Pubblicato nella collana «I Gettoni» di Elio Vittorini, il libro si compone di
testi già apparsi in prima stesura su alcuni periodici e di una scelta di
inediti.
L'opera consta di cinque prose, che hanno come argomento la miseria e lo
squallore della Napoli del dopoguerra, abbandonata al suo destino di
disperazione e di rovina. A guidare l'autrice in questa drammatica inchiesta è
la volontà di «rimuovere» il «mito terribile del sentimento», testimoniando i
guasti e la degradazione di un intero sistema sociale e presentando il ritratto
di una città «senza grazia», decaduta e mostruosa. L'immagine tradizionale e
stereotipata di Napoli, tratteggiata con i colori dell'ipocrisia e del falso
pittoresco, lascia il posto a «una Napoli diversa da quella che finora ci
avevano rappresentata classici antichi e moderni, non più ridente e incantata, o
tambureggiante e grottesca, ma livida come una donna da trivio sorpresa da un
subitaneo apparire della ragione».
Il primo racconto, Un paio di occhiali, ambientato nei sordidi bassifondi
partenopei, narra la storia di Eugenia, una bambina «quasi cecata» alla quale
vengono comperati un paio di occhiali per permetterle di vedere le cose che la
sua miopia vela «in una nebbia». La bambina per la quale gli occhiali
rappresentano la rivelazione del mondo e la speranza di un mutamento - viene
còlta da un inquietante smarrimento di fronte allo spettacolo miserabile offerto
dalla vita dei vicoli.
Anche il racconto seguente, Interno familiare, è incentrato su un personaggio
femminile, quello di Anastasia Finizio, una donna non più giovane, rassegnata a
una vita di solitudine e costretta a mantenere la famiglia con il proprio
lavoro. Il ritorno improvviso di un suo antico spasimante, Antonio Laurano -
rientrato in città dopo un lungo periodo di navigazione - le apre uno spiraglio
di speranza entro quella sua esistenza monotona e scialba. Anastasia sogna di
sposarsi e di ricominciare una nuova vita, ma la notizia che l'uomo si è
fidanzato con un'altra la riporta alla realtà: «Un sogno, era stato, non c'era
più nulla. Non per questo la vita poteva dirsi peggiore. La vita... era una cosa
strana, la vita. Ogni tanto sembrava di capire che fosse, e poi, tac, si
dimenticava, tornava il sonno».
Con i racconti successivi, Oro a Forcella e La città involontaria, la narrazione
si muove nei territori del reportage, tra immediatezza cronachistica e
testimonianza letteraria. L'autrice descrive, con una nutrita e dettagliata
serie di particolari, le condizioni disumane in cui è costretta a vivere la
plebe di Napoli. Sono rappresentazioni di un allucinato e cupo realismo, cui si
associano, però, atmosfere di un fantastico orrido e visionario, scene di incubo
raccapricciante: «ebbi l'impressione di stare sognando, o per lo meno di stare
contemplando un disegno, di un'orrenda verità. che mi aveva soggiogata al punto
da farmi confondere una rappresentazione con la vita stessa». Nel primo dei due
brani è descritta la vita di Forcella, uno dei quartieri più popolosi di Napoli;
qui, tra le mura corrose e gli angoli immondi dei vicoli, regna un'umanità
degradata: nani, larve di uomini, donne ebeti e malate, bambini magri e pallidi
«come vermi» si accalcano sulla scena come esemplari di una razza dolente e
deforme. Su tutto si accampa il senso di una «miseria senza più forma» che,
«silenziosa come un ragno», invischia la plebe nella rete di una ineluttabile
disperazione. Il brano seguente, La città involontaria, nato come una vera e
propria inchiesta giornalistica, ne mantiene il tono polemico e di denuncia
civile, ma la resa è simbolica: è impostata, infatti, come una vera e propria
discesa agli inferi nel ventre di uno degli agglomerati più raccapriccianti di
Napoli e di tutto il Meridione d'Italia: il III e IV Granili. Nell'edificio,
lungo trecento metri, vivono tremila persone: è come un immenso termitaio umano,
avvolto in una oscurità «quasi assoluta», che evoca i danteschi gironi
infernali. In un ammasso di fetida sporcizia, vagano esseri sub-umani, «larve di
una vita in cui esistettero il sole e il vento, e di questi beni non serbano
quasi ricordo». La scrittrice si aggira nei meandri di questo inferno urbano in
compagnia di «una guida», una certa Antonia Lo Savio: «regina della casa dei
morti, schiacciata nella figura, rigonfia, orrenda, parto, a sua volta, di
creature profondamente tarate, rimaneva però, in lei, qualcosa di regale». Anche
le altre figure sono forme di vita al limite dell'osceno e del distorto, che
vivono «una pena scontata in silenzio» in un luogo di afflizione, rappresentato
come in un cupo incubo surrealista: «pareva proprio che la grande Casa tremasse
continuamente, in modo impercettibile, come per una frana interna, un'angoscia e
un dissolversi di tutta la materia umana che la componeva».
Chiude il libro Il silenzio della ragione, documento del dissolvimento
ideologico del gruppo di intellettuali partenopei legati alla rivista «Sud»,
alla cui breve vita, dal 1945 al 1947, anche la Ortese aveva preso parte.
Affievolitosi l'originario entusiasmo, perduti gli obiettivi della denuncia
sociale e artistica, il gruppo si è frantumato, lasciando i singoli componenti
in un vano e gretto individualismo: Luigi Compagnone, chiuso in un'inquieta e
lacerata solitudine; Domenico Rea, sopraffatto dalla sua vanità di scrittore
riconosciuto; Raffaele La Capria e Michele Prisco, inutili cantori di una
borghesia che non ha più nulla da dire; Pasquale Prunas, il fondatore e
direttore della rivista, ammalato di una sterile nostalgia. Il bilancio che ne
emerge è sconsolato ed è lo straziato contrappunto a una città spettrale senza
più vita: «qui la ragione taceva in un silenzio assoluto. Tutto, qui, sapeva di
morte, tutto era profondamente corrotto e morto».
La violenza del colore e la cupezza della rappresentazione aprono un discorso
tutto particolare sul rapporto della Ortese con il neorealismo, che è di
tangenza, restando ben evidente, nella sua opera, la matrice surreale e magica.
La raccolta suscitò forti reazioni al suo apparire, sia per la crudezza della
rappresentazione sia per la difficoltà di inquadrarla in una precisa definizione
di genere. Ma a innescare la polemica più risentita fu soprattutto l'ultimo
capitolo, che chiamava in causa scrittori e intellettuali contemporanei. Grazie
tuttavia a questo libro, l'Ortese uscì dalla marginalità, ottenendo fra l'altro
il premio Viareggio del 1952.
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