La voce narrante del romanzo (che si compone di trentotto brevi capitoli) è
quella di «Giuseppe detto Giuseppe», in continuo dialogo, talvolta anche
polemico, con il proprio alter ego, dal quale si separa alla conclusione
dell'opera. Lo spazio in cui si svolge la vicenda è rappresentato dalla Pianura
di Pavona, nei pressi di Roma, una «tabula rasa» percorsa in lungo e in largo
dal narratore e di volta in volta riempita dalle sue ossessioni e proiezioni
oniriche. In una delle sue peregrinazioni alla ricerca di metalli, Giuseppe (che
di mestiere fa il robivecchi) trova in mezzo a un prato, presso la Torre
Medievale, un cadavere con la gola tagliata. Da qui, cioè dall'indagine privata
condotta dal protagonista, parallela a quella della polizia, scaturisce l'esile
trama del romanzo, alla quale sono inframmezzate digressioni di ogni genere. Il
primo a entrare nella lista degli indiziati, tutti di nome Giuseppe, è il
macellaio di Pavona, che scambia l'improvvisato investigatore per un prete
travestito, deciso a convertirlo. In seguito, allorché si viene a sapere che la
polizia è alla ricerca di un uomo con una bicicletta nera (oggetto posseduto
anche dal protagonista, che sente la necessità di scagionarsi), i sospetti
cadono sul «demoscatore» di Albano, un individuo ossessionato dallo sterminio
delle mosche. Ancora la bicicletta nera fa spostare l'attenzione prima su un
vecchio, poi sul bagnino di uno stabilimento del Lido di Lavinio, il quale
racconta a Giuseppe detto Giuseppe una storia che altro non è se non un episodio
dell'Eneide. Risulta difficile stabilire fino a che punto i personaggi indagati
siano figure effettive e non proiezioni dell'io narrante, il quale si
identifica, a tratti, con l'assassino e persino con il morto.
Da un certo momento in poi, ha inizio una serie di morti che coinvolge tutti
coloro che erano stati precedentemente indagati: ciascuno di essi perde la vita
in circostanze oscure, tanto che non si sa se si tratti di suicidio, di omicidio
o di un semplice incidente. Così, il macellaio affoga «in venti centimetri
d'acqua» nel Fosso dei Preti; il «demoscatore» cade con la bicicletta dal ponte
di Ariccia, mentre il bagnino rimane carbonizzato nel tentativo di incendiare
una macchia di nafta che minaccia la spiaggia. Il protagonista - il quale più
volte immagina di essere in pericolo, sotto il tiro di un assassino appostato
dietro qualche cespuglio - si forma la convinzione che dietro questa catena di
delitti si celi una grande organizzazione criminale, i cui scopi restano
imperscrutabili.
Parallelamente alla vicenda appena esposta, si sviluppa il rapporto con una
donna, il cui nome cambia continuamente (da Rosa a Rosmunda, da Rossana a
Rosalba, e così via). Con lei, che stranamente lo allatta, il protagonista
discute l'evoluzione delle indagini, condivide alcune divagazioni (come quella
sul puma, che immediatamente trasforma la Pianura di Pavona nella foresta
americana) e mette in scena un bizzarro «gioco erotico cinese». A un tratto, la
donna gli svela che il ragazzo che le porta il latte, di nome Giuseppe, è il
loro figlio: rivelazione che non sembra turbare eccessivamente il protagonista.
Il narratore fa continue divagazioni, sovente provviste di una base scientifica
o pseudoscientifica, che si dipanano a partire da un elemento minimo,
amplificato a dismisura: per esempio, il desiderio di essere un uccello dà luogo
a un ragionamento sugli incidenti aerei, mentre una cicatrice sul collo
costituisce lo spunto per una digressione sul taglio della testa e sul libero
vagare dei pensieri per l'aria. In altri casi, l'immaginazione prende le mosse
da un problema fortemente radicato nel reale - come l'inquinamento atmosferico
delle grandi città - per risolverlo tuttavia sul piano dell'assurdo, nella
fattispecie con il progetto di convogliare, attraverso enormi condutture, l'aria
dal mare e dalla montagna. E l'intero romanzo è pervaso dal senso di una oscura
minaccia, di una macchinazione su vasta scala che pesa sul mondo.
Le simmetrie («tutte le cose si assomigliano»), il succedersi degli eventi «a
catena», le «confusioni» che il protagonista-narratore è costretto ad annotare
sono tutti segni di una sostanziale indecifrabilità del reale, che sembra
proporsi come l'autentico nucleo problematico del discorso narrativo di Malerba.
E il «ronzio», con cui si apre il romanzo e di cui è impossibile individuare la
fonte, ne è l'emblema più vistoso. L'ossessione interpretativa da cui è animato
Giuseppe sancisce in ultima analisi un incolmabile divario tra il reale e il
linguaggio, che a sua volta si configura quale strumento di inganno: è questo il
significato dei numerosi e polemici appelli del protagonista a spiegarsi meglio,
lanciati all'indirizzo dei funzionari della radio (che fa da sottofondo a buona
parte della vicenda) o di coloro che hanno disseminato la pianura di cartelli
pubblicitari. Il linguaggio stesso assume, talvolta, una consistenza maggiore di
quella dell'opaco reale - le pantere della polizia sono descritte come «belve
feroci» - oppure viene fatto oggetto di un fulmineo spostamento di senso, come
nel caso della breve dissertazione sulle mignatte che si trasforma, con una
consequenzialità paradossale, in discorso sulla prostituzione. Lo stesso ricorso
al meccanismo del romanzo giallo, che in teoria dovrebbe garantire un rigoroso
svolgimento logico, serve all'autore per denunciare, nello stesso tempo, l'illusorietà
del reale e quella della finzione romanzesca, per cui appare pressoché
impossibile arrivare all'acquisizione di una verità sul delitto (e non solo su
di esso).
Privo com'è di un effettivo centro, e costruito pertanto seguendo un criterio
meramente associativo, Salto mortale si presenta come una vera e propria "opera
aperta", nella quale confluiscono e vengono messi a frutto, con originalità,
molti dei procedimenti peculiari del romanzo sperimentale degli anni Sessanta.
Accanto all'evidente deflagrazione dell'io narrante in diverse voci, è possibile
registrare la mancanza di determinazione, se non persino la confusione, dei
piani spazio-temporali; dal canto suo, la scrittura procede per cerchi
concentrici, nel tentativo di riprodurre il modo di ragionare deviato del
protagonista. Come scrive Walter Pedullà, «il linguaggio di Malerba si oppone
con irresistibile comicità alla rinascita di ogni idea che pretenda di
trasformarsi in ideologia dominante».
Il romanzo ha conosciuto un notevole successo di critica all'estero: nello
stesso 1968 è stato tradotto in francese e insignito del Prix Médicis; sono
seguite altre traduzioni in inglese, in polacco e in rumeno.
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