Impostato come una favola moderna, il romanzo è composto di ventiquattro
capitoli, corredati da un apparato di titoli e sottotitoli, disposti
simmetricamente. in un dittico («Il compratore di isole», «La tempesta»),
comprendente, in ciascuna parte, dodici scene narrative.
La storia comincia con il viaggio di un giovane aristocratico milanese, il conte
Carlo Ludovico Aleardo di Grees dei duchi di Estremadura, familiarmente chiamato
Daddo. Egli ha lasciato il suo studio di architetto per l'annuale crociera di
svago e di affari, spinto dal desiderio di acquistare nuove terre dove poter
costruire «ville e circoli nautici per la buona società estiva di Milano». Ma
egli è partito soprattutto con la riposta speranza di imbattersi in qualche
opera strana e sconosciuta da affidare al suo amico editore Boro Adelchi, che è
alla ricerca di qualcosa di inedito, di «anormale», che, come viene suggerito
dallo stesso Daddo, potrebbero essere «le confessioni di un qualche pazzo,
magari innamorato di una iguana». Dopo alcuni giorni di navigazione in mare
aperto oltre le coste atlantiche, il panfilo del conte approda a Ocana, un'isola
misteriosa «a forma di corno» non segnata sulle carte nautiche e che, «per
quanto impercettibilmente», sembra muoversi. Appena sceso, il conte Daddo vi
incontra il marchese don Ilario Jimenez della casata dei Guzman, unico abitante
dell'isola, insieme con i due fratellastri, Hipolito e Felipe. I tratti di don
Ilario recano i segni di una tenebrosa decadenza, una «autentica ma già rovinata
bellezza». Poco dopo, Daddo incontra anche una «bestiola verdissima e alta
quanto un bambino, dall'apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita
da donna»: è un'iguana, che egli poco prima aveva scambiato per una «vecchia» e
che è adibita alle più umili fatiche e al disbrigo delle faccende domestiche
presso la famiglia Guzman. Daddo è subito attratto da questa strana bestiola di
nome Estrellita, nella quale non vede nulla di mostruoso e di abnorme: «non vi
era in quella "vecchietta" nulla di meraviglioso; o, se per caso vi era, faceva
parte della normalità del mondo, che esso stesso era abbastanza enigmatico». Gli
appare, invece, come una singolare e graziosa creatura femminile, seppure
segnata da una ambigua natura: «la creatura che egli aveva chiamato "nonnina"
era, in realtà, ancor meno di una ragazza, essendo una iguanuccia di non più di
sette otto anni». II conte rimane così ospite dei signori dell'isola e comincia
per lui una strana esistenza, divisa tra l'interesse morboso per la bestiola e
la conversazione colta con don Ilario, che si rivela un appassionato bibliofilo
e un sensibile autore di poemi in lingua portoghese, ma che sembra oppresso da
una «triste sonnolenza del cuore». È soprattutto per l'ambiguo comportamento che
questi ha con la servetta (verso la quale alterna premurose attenzioni e aspri
rimproveri) che Daddo sperimenta nel suo ospite una tormentata personalità, con
qualcosa di vagamente folle nel profondo. Questa sensazione gli viene confermata
da una lettera, capitatagli per caso tra le mani, in cui viene a conoscenza
dell'anomalo ma intenso amore che in passato il marchese aveva nutrito per una
scimmia di nome Perdita, poi scomparsa. Daddo comprende, allora, che il
sentimento che don Ilario prova nei riguardi dell'iguana è il segno di un'oscura
e irresistibile attrazione per gli animali, fatta di ripugnanza e di avversione:
«della sua fantastica infatuazione non era rimasto che un vago e distratto
disgusto per le creature inferiori in genere, che sfortunatamente si era
riversato sulla iguana».
Ansioso di conoscere più a fondo il segreto di questo misterioso rapporto, Daddo
spia la bestiola nel segreto della sua dimora, «una specie di tana scavata dalle
volpi», dove essa vive in una perenne oscurità; interrogandola e parlando con
lei, egli percepisce «la parte mancante di sé, bellezza o mostro, non importa».
Nascono così nel giovane lombardo i più puri propositi di riscatto per la
«stravagante creaturina», che egli vorrebbe sposare e portare via con sé. Ma
l'iguana rifiuta il dialogo e le premure del conte, rimanendo chiusa con
crescente determinazione nella sua infinita tristezza, e rivelandosi oscuramente
cosciente del destino di umiliazione che la attende: lasciando così nell'animo
del giovane il dolore di una «impossibilità somma e fondamentale di capire, di
afferrare una verità, come la luce della luna del tutto presente eppure
nascosta».
Il destino dell'animale è ormai segnato e la situazione precipita in una
sinistra confusione, alla quale contribuisce l'arrivo sull'isola degli Hopins,
una famiglia di ricchi possidenti americani. Giunti a Ocana per trattare la
cessione di terre e il matrimonio di Ilario con la figlia, gli Hopins - ma
soprattutto il «nero» arcivescovo Don Fidenzio -insinuano che l'iguana sia una
creatura malvagia, anzi l'incarnazione stessa del male e la scacciano dal
consorzio umano. Estrellita è messa al bando, lei che non più di due anni prima
era stata l'oggetto più caro del marchese, al pari di una «gentile e
affascinante figliolina»: «essa non era una così semplice bestiolina, come aveva
finora creduto, e anzi si poteva paragonare a una vera, per quanto decaduta,
creatura umana. Aveva sostituito Perdita!». Quando si era ammalato, il marchese
aveva respinto l'iguana nella sua condizione di pura bestialità, di «nulla
sostanziale» e ora, sposandosi, la lascia al suo destino di bestia «verde e
brutta», come «un vero serpente», al quale resta precluso per sempre il
paradiso.
Di fronte a questi ultimi accadimenti, la mente di Daddo vacilla, «parendogli
questa una tormentata storia del Seicento spagnolo, pazzesca nella nostra epoca
tanto chiara». Egli è preso da visioni, da strani sogni; incapace di
«distinguere fra queste continue sovrapposizioni di reale e irreale», assiste
persino, in veste di accusato, a un processo istruito per punire gli uccisori di
Dio. Ormai assalito da una imperscrutabile forma di insanità e parendogli,
infine, di vedere in un pozzo l'immagine di Perdita «con due occhi fissi e
grandi, in un volto non più grande di un chicco di riso», egli scende per
salvarla dall'annegamento e muore.
La narrazione si chiude nel ricordo struggente del conte, che i due fratelli
Guzman e la servetta - proprietari di un piccolo albergo fatto costruire
sull'isola dopo la partenza di don Ilario - esprimono in brevi liriche: «Conte
di Milano / non aspettare, / non voglio smeraldi / voglio essere / come te /
pietoso e giusto».
Il romanzo (il primo della Ortese) si snoda in una trama di non facile
decifrabilità, per i suoi continui slittamenti tra il piano della realtà e
quello del fantastico, per le sovrapposizioni di varie dimensioni temporali e
stratificate soglie dell'onirico. La vicenda anomala, il carattere allegorico
della narrazione e il tono favolistico-letterario non ne hanno favorito il
successo.
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