio di Toblach, dove il poeta si era invano ricoverato, si ode «qualche piccola fontana / che piange un pianto eternamente uguale / al passare di ogni funerale» (Toblack).
E tutta questa congerie di ambienti (cappelle di campagna, ospedali, conventi) e di figure a essi legate («frati», «suore», «beghine»), insieme con un materiale dimesso («Il libro dimenticato / aperto», La chiesa venne riconsacrata...; «portoni semichiusi» e «davanzali deserti», Toblack), sembra richiamarsi alla lezione del tardo simbolismo franco-belga, in particolare alla poesia "rinunciataria" di Francis Jammes. Anche l'universo della religione, con tutti i suoi "strumenti" («L'acquasantiera di bronzo»; «il luminetto / a la Vergine Maria»; «I confessionali, con le loro tendine verdi un po' sciupate», La chiesa venne riconsacrata...), appare fortemente condizionato da un deliberato abbassamento di tono e da una componente di rassegnazione. Le figurazioni cristiane, sempre piuttosto esplicite («O piccolo cuor mio, tu fosti immenso / come il cuore di Cristo»: «ostia che si spezzò», Rime del cuore morto; «l'Ave Maria», La chiesa venne riconsacrata...), non assumono toni salvifici o almeno confortanti, ma sembrano per lo più proporsi come garanti ulteriori del destino di dissolvimento che accompagna l'esistenza del poeta («sono / perduto; così sia», A Carlo Simoneschi; «Distinguo a pena la Madonna», Cappella in campagna).

Fondamentale, per comprendere appieno l'esperienza esistenziale e poetica di Corazzini, la poesia Toblack (la grafia esatta sarebbe Toblach), che riassume del dramma e della angosciosa rassegnazione che alimenta L'amaro calice. Nell'«Ospedal tetro», luogo fisico e spazio mentale della sofferenza, si elabora e si risolve un ambiguo e tremendo contrasto tra il paesaggio che sembra acconsentire al «desiderio di convalescenza» del giovane ammalato e i segni, invece, dell'inesorabile avvicinamento di una «morte che miete senza posa». Nella prima parte di questa sorta di poemetto funebre, il cielo si dimostra ancora «pieno / di speranza e di consolazione / ... buono come un occhio / di madre che rincuora e benedice», ma i versi successivi si risolvono in una constatazione di rinuncia e di perdita («preghiere vane»; «inutili parole»; «impossibili chimere»).
La descrizione del sanatorio riporta a una realtà «d'irraggiungibile / e di perduto», dal suono rintoccato delle «terribili campane» al rumore costante delle «monotone fontane», che non lasciano alcuna speranza: «Anima, vano è questo lacrimare, / vani i sospiri, vane le parole / su quanto ancora in te viveva ieri».

Il linguaggio - in consonanza con la poetica crepuscolare - procede sempre con grande sobrietà: il succedersi di oggetti e situazioni privi di enfasi richiedono una lingua semplice, che predilige parole comuni quasi sempre con una connotazione negativa. E la sliricizzazione del registro poetico di Corazzini perdura anche nei momenti di maggiore malinconia; il poeta non cede mai a languori sentimentali o evocativi, ma si mantiene fedele a un tono dimesso e a un andamento spesso prosastico. Dal punto di vista metrico, la raccolta privilegia l'endecasillabo, generalmente nella forma del sonetto (singolare la presenza anche di un sonetto in versi alessandrini, Il cuore e la pioggia).

Nell'edizione postuma delle Liriche, «a cura degli amici», Napoli, Ricciardi,1909 (in realtà del 1908) figurano solo cinque poesie dell'Amaro calice.

 

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