Il Canzoniere è il capolavoro di Saba e uno dei grandi libri della poesia
novecentesca. Raccoglie e ordina l'intera produzione poetica dell'autore, dalle
«Poesie dell'adolescenza e giovanili (1900-1907)» - inizialmente comprese nel
primo libro pubblicato da Saba, le Poesie del 1911 - ai sei componimenti di
«Epigrafe», in una complessa e stratificata opera lirico-narrativa. L'edizione
definitiva restituisce la sequenza di sezioni, raccolte, momenti nell'ottica di
un autore che per tutta la vita ha progettato il proprio corpus poetico come un
unico libro, sottoposto nel tempo a revisioni formali decisive anche per
indagare una psicologia assai complessa.
La prima sezione del Canzoniere ultimo, dunque, riunisce sotto il titolo di
«Volume primo (1900-1920)» i versi dell'apprendistato poetico, che il giovane
triestino compì significativamente sotto il segno dei numi tutelari Petrarca e
Leopardi, ovvero del "lido d'oro" della tradizione italiana. Già appaiono da una
parte l'amore per le forme chiuse, dall'altra la capacità di evocare figure e
paesaggi quotidiani, legati alle esperienze più intime del proprio "romanzo
familiare".
Seguono i «Versi militari», del 1908, un insieme di sonetti (forma
particolarmente cara alla gioventù di Saba) che ripercorrono l'illusione di aver
superato la propria diversità di poeta nell'Universo cameratesco della vita
militare. La breve sequenza successiva, «Casa e campagna», comprende la celebre
A mia moglie, in cui la giovane consorte Lina viene paragonata alle «femmine di
tutti / i sereni animali / che avvicinano a Die». «Trieste e una donna
(1910-1912)» è il capolavoro del primo Saba, per la capacità di dar vita al
paesaggio urbano e sentimentale racchiuso nella natia Trieste e per la
sconcertante sincerità melodica dei Nuovi versi alla Lina, nei quali viene
affrontato lo scabroso tema del tradimento coniugale. Seguono alcune raccolte o
sequenze, fra cui «La serena disperazione», «Cose leggere e vaganti,» e
«L'amorosa spina», che chiudono la prima parte dell'opera sciogliendo la già
solida capacità visiva e narrativa del poeta in un'onda cantabile che, pur
incontrando il netto dissenso dell'autore, qualche critico ha chiamato
metastasiana.
Il «Volume secondo (1921-1932)» è il cuore tematico dell'opera, la parte in cui
l'autore affronta più apertamente i fantasmi interiori, dando forma palesemente
autobiografica alla propria ricerca poetica, in un ambiguo e turbato
ripercorrimento della propria infanzia, di continuo svelata e nascosta. A
«Preludio e canzonette» fanno seguito appunto i quindici sonetti di
«Autobiografia» del 1924, e - con la parentesi "figurativa" e allegorica dei
«Prigioni» e di «Fanciulle», ancora in forme rigorosamente chiuse - la raccolta
«Cuor morituro (1925-1930)», in cui il poeta prende ad accostarsi al cuore
gioioso e doloroso insieme della propria infanzia e della propria nostalgia,
diversità e nevrosi, modi di essere ancor più che sentimenti, tutti tesi a
un'impossibile catarsi nella vita unanime, come appare dolorosamente nella
poesia Il borgo: «Fu nelle vie di questo / Borgo che nuova cosa / m'avvenne. //
Fu come un vano / sospiro / il desiderio improvviso d'uscire / di me stesso, di
vivere la vita / di tutti, / d'essere come tutti / gli uomini di tutti / i
giorni».
Al poemetto «L'uomo», del 1928, narrazione poetico-allegorica dedicata all'amico
Giacomo Debenedetti, segue quello che è considerato uno dei vertici stilistici
della produzione di Saba, ovvero «Preludio e fughe (1928-1929)», poesie che
cercano di mimare con la parola la vertigine della fuga musicale, costruite con
due o più voci rincorrentisi tra loro, a rappresentare concretamente un animo
diviso, come è chiaramente indicato nel componimento finale, Secondo congedo: «O
mio cuore dal nascere in due scisso, / quante pene durai per uno farne! / Quante
rose a nascondere un abisso!». Chiude la sezione la raccolta «Il piccolo Berto
(1929-1931)», in cui, parallelamente all'esperienza concreta della terapia
psicoanalitica, Saba rappresenta il gioco di specchi fra la propria
inattingibile infanzia e i significati riposti che vi cerca l'uomo maturo.
Il «Volume terzo (1933-1947)» ha i suoi punti di forza nelle sezioni «Parole»,
in cui la critica è unanime nel vedere un prosciugamento della consueta
narratività e un'essenzializzazione del discorso lirico (per influenza
dell'ermetismo); e «Ultime cose», dove, tra fitte malinconie e splendidi
ritratti umani, Saba si avvia a percorrere una lunga vecchiaia, quando le tante
ombre addensatesi nel corso della vita si rischiarano in un verso esperto ed
esemplare, quasi testamentario, come accade ad esempio in Sera di febbraio:
«Spunta la luna. / Nel viale è ancora / giorno, una sera che rapida cala. /
Indifferente gioventù s'allaccia; / sbanda a povere mète. / Ed è il pensiero /
della morte che, in fine, aiuta a vivere».
Preceduta da alcune brevi sequenze interlocutorie, legate alla tragedia della
guerra, si apre la celebre raccolta «,Mediterranee», relativa al felice
soggiorno romano del 1945 e alle trasfigurazioni mitologiche che si
sovrappongono nella mente del poeta agli affetti consueti; culmine ne è
l'autoritratto nelle vesti di Ulisse. Le raccolte «Uccelli», del 1948, e «Quasi
un racconto», del 1951, uniscono l'ormai limpidissima narratività di Saba a
un'affabulazione saggia e dolente che nelle storie "ornitologiche" di gabbie e
accudimenti svela una fiabesca allusività alle proprie e altrui prigioni, come
quelle che ancora una volta risalgono agli anni decisivi dell'infanzia: «Tra un
fanciullo ingabbiato e un insettivoro / che i vermetti carpiva alla sua mano, /
in quella casa, in quel mondo lontano, / c'era un amore. C'era anche un
equivoco».
Le «Sei poesie della vecchiaia (1953-1954)», infine, solo apparentemente segnano
il congedo del poeta, affidato invece, progettualmente, alle altre sei poesie di
«Epigrafe», predisposte già nel 1947-48 a chiudere il libro di tutta una vita
con la toccante rivelazione di Vecchio e giovane e con l'alta disillusione
politica nei confronti di un'Italia più desiderata che realmente posseduta.
Solo a partire dai pieni anni Venti la poesia di Saba cominciò a imporsi tra un
numero crescente di critici e letterati; ma, con l'eccezione dì Giacomo
Debenedetti, Sergio Solmi e Eugenio Montale, essa fu a lungo considerata
marginale rispetto alla centralità delle esperienze post-simboliste, o della
lirica pura. Lo stesso autore, parallelamente alla preparazione della seconda
edizione del suo volume, volle provocare la sordità di molti critici con La
Storia e cronistoria del Canzoniere (1948), trattato autocritico al tempo stesso
prezioso e ingannevole. Fu in quella sede che lo stesso Saba, certo alludendo al
proprio complesso gioco emotivo e stilistico di chiarezza e oscurità, poté
affermare che «Il Canzoniere è il libro di poesia più facile e più difficile del
Novecento».
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