Luigi
De Bellis

 


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Lalla Romano



LE PAROLE TRA NOI LEGGERE: Romanzo


Il titolo era stato in un primo momento La vita attiva, a indicare, per antifrasi, il carattere del figlio. Dopo la prima edizione, il romanzo è stato ripubblicato (1996), con prefazione di Vittorio Sereni, un colloquio tra Vittorio Sereni e l'autrice, antologia critica e cronologia della vita e delle opere a cura di Antonio Ria.
Il titolo definitivo è ripreso da due versi di Eugenio Montale che compaiono nella Bufera e altro. L'opera è composta di sei parti, divise in paragrafi, cui segue una parte finale dal titolo «Poscritti e Conclusioni».

L'autrice rievoca il proprio rapporto con il figlio Piero, dalla primissima infanzia fino al suo allontanamento da lei, per «girare intorno a un personaggio vicinissimo e allo stesso tempo lontanissimo, come solo una persona così intima ed estranea come un figlio può essere. Cioè un personaggio estremamente interessante per me, non in quanto figlio, ma in quanto uomo, in quanto persona».
Il romanzo è costruito sulla base di lettere e appunti del figlio, che però egli non scrive mai direttamente alla madre (si riferisce a lei attribuendole il nomignolo di «Mina»).
Madre e figlio vivono a Cuneo, dove lei insegna, mentre il padre lavora a Torino. L'autrice si sofferma sui momenti più significativi della vita di entrambi, cercando di recuperare il punto di vista del figlio nel vivere la scuola, la scelta di una professione, i conflitti con la famiglia, i rapporti con gli amici e con i genitori, quindi il suo bisogno di indipendenza, infine la scelta di un lavoro, l'amore, il matrimonio. Tutto ruota intorno agli incontri e agli scontri con i genitori, che lo seguono a volte come spettatori impotenti, altre volte come protagonisti delle sue azioni. Il romanzo non è autobiografico in senso stretto solo perché l'autrice lavora dichiaratamente sulla memoria, di cui accetta la parzialità e la selettività. L'atto della scrittura dà ordine ai ricordi, alle lettere, ai diari, ai minuti gesti della vita familiare.
I rapporti tra madre e figlio sono resi difficili da gelosie, sospetti, risentimenti, ricatti e vendette spesso inconsapevoli. Il ragazzo non accetta l'idea di dover ubbidire ai genitori, e ricorre a bugie e imbrogli per ottenere ciò che vuole. Lo stesso fa la madre: «C'è sì un personaggio piuttosto ermetico, intorno a cui io, appunto, appassionatamente giro; nello stesso tempo c'è la coscienza di me come madre che entra enormemente in crisi: cioè un'accusa quasi continua. Di modo che questo libro è anche un libro sugli errori delle madri». Mancando la parità nei confronti dei figli, verrebbero infatti a mancare il rispetto per la diversità, la fiducia e l'amore completi.

L'autrice "rilegge" il figlio come un eroe solitario e incompreso; così, per esempio, interpreta la pigrizia di lui come insofferenza per le comuni abitudini, generata dalla sua "unicità" il disordine e il rifiuto di lavarsi come affermazione di indipendenza e genialità; la villania e l'asocialità come eccesso di onestà; l'indifferenza come segno di grandezza. Da Cuneo i due si trasferiscono a Milano, dove il padre lavora in una banca. Nei ricordi di Piero, Cuneo rappresenterà sempre gli anni della libertà, e Milano l'entrata nel mondo degli adulti. Gli studi del ragazzo proseguono con difficoltà, mentre la malattia fisica e i frequenti crolli psicologici diventano sintomi di un disagio che atterrisce i genitori. Viene definito anoressico e paranoico, e la madre non si nasconde il timore di avere un figlio criminale (ripensando ai suoi scherzi pesanti a scuola, alla passione per le armi, all'attitudine per l'isolamento). A nulla approdano gli studi universitari e il corso di preparazione per diventare capostazione.
Infine Piero s'innamora di Nené, con la quale condivide l'ideale di una vita disordinata, risolta giorno per giorno. Nené ride di Piero, del suo stare nel mondo con abiti trasandati, con il suo rifiuto dell'impiego, di un'esistenza regolare. I due si sposeranno secondo la tradizione, con una cerimonia seguita dal classico ricevimento. Impiegatosi in banca per interessamento del padre, Piero sembra desiderare sempre di più la malattia: dopo un periodo di riposo e convalescenza per la minaccia di tubercolosi, si ricovera in ospedale per la sciatica, che egli teme sia un tumore. Scrive un libro, Diario d'Algeria, che la madre giudica con severità. Da quel momento il ragazzo non si fiderà più del suo giudizio.

Nonostante si sia proposta di lasciare spazio alla personalità del figlio, l'autrice si accorge che il proprio punto di vista ha prevalso: «del resto chi dice "io" nel romanzo è una coscienza che cerca di rispecchiarne un'altra». In un poscritto spiega: «Alcuni hanno trovato che il romanzo risulta il ritratto della madre piuttosto che quello del figlio. Può darsi: io avrei voluto diminuire perché lui cresca».

Il romanzo vinse il premio Strega nel 1969. Eugenio Montale scrisse sul «Corriere della sera»: «Se c'è ancora qualche lettore capace di amare una poesia incapace di esibirsi come tale, questo è un libro che può fare per lui». Secondo Roberto Mussapi, Lalla Romano «attinge a ciò che ha sperimentato, a ciò che conosce, vale a dire la vita e le figure familiari per parlarci delle età dell'uomo, dell'infanzia, della giovinezza, della maturità e della vecchiaia, e delle grandi prove. Nulla di autobiografico, ma semmai una sottesa esemplarità della vita: esemplarità in quanto capacità di suggerire letture più profonde della vita stessa».

 

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