Dopo la prima edizione del 1995 è stato ripubblicato, con introduzione
dell'autrice, postfazione di Giovanni Raboni, appendice a cura di Antonio Ria.
Il titolo è una citazione da La Provincia dell'uomo di Elias Canetti; in esergo
l'autrice scrive: «Una giovinezza inventata che diventa vera nella vecchiaia».
Il romanzo, strutturato in quarantaquattro capitoli divisi in tre parti,
ripercorre lo sviluppo dell'educazione culturale, intellettuale e sentimentale
della narratrice. E il racconto della giovinezza vissuta nell'ambiente della
Torino degli anni Venti, dove Lalla (diminutivo di Graziella) Romano entra con
la sua valigia a soffietto, simbolo di un'origine familiare borghese. L'autrice
dichiara di non mirare alla ricostruzione oggettiva della propria giovinezza, ma
di delinearne l'unica immagine possibile, che è quella del presente, cioè dal
punto di vista della vecchiaia.
Si trasferisce dalla provincia (Cuneo, è la sua città natale) nella casa dello
zio Giuseppe Peano, professore universitario. Si iscrive alla Facoltà di lettere
e filosofia, nella speranza che la laurea le garantisca maggiori possibilità di
lavoro. Ricorda di aver vissuto il fascismo con disinteresse e incredulità: la
sua autentica formazione culturale è determinata infatti dagli ideali socialisti
e pacifisti dello zio. All'amico dell'infanzia cuneese, Nino, scrive confidando
le proprie esitazioni in merito alle scelte ideologiche e politiche, ma anche i
propri timori sulla vita e sul proprio futuro. I suoi primi tentativi di
scrittura sono dominati da una sensazione di incompiutezza e definirà queste
prime prove letterarie come la «stupidità delle cose scritte».
La giovane decide di interrompere la relazione epistolare con Nino, che è
innamorato di lei, e vive la propria bellezza con malessere, sentendo il proprio
corpo «troppo vivo, troppo importante sconosciuto del resto, tanto che lo
trovavo ingombrante, e mi pareva spesso di detestarlo».
Nell'«Educandato Femminile», dove si trasferisce, non riesce a stringere vere
amicizie con le altre ragazze, tranne che con Andrée. Negli studi vorrebbe
scoprire la strada da seguire per la ricerca di una «verità ultima», e sarà
attratta da altre discipline (la matematica, la chimica, la medicina),
rimanendone comunque, alla fine, estranea. Il professor Pastore diventa il
consigliere delle sue letture e punto di riferimento culturale. Entra a far
parte della scuola di pittura di Lionello Venturi, con il quale nasce un
rapporto di stima e di attrazione sessuale, ma si innamora di un compagno di
studi, Altieri.
Dopo la laurea in lettere e filosofia, entra - su consiglio di Venturi - nella
scuola di Casorati, di cui la infastidisce il carattere, mentre ne condivide,
con orgoglio, l'antifascismo. Lascia definitivamente Altieri e, nell'amarezza
per l'amore fallito, scrive un racconto dal titolo Il manichino amoroso. Subito
dopo la laurea viene chiamata, come supplente, da una scuola di Cuneo. Si muove
tra gli studi di filosofia, il fascino della musica, la ricerca del mezzo
espressivo più naturale e personale, finché giunge alla scoperta della
scrittura, nella sorpresa e nell'angosciosa sensazione che il suo libro l'avesse
già scritto Proust.
Una giovinezza inventata non è soltanto il racconto di una giovinezza: è anche
il racconto della diversità dell'esperienza femminile in quanto costruzione
tragica, fra l'essere e l'esistere, lotta per trovare il proprio spazio come
donna originale e indipendente. L'autrice ha sempre tenuto a precisare che
autobiografia e memoria non sono la stessa cosa, e che i suoi libri non hanno
intenzioni autobiografiche. Perciò, spiegando il senso del libro, ha annotato:
«Tutto è storia in questo romanzo nel senso che i personaggi sono tutti veri,
con il loro nome e cognome. Ma insieme si può dire che tutto è inventato, nel
senso che questa è la mia verità poetica di quelle persone e di quel tempo. È la
giovinezza che diventa poetica nella vecchiaia».
Per Giovanni Raboni questo è un romanzo di educazione e di apprendistato, «nel
farsi della memoria sulla giovinezza»; dunque «documento d'insofferenza, di
estraneità, o parabola di una rivolta profondamente "inattuale" e forse
impossibile della coscienza di sé».
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