Suddivise in cinque sezioni («II mondo», «Le domeniche», «Signorine di
Provincia», «Nostalgia», «Hortulus animulae»), le Poesie scritte col lapis (in
tutto quarantuno) costituiscono un repertorio tematico contrassegnato da toni
ironici e dimessi. Il titolo complessivo allude alla particolare labilità di
queste liriche, che possono essere scritte solo a matita, «col lapis», appunto:
E anche tu, così pudica,
anche tu così restia
a far ciò che s'addica,
sali e taci, o Poesia
(Non bai l'ali?).
Dalla quotidianità provinciale, dagli interni familiari, salgono domande senza
risposte:
Chinar la testa che vale,
che vale fissare il sole
e unir parole a parole
se la vita è sempre uguale?
(Che vale?);
Ecco, domenica amica,
dammi i lupini col sale
così come al davanzale
si dà a un passero una mica»
(La giostra)
Non so perché m'insiste nella mente
oggi una curiosa letterina
d'un signor Giusti ad una sua cugina,
a una cognata... insomma, una parente
(L'epistolario nell'antologia)
In particolare, un'adolescenza precocemente ripiegata su se stessa sembra
suggerire una sorta di vocazione alla solitudine:
«sappilo, non ti rimane
che un suono di campane.
Non t'illudere: hai finito
di pretendere qualcosa:
colta hai l'ultima tua rosa
l'hai sciupata in un convito:
è molto se ti rimane
fedele il tuo cane
(Non t'illudere)
Il linguaggio dell'intimità circoscrive l'attenzione alle piccole cose, alle
atmosfere ombrose, caratterizzate da una rassegnata e mite assenza di valori:
Io sento in mela tristezza
del giorno domenicale;
del giorno crepuscolare
nel quale l'anima trova
il bisogno d'una nuova solitudine
(La domenica di Bruggia).
Quel microcosmo di provincia, grigio e un po' noioso, che Moretti identifica con
la vita sociale della Romagna, ispira riflessioni malinconiche - ma non
drammatiche - sull'esistenza e sul suo svuotato mistero:
Siamo a Lugo o a Cesena o a Brisighella,
a piedi siamo o in sella,
in pianura o in montagna
Dio ci protegge ma non ci accompagna
(Siano in Romagna)
Cinici e delicati, egoistici e affettuosi, questi versi trovano forza nella loro
inattualità, nell'indifferenza al divenire. C'è in Moretti tutta l'insofferenza
per l'antico privilegio dell'artista decadente, e il ruolo del poeta viene
depurato di qualsiasi retorica e trionfalismo:
Nessuno pensa ch'io posso
essere il triste mendico
che chiede, invece che un tozzo
di pane, un palpito amico
(Cane randagio)
L'immagine dell'artista risulta cosi fortemente ridimensionata e circoscritta in
una concezione del mondo per così dire "privata". La rivendicazione di una
diversità - che passa attraverso l'emarginazione e la rottura con le
tradizionali forme eversive dell'artista romantico viene ricondotta a un
ulteriore motivo, quello dell'inadeguatezza a svolgere una missione sociale e
pubblica:
Esser qui sempre come un'ombra, come
un'indistinta forma di passante; restare fra le piante
non più di un'ombra, che, fra tante, ha un nome
(Hortulus)
Questa intimistica disposizione del poeta è una metafora dell'esistenza, una
dichiarazione d'impotenza, d'incapacità a definire il mondo e la realtà oltre
l'orizzonte della poesia. Ciò che emerge è dunque la raffigurazione disincantata
di un mondo decaduto, fatto di situazioni ed eventi banali - simboli di una
inadeguatezza e di una debolezza vitale -, popolato di tinti croi e quasi di
controfigure.
Nella raccolta del 1910 si legge la definitiva scelta di Moretti, ormai distante
sia dall'influenza della lezione di Pascoli sia da quella del simbolismo
francese, su cui si fondava il primo libro di liriche (Fraternità, del 1905).
Proprio recensendo le Poesie scritte col lapis, Giuseppe Antonio Borgese, nel
1910, coniò il termine «crepuscolare». Nel suo stile fondato su un linguaggio
neutro, che riduce al minimo i richiami letterari, e su una sintassi
prevalentemente paratattica, Moretti riesce a costruire una singolare e leggera
melodia:
Vorrei cantare tutte l'ore grige
in questa solitudine remota
mentre ripenso, pallida, una gota,
mentre rivedo, piccola, un'effige
(Malinconia).
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