Quando la raccolta usci l'autore dichiarò: «Questa è un po' la mia opera prima:
quando ho scritto gli altri libri, avevo un'altra professione, facevo il
chimico. Ma da un anno e mezzo scrivo soltanto. La chiave a stella è il mio
primo lavoro professionale».
Protagonista di gran parte dei quattordici racconti è Tino Faussone, un
montatore specializzato nella costruzione di gru, ponteggi e tra licci, che
racconta all'autore le avventure capitategli nel corso delle varie missioni di
lavoro. Senza scendere in particolari che renderebbero identificabile il luogo
nel quale di volta in volta gli episodi sono avvenuti, Faussone offre, nella
concretezza dei suoi ricordi, «un bel fatto. Lei poi, se proprio lo vuole
raccontare, ci lavora sopra, lo rettifica, lo smeriglia, toglie le bavature, gli
dà un po' di bombé e tira fuori una storia; e di storie, ben che sono più
giovane di lei, me ne sono capitate diverse». Il suo raccontare è piuttosto
monotono, espresso con «vocabolario ridotto» e «luoghi comuni che forse gli
sembrano arguti e nuovi»; e necessita pertanto di essere "messo in forma" dallo
scrittore, che mantiene nei racconti la semplicità e la vivacità del registro
colloquiale, con continui richiami all'origine orale del dettato («Allora, le
stavo dicendo che ero laggiù...») e mantenendo la peculiarità del lessico
specificamente professionale: «via verso il largo, tirandoci dietro il derrick
coricato sui due pontoni come quando si porta una vacca al mercato per la
cavezza».
Nel primo racconto, «Meditato con malizia», gli operai che lavorano al montaggio
di una gru da molo, dopo aver protestato invano contro il padrone, si risolvono
infine a «fargli la fisica», a operare cioè un malefizio che lo spaventi e lo
faccia tornare sulle sue decisioni. Dopo la «fattura» il padrone, invece, cade
ammalato e muore, cosicché alla famiglia sembra ovvio denunziare gli operai per
«assassinio meditato con malizia» e aprire un processo che si annuncia
lunghissimo. In Clausura Faussone racconta di quando era stato chiamato per
montare il traliccio di sostegno alle colonne di un impianto chimico: «mi
piaceva lo stesso di vederlo crescere, giorno per giorno, e mi sembrava di veder
crescere un bambino, voglio dire un bambino ancora da nascere. Si capisce che
come bambino era un po' strano perché pesava sulle sessanta tonnellate solo la
carpenteria, ma cresceva non così basta che sia, come cresce la gramigna».
Faussone assume la direzione dei lavori («fin dal primo giorno è venuto come di
natura che comandassi io, perché ero quello che aveva più mestiere: che fra noi
è la sola cosa che conti, i gradi sulla manica noi non ce li abbiamo»), cosicché
quando - a lavori ultimati - insorge un grave problema nell'impianto, viene
immediatamente consultato. Una delle colonne, rappresentata come un organismo
vivente, è «malata»: «aveva come un attacco ogni cinque minuti come una gran
bestia che gli mancasse il fiato; la colonna cominciava a vibrare». Individuato
il problema («quel progettista, ben che era in gamba, aveva fatto una topica
marca leone, pare che in una colonna come quella gli anelli non ci andassero»),
Faussone supera le proprie resistenze e si introduce nella colonna per rimuovere
i detriti degli anelli che la ostruiscono. In quel luogo soffocante e sospeso a
vari metri di altezza, Faussone ha una terribile esperienza di claustrofobia:
«mi tornavano in mente tante cose che avevo dimenticate da un pezzo, quella
sorella di mia nonna che si era fatta monaca di clausura, "chi passa questa
porta - non vien più fuori né viva né morta"». Facendo appello a tutte le
proprie risorse, Faussone porta a termine l'impresa di disostruire la colonna,
fermamente risoluto in cuor suo a non accettare mai più di lavorare in spazi
angusti. Altra avventura memorabile narrata da Faussone è quella della
costruzione di un ponte sospeso in India (Il ponte): «io ho sempre pensato che i
ponti è il più bel lavoro che sia: perché si è sicuri che non ne viene male a
nessuno, anzi del bene, perché sui ponti passano le strade e senza le strade
saremmo ancora come i selvaggi; insomma perché sono come l'incontrano delle
frontiere e le frontiere è dove nascono le guerre». Quando i lavori sono quasi
conclusi, il ponte - investito da un forte vento - comincia a ondeggiare
vistosamente e in pochi istanti crolla su se stesso, tra la costernazione
generale. Nel corso del racconto, il disastro era stato del resto quasi
preannunciato da una serie di segni premonitori: il pericolo corso dal
protagonista durante il viaggio aereo che lo porta in India, la morte di due
operai durante le operazioni di dragaggio del fiume, la piena rovinosa del fiume
che aveva divelto l'argine per decine di metri e, infine, l'immagine del rituale
in uso presso i parsi che fanno a pezzi i defunti.
Il protagonista di Acciughe I e Acciughe II è il narratore stesso che racconta
di come, finita la guerra e lasciato il campo di concentramento, avesse trovato
impiego come chimico in un'azienda torinese: «II mio mestiere vero è il mestiere
del chimico. Non so se lei ne ha un'idea chiara, ma assomiglia un poco al suo:
solo che noi montiamo e smontiamo delle costruzioni molto piccole». La storia
raccontata a Faussone gli era capitata in Unione Sovietica, dove era stato
chiamato a risolvere il problema di una vernice che l'autore stesso aveva
attentamente collaudato a Torino e sempre con esito positivo. Quella stessa
vernice, acquistata dai sovietici per rivestire l'interno di scatole di
acciughe, quando viene sottoposta a verifiche sul posto mostra inspiegabilmente
grumi e striature che ne eliminano l'impermeabilità. Occorrerà un secondo
viaggio e un'osservazione attenta delle condizioni in cui vengono effettuate le
prove per individuare l'origine dell'inconveniente: nella vernice si infiltrano
le fibre degli stracci utilizzati per le pulizie all'interno del laboratorio.
Viste riconosciute le sue ragioni, il narratore affronta con soddisfazione il
viaggio di ritorno.
È lo stesso Levi a tracciare le corrispondenze tra il mestiere di chimico e
quello di scrivere:
«L'abitudine a penetrare la materia, a volerne sapere la composizione e la
struttura, a prevederne le proprietà ed il comportamento, conduce ad un insight,
ad un abito mentale di concretezza e di concisione, al desiderio costante di non
fermarsi alla superficie delle cose».
Nei racconti emerge nitidamente e positivamente la figura di Faussone come
quella di un uomo semplice, concreto e pieno di entusiasmo, fiero della propria
professionalità, in grado di coordinare il proprio lavoro con quello degli altri
e di assumersi ogni responsabilità nell'affrontare compiti difficili e
pericolosi.
La raccolta vinse il premio Strega nel 1979.
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