Pubblicato nel 1980, il romanzo risente di una lunga gestazione. Se, come
avverte lo stesso autore, la prima idea si può far risalire al 1975 («Ho
ritrovato ... un quaderno datato 1975 dove avevo steso una lista di monaci in un
convento imprecisato»), la reale elaborazione narrativa va datata al 1978 («Ho
incominciato a scrivere nel marzo '78, mosso da un'idea seminale»). Dopo la
prima edizione del 1980, un clamoroso successo di vendite indusse la stessa casa
editrice ad approntare subito una seconda edizione. Nel 1983, dopo moltissime
riedizioni e ristampe, fu pubblicato un testo con «correzioni» dell'autore; e,
nel giugno dello stesso anno, appariva sul n. 49 della rivista «Alfabeta» uno
scritto dal titolo: Postille a «Il nome della rosa» a cura dell'autore. Tali
Postille, indispensabili chiavi per la lettura e la comprensione generale del
romanzo stesso e della sua genesi, vennero poi poste in appendice alle
successive edizioni dell'opera.
Il romanzo, nato quasi come esperimento di semiotica narrativa, si nutre di
tutta l'esperienza dell'Eco saggista e studioso di estetica medievale.
L'ambientazione geografica (un'abbazia benedettina situata in una non meglio
precisata zona montuosa del Nord Italia) e storica (fine novembre del 1327)
consentì all'autore di sfruttare tutte le proprie conoscenze della cultura
religiosa e filosofica del Medioevo; l'intreccio si sviluppa nell'arco di sette
giornate, ciascuna scandita da brevi periodi contrassegnati dalle ore
liturgiche. Vi si aggiungono, a fare da cornice, un «Prologo» e un ultimo
«Folio». L'occasione romanzesca - racconta l'autore con un tradizionale
stratagemma narrativo («Naturalmente, un manoscritto») - è offerta dal
rinvenimento di un libro che riporta fedelmente un antico manoscritto del monaco
benedettino Adso da Melk. Questi, all'epoca dei fatti di cui fu testimone, era
un novizio al seguito del francescano Guglielmo da Baskerville, al quale era
stata affidata da Ludovico il Bavaro una missione diplomatica presso un'abbazia
benedettina dell'Italia settentrionale. Appena giunti, Guglielmo e Adso si
trovano di fronte a un difficile "giallo": all'interno dell'abbazia - che è una
delle maggiori e meglio costruite dell'intera Europa e possiede al suo interno
la biblioteca più grande che si conosca nel mondo cristiano - è avvenuto uno
strano caso di suicidio. L'abate Abbone, responsabile dell'abbazia, conoscendo
le alte doti di intuito e di logica di Guglielmo, gli conferisce l'incarico di
indagare sul caso. Ha inizio così una lunga serie di indagini, condotte per lo
più interrogando i monaci e osservandone da vicino le abitudini di vita, che
portano Guglielmo a individuare nella biblioteca il cuore del mistero.
Intanto dopo il suicidio di Adelmo, altre morti (e, questa volta, si tratta di
omicidi) contribuiscono a complicare il quadro già difficile che Guglielmo e
Adso hanno di fronte: muore Venanzio, frate dotto in letteratura e filosofia
della Grecia classica; muore Berengario, aiuto bibliotecario; muore il monaco
erborista Severino; e muore anche Malachia, il bibliotecario.
Queste morti si susseguono mostrando ogni volta, in apparenza, un'analogia con
le varie simbologie di morte descritte nel libro dell'Apocalisse: «A causa di
una frase di Alinardo», ammette frate Guglielmo da Baskerville, una volta
scoperto il mistero, «mi ero convinto che la serie dei delitti seguisse il ritmo
delle sette trombe dell'Apocalisse. La grandine per Adelmo, ed era un suicidio.
Il sangue per Venanzio, ed era stata un'ìdea bizzarra di Berengario; l'acqua per
Berengario stesso, ed era stato un fatto casuale; la terza parte del cielo per
Severino, e Malachia aveva colpito con la sfera armillare. Infine gli scorpioni
per Malachia».
Nonostante questo errore di interpretazione, sembra chiaro che è comunque il
disegno omicida di una mente criminale ad agire con estrema sicurezza.
L'approfondimento delle indagini porta Guglielmo e Adso ad appurare che nella
biblioteca - e in particolare in quella sezione "proibita", perché pagana, che è
definita finis Africae - sta il motivo che lega a sé tutte quelle morti. Anche
dal solo punto di vista architettonico, la biblioteca appare come un luogo
inaccessibile: «Hunc mundum tipice laberinthus denotat ille... La biblioteca è
un gran labirinto, segno del labirinto del mondo. Entri e non sai se uscirai». A
questo punto, spetta ai due "eroi" penetrare - e non solo figurativamente - i
misteri della biblioteca.
Dopo una serie di incursioni notturne, e mentre sullo sfondo del romanzo si
disegna la disputa teologica tra gli ordini minori e le gerarchie ecclesiastiche
fedeli al papa avignonese, finalmente i due vengono a capo dell'intricato
mistero: il secondo libro della Poetica di Aristotele - dedicato alla commedia e
considerato blasfemo perché qui «Aristotele vede la disposizione al riso come
una forza buona» - viene gelosamente custodito da Jorge da Burgos, frate ormai
cieco ma il più anziano conoscitore dei segreti della biblioteca e dell'abbazia
tutta. Egli, convinto che quel libro conduca gli uomini alla perdizione perché
li invita a ridere, è disposto a mangiare pagina dopo pagina (le stesse che egli
aveva avvelenato per assicurarsi che nessuno potesse leggere e sfogliare quel
libro uscendone vivo) il volume o a gettarlo nelle fiamme non appena gli si
presenta l'occasione. E infatti un banale incidente, mentre Guglielmo e Adso
cercano di catturare Jorge, provoca l'incendio della biblioteca: si dissolvono,
così, divorate dalle fiamme, sia le prove degli omicidi sia le pagine del libro.
Il romanzo si chiude con lo scenario apocalittico delle fiamme che si propagano
in tutta l'abbazia riducendola a un ammasso di rovine. L'ultimo folio, a
chiudere il romanzo, riporta la confessione di Adso e riferisce come egli, ormai
anziano monaco, sia tornato sui luoghi di quella indimenticabile avventura e
abbia cercato di raccogliere, attraverso gli sparsi frammenti di libri rimasti
fra le rovine, una immaginaria e incompleta biblioteca.
Il nome della rosa è stato il caso letterario più dibattuto degli anni Ottanta.
Il suo carattere di "opera aperta" a diversi livelli di lettura ne ha
consentito, infatti, una diffusione che, per estensione geografica e durata nel
tempo, si può assimilare a quella dei maggiori bestseller del Novecento. Il
valore dell'opera va misurato al di là del semplice apprezzamento di pubblico e
di critica: Il nome della rosa «è così lucidamente costruito e chiuso», ha
scritto Maria Corti, «da rispettare in modo eccezionale le aristoteliche unità
di tempo, di luogo e di azione». E, tuttavia, la validità del libro sta in
quella sorta di «semiosi illimitata» che Eco ha messo in atto, per cui ogni
lettore leggerà un suo "possibile" romanzo (il giallo, il romanzo storico,
quello filosofico, il Bildungsroman ecc.).
Nel 1986 ha ispirato l'omonimo film per la regia di Jean-Jacques Annaud;
interpreti principali Sean Connery (Guglielmo da Baskerville) e Murray Abraham (Adso
da Melk).
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