Luigi
De Bellis

 


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Natalia Ginzburg



MAI DEVI DOMANDARMI: Prose


Pubblicato per la prima volta nei «Romanzi moderni» di Garzanti, sono state incluse nel vol. II dell'edizione completa delle Opere, raccolte e ordinate dalla autrice, con prefazione di Cesare Garboli.
La stessa Ginzburg, in una «Nota», avverte che il volume riunisce tutti gli scritti pubblicati su «La Stampa» tra il dicembre del 1968 e l'ottobre del 1970. Il racconto La casa è uscito su «Il Giorno» nel 1965 e poi nel quindicinale «Romanzi e racconti». Erano inediti I baffi bianchi, L'infanzia e la morte, Sul credere in Dio e Ritratto di scrittore.
«Avevo pensato di dividere questi scritti in due parti: da una parte gli scritti o i racconti di memoria, dall'altra parte gli altri», confida la Ginzburg; ma la constatazione che «la memoria veniva a mescolarsi spesso negli scritti di non memoria» l'ha fatta optare per l'ordine cronologico di composizione.
La dedica al marito Gabriele (Baldini) si completa con i versi di Sandro Penna: «Ma tu resti sulla strada / sconosciuta e infinita. / Tu non chiedi alla tua vita che restare ormai com'è».
La raccolta prende il titolo da uno scritto del maggio del '69, nel quale la Ginzburg racconta il suo amore mancato per la musica, un amore mancato che ha forse le sue radici in una delusione d'infanzia: Natalia, da bambina, conosceva la trama del Lohengrin di Wagner e anche la famosa aria «Mai devi domandarmi - né a palesar tentarmi - ond'io ne venni a te - né il nome mio qual è». L'idea che lei s'era fatta della storia, i personaggi così come se li era immaginati, il finale tragico mutato in uno lieto nella sua fantasia: tutto si è infranto la prima volta che ha assistito all'opera in teatro. «Trovai che il cigno era piccolo, una specie d'oca, Lohengrin vecchiotto e imbruttito da un elmo troppo grosso, Elsa bassa e vecchiotta e con due code gialle».
Nella raccolta, a episodi e amori infantili e giovanili si alternano brani su passioni e odi letterari (Il paese della Dickinson, Cent'anni di solitudine, Cuore), cinematografici (Un mondo stregato, Film) e teatrali (Sulle sponde del Tigrai, Il teatro è parola). Ne emergono ritratti di persone e di luoghi. Si veda, per esempio, quello dello psicanalista con cui la scrittrice si rammarica di non essere riuscita a stringere amicizia, perché tra paziente e medico si è alzata una barriera: da parte di lei il racconto irrefrenabile delle nevrosi, da parte di lui un rigido distacco professionale. Oppure quello, diversissimo, dell'attore Paolo Poli, che diventa per la spettatrice una sorta di compagno di strada e di amico: «dell'esito felice di un suo spettacolo, mi rallegro sempre, in verità non sono che uno spettatore, e lui di persona lo conosco appena, per essere andata a salutarlo a volte nel suo camerino».
Le riflessioni sulla scrittura sono improntate a quella noncuranza e leggerezza che sono tipiche dello stile della Ginzburg. In Interlocutori, ella parla della necessità per lo scrittore di avere tre o quattro lettori di fiducia a cui sottoporre i propri lavori: «La scelta degli interlocutori è assai strana, e chi scrive non scorge, fra essi, nessuna rassomiglianza. Essi sembrano pescati a caso e alla rinfusa nel numero delle persone che ha intorno a sé». La scelta è in realtà dettata da alcuni requisiti: «è necessario che non ci rifiutino mai», «che non ci giudichino, come scrittori, inutili». I figli sono cattivi interlocutori perché, normalmente, sono spietati, mentre ai propri lettori lo scrittore chiede «una sorta di partecipazione, un apporto di parole e pensieri al nostro scrivere solitario». Con un Ritratto dello scrittore del 1970 si chiude la raccolta. Il brano è scritto in terza persona, ma è chiaro che l'autrice parla di sé, mettendo in risalto la trasformazione avvenuta rispetto agli inizi della carriera. Prima, quando era giovane, si sentiva in colpa perché avrebbe voluto scrivere cose più importanti e serie; aveva l'ansia di finire ciò che iniziava e cercava la semplicità e l'immediatezza; era dotata di un po' (non tanta) fantasia e si soffermava su particolari molto piccoli e, in apparenza, irrilevanti della realtà. Adesso, in vecchiaia, ha perso tutta la sua fantasia, non ha più fretta e smonta e rimonta i suoi scritti. Ha capito che non era fatta «per inventare ma per raccontare cose che aveva capito di altri o di sé o cose che gli erano realmente accadute». A volte vorrebbe aver amato più l'invenzione che il vero, perché in esso ha sempre avvertito qualcosa di gelido, arido, distante: si è chiesta se scrivere era per lei «un dovere o un piacere. Stupido. Non era né l'uno né l'altro. Nei momenti migliori, era ed è come abitare la terra».
Nonostante il carattere frammentario del libro, emerge da queste prose lo stile familiare e colloquiale della Ginzburg che, anche nelle pagine più "riflessive", riporta sempre il discorso, con levità e ironia, alla dimensione dell'esperienza concreta e quotidiana.

 

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